Amare è farsi prossimo

XV Domenica Tempo Ordinario C (Dt 30,10-14; Col 1,15-20; Lc 10,25-37)

Ereditare la vita eterna è possibile vivendo l’amore, facendo dell’amore il centro unificante di tutto l’essere, il cuore pulsante di tutto l’agire. Mentre viviamo il tempo della dispersione, della frammentazione, dell’alienazione risuona anche per noi la possibilità di unificare la nostra esistenza, di dare un volto alla nostra persona, di ricomporre i pezzi del nostro vissuto. Amando, Dio diventa il centro unificante di tutta la vita e impariamo a farci prossimi e vicini ad ogni uomo che incontriamo per strada. L’amore, infatti, non è teoria, ma concretezza fattiva che si fa carico, che si prende cura delle ferite di ognuno. 

Un dottore della Legge si alzò per mettere alla prova Gesù e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?» (Lc10,25)

È sempre facile trovare esperti, gente che sa tutto e che ha le soluzioni per ogni problema. Ma qui a farsi avanti è un dottore della Legge, uno che conosce il volere di Dio, sa leggere nelle pieghe del Libro, sa scrutare nel fondo di ogni regola e norma. Si alza per mettere alla prova Gesù. In realtà non sembra animato da cattive intenzioni. Vuole saggiare quello strano Maestro.

La domanda è quella di sempre, quella che si nasconde in ogni anfratto del nostro vivere, che, di nascosto, muove le nostre decisioni, spinge la nostra azione, motiva le nostre scelte. È la domanda che vale una vita, è il dubbio che anima tutto. “Cosa devo fare per ereditare la vita eterna?” Oggi facciamo fatica a renderla esplicita, ci vergogniamo di farla emergere. 

Eppure è a questo che diamo risposta in ogni istante del nostro esistere. Facciamo cose per vivere appieno, per rendere eterno il nostro vivere, per rendere pieno il nostro sentire, per soddisfare la voglia di essere. 

Qui, invece, la domanda è resa esplicita. La vita eterna, la vita piena, quella beata e resa felice, quella che il tempo non rende incolore e che le ansie e gli affanni e persino la morte non possono turbare ed eliminare, ebbene, quella vita che è il sogno segreto di tutta la vita non è merito e non è conquista, non è possesso o presa con forza. La vita eterna è eredità a cui si partecipa, è dono gratuito a cui si arriva, è disponibilità che ci è messa davanti. E allora il fare è necessario perché l’eredità non vada in malora, perché il dono non sia rifiutato, perché la vita non sia resa vuota. La domanda del dottore della Legge è intrisa di fede e di concretezza. Perché credere è avere la vita e per riceverla bisogna fare qualcosa per assomigliare un po’ a quel Padre che dona ai figli la sua eredità. 

Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?» (Lc 10, 26)

Gesù risponde, al suo solito, con una domanda. Bisogna ritornare alla Legge, al patto che è stato stretto. Gesù non presenta un Dio diverso, ma spinge a rileggere il volto di Dio, a ritornare a quelle parole per leggerci dentro il mistero del vivere. Bisogna leggere ciò che è scritto ma poi bisogna sapere come si legge. La Legge scritta nel Patto può essere ostacolo o diventare slancio, può far cadere o accompagnare, può chiudere o aprire il cammino. Gesù conferma che egli, Parola del Padre, è compimento di ogni altra parola, è senso e ragione di tutta Legge. 

Il problema, per Gesù, non è mai la legge o la norma, ma come leggiamo, in essa, il volere di Dio, come leggiamo la sua presenza, come leggiamo le sue parole.

Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso» (Lc 10, 27)

Nella risposta c’è tutto Dio e c’è tutto l’uomo. C’è tutto l’amore che rende eterna la vita. Amerai è il comando di sempre, è la parola da rileggere ancora, da rendere nostra per renderla vera. Un solo verbo che regge il mondo, che si rivolge a Dio, al proprio prossimo, e a se stessi. È l’amore a tenere insieme la vita, a renderci unici e a renderci uno.

Se nella vita sono tante le cose e le situazioni che ci frammentano, che ci spezzano, che ci alienano, solo l’amore può riappacificarci con noi stessi, può ridare unità al nostro vivere, può offrire sintesi alla nostra vita. Ed è per questo che Dio va amato con tutto il cuore e con tutta l’anima, con tutta la forza e con tutta la mente. Dio non può essere amato spezzando a pezzi la nostra vita, dividendo il nostro vissuto, sperperando le nostre risorse. L’amore per Dio riunifica la nostra identità, ci restituisce a noi stessi, rende mosaico i nostri frammenti. E il nostro volto, disseminato in mille storie, amando Dio diventa unico. E poi l’amore diventa cascata, raggiunge noi e il prossimo nostro. Diventa fiume che invade la storia, che rende la vita piena e divina. Il dottore della Legge sa il fatto suo. Conosce davvero ciò che più conta. Ma ora è Gesù a sfidarlo, ad invitarlo a procedere oltre. 

Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai» (Lc 10, 28)
Ama e vivrai! Perché per amare non basta sapere, non basta conoscere e rispondere bene. Bisogna amare e rendere amore tutta la vita. L’amore non è sentimento o buoni pensieri, l’amore è azione, è fare la vita. Ogni amore che non sia concreto, che non sia fatto e vissuto è solo retorica e moralismo. Ad amare si impara amando e vivendo l’amore si impara a vivere di vita eterna.

Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?» (Lc 10, 29)

Se Gesù rimanda alla vita concreta, all’amore che deve essere fatto perché la vita sia resa eterna, il dottore della Legge indugia e insiste nel porre domande. Vuole giustificare il suo interrogare. Vuole capire come Gesù legge quello che nella Legge c’è scritto. È per questo che ora pone una nuova domanda. Come stabilire chi è il mio prossimo? Come decidere chi bisogna amare? Come selezionare i destinatari di quel fare amorevole che la Legge comanda? Bisognerà certo indicare dei confini, porre delle distinzioni, usare dei criteri. Bisogna, insomma, definire chi è il prossimo che deve essere amato.

Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levìta, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno” » (Lc 10, 30-35)

Gesù raccoglie questa domanda e accompagna il dottore della Legge alla scoperta di un senso nuovo, aperto proprio da questa storia. È una parabola che ben conosciamo, per questo mi fermo ad evidenziare solo alcuni aspetti. Di questa parabola ci piace molto il fatto che passino oltre o meglio che cambino lato della strada proprio un sacerdote e un levìta. Dà soddisfazione sapere che i due esempi da non imitare sono persone legate al tempio e al culto, diremmo persone sacre. E alla fine rischiamo di leggere in queste parole ciò che vogliamo sentirci dire: che i peggiori sono quelli che sembrano più vicini a Dio, quelli che dicono di amarlo, quelli che “perdono” tempo con lui. In realtà, dobbiamo fare attenzione. Gesù qui sta rispondendo alla questione dell’amore del prossimo. E per farlo sottolinea che l’amore per Dio resta monco e parziale, povero e inefficace se non si conferma nell’amore fattivo per il prossimo.

Nel racconto successivo, però, quello di Marta e Maria, illustra invece l’altra faccia della medaglia, ossia che l’amore e il darsi da fare per gli altri non basta e non è sufficiente se manca la parte migliore, se non è nutrito e reso autentico dall’amore per Dio e per la sua presenza.

Per ereditare la vita eterna bisogna amare. Dio, il prossimo e me stesso sono tenuti insieme e retti da quest’unico amore che rende eterna la vita. 

Il Samaritano è un uomo lontano dalla fede vera. Non accoglie la Legge e non vive il tempio. È un uomo eretico. Ma, invece di passare oltre, passa accanto e ne ha compassione. È un uomo che vibra dell’amore di Dio, che ha compassione per l’uomo ferito, che prova dolore per chi è nell’affanno. Ed è proprio lui a interrompere il viaggio, ad avvicinarsi alle ferite. Sa farsi carico, sa prendersi cura, sa amare senza misura. Eppure era un uomo samaritano, un uomo lontano, fuori contesto in quella strada, estraneo a quell’ambiente.

«Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?» (Lc 10, 36)

La domanda è chiara e ancora più chiaro diventa il racconto. Mentre il dottore della Legge pone una questione teorica, cerca un limite da porre all’amore, Gesù lo conduce oltre, lo porta altrove. Non è questione di chiedersi chi sia il mio prossimo, chi sia colui che devo amare. La vera questione è chiedersi cosa fare per diventare il prossimo dell’altro, di colui che è incappato nei briganti, di colui che soffre ed è mezzo morto sul ciglio della mia stessa strada.

Gesù capovolge la prospettiva e l’aspettativa. Ribalta il senso ordinario della Legge e insegna a leggerla nella sua profondità e verità. Amare il prossimo ponendo criteri e distinzioni, selezioni e priorità è troppo poco e troppo comodo. 

Per leggere bene cosa significhi amare il prossimo bisogna imparare a farsi prossimo. Perché non si può scegliere chi amare, chi soccorrere e prendere in cura. Amare è imparare ad accostarsi ad ogni uomo che incrociamo sul nostro cammino, provare per lui compassione e tenerezza.

Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così» (Lc 10, 37)

Il dottore della Legge aveva iniziato mettendo alla prova Gesù. Si è lasciato guidare in un nuovo cammino, in una nuova comprensione della Legge, in una nuova visione dell’amore.  Sull’amore non si fanno teorie, ma passi che avvicinano e fanno sentire il dolore degli altri, fanno sentire il loro respiro. E Gesù apre al dottore della Legge il senso e la profondità di ciò che nella Legge è scritto. Chi ha compassione, chi ha un cuore come quello di Dio sa farsi prossimo, sa amare e vivere i gesti concreti dell’amore. 

La prospettiva è ribaltata. Gesù lo manda, lo manda ad amare, non a circoscrivere l’amore e a delimitarlo. Lo manda a farsi prossimo, a farsi vicino a tutti coloro che, lontani per tanti motivi, hanno bisogno della sua cura e compassione.

E si rivela così il volto di Dio! Gesù è quel samaritano che si è fatto vicino, si è fatto prossimo al dottore della Legge, si è fatto carico delle sue presunzioni, si è preso cura della sua vita. Lo ha accompagnato, con pazienza e tenerezza, senza giudicarlo o metterlo in imbarazzo.

E anche noi, alla fine di questa storia, ci sentiamo un po’ più fragili, meno sicuri del nostro amore, meno certi del nostro fare. Ma sappiamo che Gesù, samaritano, si fa prossimo alle nostre paure, si fa vicino alle nostre incertezze, ha compassione delle nostre lentezze. E il suo amore diventa cura, si fa sollievo e presa in carico perché impariamo, in ogni momento, a farci prossimi di chi è nel bisogno, a farci vicini a chi è ai margini della vita. Non possiamo scegliere il prossimo da amare, ma possiamo sempre scegliere di farci prossimi a chi incontriamo lungo la strada.

Questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica (Dt 30,14)

La Legge quella data a Mosè e quella che in Gesù ha preso carne non è precetto o serie di norme, ma parola di Dio che si è fatta vicina, che è resa possibile e alla nostra portata. È Dio il primo che si è fatto prossimo, si è fatto vicino alla nostra vita. Ed è per questo che noi possiamo imparare ad accogliere lui e la sua parola nella bocca e nel cuore, perché da dentro ci trasformi e ci renda vivi della vita eterna per quell’amore che salva ogni cosa.

Liturgia della Parola

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