Perdersi dentro o perdersi fuori

È difficile immaginare un Dio che sia del tutto diverso da noi, che sia ingiusto per i nostri criteri, che sia contrario alle nostre logiche. Ed è per questo che il posto di Dio è spesso preso e abitato da idoli, da immagini e volti più familiari, da idee e logiche a noi più vicine. Mettere un idolo al posto di Dio è questione sempre attuale. C’è sempre un vitello d’oro, un’immagine che sentiamo più vera, perché più comoda e più congeniale. Sarà il dio della libertà o della paura, della trasgressione o dell’osservanza, dell’entusiasmo o della fredda morale, dell’anarchia o della rigida sottomissione…

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Un “contratto” non ingannevole

Ci sono momenti in cui, pensando a Gesù e al suo Vangelo, sentiamo un forte entusiasmo e immediata adesione. C’è la voglia di mettersi in gioco, di dare inizio ad un tempo nuovo. È una partenza decisa, che non tiene conto di ciò che occorre, che non misura ciò che manca, che non vede ciò che è richiesto. E anche nell’annuncio, vogliamo raggiungere i grandi numeri e presentiamo Gesù con le strategie di marketing e promuoviamo la fede come fosse un’escursione in terra piana. Infiocchettiamo la Chiesa o, meglio ancora, la nascondiamo, annacquiamo il Vangelo e lo addomestichiamo per renderlo umano. Vogliamo aumentare il consenso, suscitare la simpatia, avere folle che vengano dietro.

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L’umiltà non è più una virtù

Tutta la vita è una rete di relazioni, di sguardi che si incrociano, di mani che si tendono, di parole che si affidano. E questa rete, spesso nascosta, prende forma e consistenza, diventa visibile e percepibile quando si è tavola, ad un banchetto. Lì si rivela la vita di ognuno, le scale sociali e i propri interessi, le priorità e le attese diverse. Gesù, in giorno di festa, è invitato a pranzo dal capo dei farisei. Egli accetta l’invito, accetta il rischio di essere oggetto, di essere studiato come fosse un problema, di essere osservato come fosse un ostacolo. Accetta il rischio di esporsi in una casa che appare nemica

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Non m’importa se l’inferno sia vuoto

Sono tante le questioni che sorgono quando si parla di Dio e del suo regno. E, mentre il tempo scorre, si perde tempo a fare teoria, a sfuggire alla presa, forte e potente, della vita. Si rendono la fede e il vangelo teoria su cui dibattere, curiosità su cui concentrarsi, opinioni sulle quali opporsi. E partono i dibattiti e gli scontri teologici, che, mentre dividono la Chiesa e i credenti, in realtà servono solo a intrattenersi e a crearsi un valido alibi per non lasciarsi inquietare e scomodare dalla parola del Vangelo. Rischiamo di diventare teorici e appassionati spettatori di un Vangelo che ci resta estraneo perché lo teniamo a distanza debita dalla nostra vita.

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Il disonore di credere

Può sembrare attraente una fede che metta al riparo, che culli e assecondi le nostre attese, che soddisfi le nostre pretese. È bello un “vangelo” che ci metta a sedere, che ci dia conforto e sollievo, che ci liberi dal peso di fratture e di cambiamenti, di contrasti e di divisioni. Ed è facile innamorarsi di questo “vangelo”, una parola buona per ogni stagione, una scelta accurata di ciò che non urta e non crea problemi.

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Dio viene a liberare la vita

È forte la tentazione di accomodarsi, di gestire le cose come fossero eterne, di vivere il tempo come fosse nostro. Rischiamo di abitare la storia come nostra definitiva dimora, fissando nel tempo le nostre ricchezze, affidando noi stessi a tutte le cose. E, invece, il tempo è sempre un notturno, è sempre assenza di ciò che conta, veglia e attesa di ciò che viene, ricerca e impazienza che arrivi la luce.

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Per vivere bisogna imparare a morire

Bisogna guardare in faccia la realtà. Se fissiamo lo sguardo su tutte le nostre ansie, i nostri deliri e le nostre passioni, le nostre frenetiche attività, si spalanca davanti a noi l’assurdo di ciò che tiene in ostaggio la nostra vita. Siamo preda e vittime del nostro affannarci, del nostro affaticarci con ansia, del nostro bisogno di afferrare e trattenere ogni cosa illudendoci di afferrare e fare nostra la vita. 

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Insegnaci a pregare per insegnarci a vivere

La preghiera è scandalo che contraddice il nostro modo di vivere, è appello che scardina le nostre certezze, è assillo che abbassa le nostre pretese, è grido che smonta le nostre presunzioni, è supplica che rivela la nostra mancanza, è pianto che mostra la nostra insufficienza. Ed è per questo che oggi pregare è un problema. Pregare è mettere in crisi il nostro delirio di autosufficienza, è gridare il nostro bisogno, è dichiarare la nostra debolezza. E anche i credenti fanno fatica ad accettare una preghiera che sia richiesta, invocazione di aiuto, un bussare, assurdo e imperterrito, ad una porta che stenta ad aprirsi. Bisogna chiedere al Figlio che ci insegni ancora a pregare perché solo così impareremo a vivere.

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Non dobbiamo salvare il mondo

È pericoloso sezionare il Vangelo, ridurlo a parti e renderle autonome. Il racconto del buon samaritano (domenica scorsa) e quello di Marta e Maria se non sono letti insieme ci fanno prendere abbagli, ci fanno pensare a contrapposizioni inesistenti e scegliere priorità inesistenti. Cosa è più importante? Amare Dio o il prossimo? Ascoltare la parola del Signore o darsi da fare? Restare seduti in silenzio o mettersi a servizio degli altri? Se nella parabola del buon samaritano, infatti, tutto è centrato sull’amore per il prossimo, che è vero se è impegno a farsi carico, se è preoccupazione che spinge a fare concretamente qualcosa, il racconto di Marta e Maria, invece, sembra spingere in senso contrario. Marta è sollecitata dal Signore a ripensare alle sue priorità, alla sua scelta di darsi da fare e Gesù indica, in quella scelta da Maria, la parte migliore che consiste, semplicemente, nel restare seduti ai suoi piedi per ascoltare la sua parola.

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Amare è farsi prossimo

Ereditare la vita eterna è possibile vivendo l’amore, facendo dell’amore il centro unificante di tutto l’essere, il cuore pulsante di tutto l’agire. Mentre viviamo il tempo della dispersione, della frammentazione, dell’alienazione risuona anche per noi la possibilità di unificare la nostra esistenza, di dare un volto alla nostra persona, di ricomporre i pezzi del nostro vissuto. Amando, Dio diventa il centro unificante di tutta la vita e impariamo a farci prossimi e vicini ad ogni uomo che incontriamo per strada. L’amore, infatti, non è teoria, ma concretezza fattiva che si fa carico, che si prende cura delle ferite di ognuno. 

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