Un “contratto” non ingannevole

XXIII Domenica Tempo Ordinario C (Sap 9,13-18; Fm 9b-10.12-17; Lc 14,25-33)

Ci sono momenti in cui, pensando a Gesù e al suo Vangelo, sentiamo un forte entusiasmo e immediata adesione. C’è la voglia di mettersi in gioco, di dare inizio ad un tempo nuovo. È una partenza decisa, che non tiene conto di ciò che occorre, che non misura ciò che manca, che non vede ciò che è richiesto.

E anche nell’annuncio, vogliamo raggiungere i grandi numeri e presentiamo Gesù con le strategie di marketing e promuoviamo la fede come fosse un’escursione in terra piana. Infiocchettiamo la Chiesa o, meglio ancora, la nascondiamo, annacquiamo il Vangelo e lo addomestichiamo per renderlo umano. Vogliamo aumentare il consenso, suscitare la simpatia, avere folle che vengano dietro.

Eppure Gesù chiarisce le clausole del discepolato, presenta un “contratto” che non è ingannevole e dichiara, con lettere chiare, le esigenze crudeli e forti.

Credere, infatti, non è vivere dell’entusiasmo di un momento, dell’esaltazione di un’occasione. Credere è sedersi e far di conto, considerare chi siamo, chi e cosa abbiamo, i nostri affetti e i nostri beni, i nostri possessi che riempiono il cuore. E proprio per questo occorre fermarsi e fare i conti, perché credere è decidersi, tagliare con tutti e con tutto, tagliare anche con se stessi, per intessere un tempo e uno spazio nuovo che abbia il sapore della gratuità e dell’abbandono, mentre si è pronti a sollevare una croce che attrae disgusto e derisione.

Credere è un’impresa ardua che rischia sempre di restare sospesa.

Una folla numerosa andava con Gesù (Lc 14,25)

Mentre Gesù è in cammino una folla numerosa procede insieme con lui, sembra seguirlo e voler fare il suo stesso cammino. È una folla che ha visto e sentito ciò che egli dice, è sedotta dalle sue parole e dai suoi gesti, forse entusiasta per le sue scelte. 

Sembra venuto a liberare la fede da ogni peso e costrizione, da norme strette e ormai poco chiare. È un entusiasmo che raduna gente: finalmente qualcosa di nuovo, qualcuno che merita che si faccia con lui un po’ di cammino.

Eppure Gesù non appare entusiasta, non sembra convinto di quella folla, non sembra sicuro del loro cammino. Invece di approfittare del suo successo, di assecondare le loro attese, di accarezzare le loro voglie, si fa duro e quasi crudele. 

Non vuole che ci siano equivoci, non si accontenta di un successo facile. Pone in chiaro le sue condizioni. Non basta provare simpatia per lui e per il Vangelo, non basta andare con lui, non basta restargli vicino, non basta prendere per buone alcune sue cose. 

Per essere suo discepolo ci sono esigenze forti e gravose, ci sono scelte che hanno il sapore del sangue e del dolore, che hanno l’asprezza di tagli decisi, di recisioni che lasciano soli, di violenze che non lasciano vivi.

Egli si voltò e disse loro:
«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo» 
(Lc 14, 26)

È questa la prima condizione per essere discepolo. Amare lui e amarlo del tutto, amare lui e amarlo per primo, amare lui e lui soltanto. Un discepolo non mischia gli amori, non asseconda gli affetti, non insegue il cuore. Amare lui e odiare (è questo il senso letterale del verbo usato) ogni altra persona perché solo lui potrà insegnarci ad amarla. Amare lui più di ogni altra persona, amare lui più della propria vita, amare lui perché nel suo amore ogni altro amore rinasca nuovo.

Gesù qui non condanna l’amore per i fratelli, ma rivela il fondo egoistico dei nostri affetti, le radici di possesso dei nostri amori. L’amore è altra cosa! È altra cosa perché non possiede e non trattiene, non condiziona e non pretende. E allora amando il Cristo noi impariamo a vivere del suo unico amore, che cresce e si irradia nella nostra vita, che taglia legami che fanno male, che rompe catene infiocchettate d’amore, che spezza vincoli profumati d’affetto.

Odiare (o amare meno) gli altri e la propria vita è porre ogni cosa al suo posto, vedere tutto nella prospettiva più giusta. E un discepolo vede tutto dalla prospettiva di Dio. Ed è Gesù a mostrarci come. Egli, infatti, ha rinunciato alla sua gloria di Figlio, ha fatto a meno della condizione divina, per rivelarci tutto il suo amore. Gesù ha amato noi più della sua stessa vita, ha amato il Padre e in quell’amore, totale ed esclusivo, ha amato ciascuno di noi. 

Essere suoi discepoli è amare come egli sa fare, è decidersi e scegliere rinunciando ai nostre legami, a noi stessi e alle nostre difese, agli altri che, spesso, diventano il nostro possesso e il nostro rifugio.

«Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo»  (Lc 14,27)

È questa la seconda condizione che Gesù pone alla folla numerosa che cammina con lui. È condizione che la ragione e il buon senso rifiutano. Eppure è chiara e senza preamboli. Viviamo in un tempo in cui in molti si affannano a dirci che il cristianesimo non è la religione della croce, che Dio non vuole la croce e cose del genere… Forse per paura di perdere altre folle, di spaventare quelli che sono rimasti o quelli che, entusiasti per qualche motivo, ancora non vedono l’esito della loro sequela. E allora tentiamo di tenerli all’oscuro, di far tacere queste parole. 

Gesù, invece, non ha paura e dice parole forti che si incidono nel cuore e sulla faccia. Andare dietro a lui sollevando la propria croce è accettare l’ignominia e la disfatta, il disprezzo e l’insulto. Essere discepolo è portare il peso di questa scelta, è accettarne le conseguenze e anche il dolore. Perché essere discepolo resta sempre una scelta controcorrente, che espone al disprezzo e al rifiuto degli altri. Essere discepolo è affrontare e portare il peso di questa scelta, il dolore che incide sulla pelle e nel cuore.

Essere discepolo significa esporsi alla vergogna e all’insulto perché è andare contro il senso comune, è fare scelte che ci feriscono, è decidersi ad affrontare il dolore e anche la morte pur di essere discepoli del Crocifisso.

Ci sono croci nascoste e croci pubbliche, ci sono dolori che sanguinano e scelte che fanno tremare, ma ciò che conta è sollevare la croce e andare dietro a Colui che ci precede. E allora vivere potrà anche apparire come una continua salita al Calvario, ma sarà, lo sentiamo nel cuore, una salita densa di festa, perché saremo lì dove egli è.

«Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”.
Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace.
Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo» 
(Lc 14, 28,33)

La terza condizione è presentata con due parabole. Ci fa comprendere che è qui la chiave di volta, l’innesco di ogni vera sequela, l’inizio e il problema del vero cammino. Per essere discepolo bisogna rinunciare a tutti gli averi. È richiesta forte e senza speranza. Non ammette vie di fuga o uscite di sicurezza. Ed è una scelta che va ponderata. Bisogna sedersi e fare i conti. Bisogna calcolare la spesa, ciò che investiamo in questa scelta. Bisogna esaminare se possiamo, con le nostre forze, affrontare una sequela che ha il sapore di essere una guerra.

A chi vuole costruire la torre mancano i mezzi, al re mancano gli uomini, a colui che vuole diventare discepolo deve mancare tutto, perchè deve rinunciare a tutti i suoi averi se vuole portare a termine l’opera che ha già iniziato.

No, non basta l’entusiasmo per essere discepoli. A nulla serve rendere simpatico e accattivante il Vangelo, a nulla serve un marketing rinnovato che faccia apparire il discepolato come la fine di tutti gli incubi, come la liberazione da ogni esigenza, come l’esaltazione di ciò che già siamo. È ingannevole presentare alla gente e a noi stessi un Vangelo che coincide con il buon senso, con i buoni sentimenti, con le attese e le nostre pretese.

Gesù ci propone un contratto chiaro, non ci sono clausole nascoste e ingannevoli. A noi la scelta ponderata e chiara di non fermarci all’entusiasmo iniziale, ad una sequela a mezza strada. A noi la scelta di fare sul serio!

Liturgia della Parola

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