Perdersi dentro o perdersi fuori

XXIV Domenica Tempo Ordinario C (Es 32,7-11.13-14; 1 Tm 1,12-17; Lc 15,1-32)

È difficile immaginare un Dio che sia del tutto diverso da noi, che sia ingiusto per i nostri criteri, che sia contrario alle nostre logiche. Ed è per questo che il posto di Dio è spesso preso e abitato da idoli, da immagini e volti più familiari, da idee e logiche a noi più vicine. Mettere un idolo al posto di Dio è questione sempre attuale. C’è sempre un vitello d’oro, un’immagine che sentiamo più vera, perché più comoda e più congeniale. Sarà il dio della libertà o della paura, della trasgressione o dell’osservanza, dell’entusiasmo o della fredda morale, dell’anarchia o della rigida sottomissione…

Ed è per questo che, alla fine, conta poco se abbiamo deciso di andarcene fuori e lontano da Dio o se abbiamo eletto il suo tempio a nostra casa e abbiamo scelto di restargli vicino. 

Siamo sempre sull’orlo dell’idolatria, perché il peccato ci è naturale, perché è dura la nostra cervice. Perché di Dio ci facciamo immagini invece di lasciare che ci venga incontro, che esca fuori e ci parli ancora, ci stringa a sé e ci chiami figli.

Per ogni idolo che ci delude, per ogni fantoccio che ci fa schiavi, per ogni idea che ci rende servi, Dio, invece, continua a mostrarci il suo amore, un abbraccio che non ha confini, un volto che è caldo e ci dice “figlio” anche quando noi non sappiamo più dire “padre” e non riusciamo a vedere il fratello.

Si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola (Lc 15, 1-3)

Gesù attrae i lontani, peccatori e pubblicani, che si avvicinano per ascoltarlo. I farisei e gli scribi, invece, sono i vicini, vivono nella casa di Dio, lo servono e lo conoscono. Nasce così un confronto aperto, fatto di mormorazione e di giudizio. 

Ed è per loro, per quelli che sono dentro e sembrano giusti che Gesù racconta una parabola. È un unico racconto in tre fasi, è una storia narrata in tre parabole perché emerga pian piano il volto degli uomini, che siano scribi o pubblicani, farisei o peccatori. E mentre si mostra il vero volto di ognuno, Gesù propone il volto di Dio, quello di un Padre che cerca i suoi figli.

Le tre parabole della misericordia sono tre lampi gettati sul mondo, tre discese nell’abisso umano, tre aperture sul mistero divino. Le parabole ci dicono chi siamo e ci svelano chi è Dio, ci mostrano il peccato che teniamo nascosto e ci rivelano il Padre e tutto il suo amore.

«Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova?

Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? (cf. Lc 15, 4-10)

Dio ha i volti di un pastore che non ha pace, di una donna in ansia, di un padre che non può dormire. Dio si mostra nella sua debolezza, rivela il suo punto debole, mostra il fianco alle nostre pretese. 

Dio è così, come un pastore che ha perduto una pecora, lascia le altre e corre fuori a cercarla e, una volta trovata, se la carica sulle sue spalle. E poi fa festa e si rallegra, perché ha riportato a casa la pecora perduta fuori.

Dio è così, come una donna che va in cerca in casa della moneta perduta. Ne ha delle altre, ma non si rassegna, cerca e mette ogni cosa a soqquadro, ribalta tutto, per trovare quella smarrita, per stringere in mano quella perduta. 

Ci sono strade che Dio percorre, forse al buio e al freddo, per trovare, fuori sentiero, la pecora perduta, quella che ha scelto di andarsene lontano, di abbandonare il gregge e il pastore. 

C’è una casa da mettere a soqquadro, ci sono mobili e cose da spostare perché sia trovata la moneta nascosta, quella che è dentro senza saperlo, quella che è smarrita anche se è in casa. 

Un uomo aveva due figli… (Lc 15,11)

E Dio è un padre che ha in cuore due figli. Li ha nel cuore e nella sua casa, ma sono figli già pronti a perdersi, a rinunciare al suo volto di Padre, a rinunciare alla vita di figli, a rinunciare ad essere fratelli.

I figli sono due e sembrano uno, ciascuno chiuso nel suo tornaconto, nel suo disprezzo del dono avuto. Confondono il Padre con il loro padrone, si sentono schiavi e non più figli.

Si sono fatti un vitello di metallo fuso, poi gli si sono prostrati dinanzi, gli hanno offerto sacrifici e hanno detto: “Ecco il tuo Dio, Israele, colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto” (Es 32,8)

Sono come tutto Israele, come ciascuno di noi. Abbiamo idoli duri a morire perché è dura a morire la nostra testardaggine, il nostro pensarci al posto di Dio, il nostro volerlo a immagine nostra. E diamo vita ad un dio tiranno, egemone e despota sulle vite degli altri e poi sentiamo il peso della sua oppressione, sentiamo la forza della sua presunzione. E poi ne subiamo le conseguenze e le infliggiamo a chi ci è accanto.

E invece Dio è del tutto diverso. È come un pastore in cerca di notte, è coma una donna che spazza la casa, è come un padre che è sempre fuori, in cerca e in attesa di incrociare lo sguardo dei figli.

Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta” (Lc 15, 12)

Il figlio minore è quello più sveglio. Sa cosa vuole e come ottenerlo. Vuole in cuor suo la morte del Padre, vuole una vita lontana da lui, una libertà che non si misuri, una distanza che lo faccia sentire vivo. E prende la sua eredità, dichiara morto ogni legame e va lontano a sperperare la vita. Ma la vita è un dono che non si possiede. Si è vivi se si ha un Padre, se si ha un volto in cui guardarsi, se si ha una mano alla quale appoggiarsi, se si ha un grembo nel quale rinascere. 

Va via e sperpera tutto, spende tutto il suo essere figlio, lo dissipa e diventa schiavo. 

Non c’è altro modo di restare al mondo: o si è figli o si è schiavi. Tutto il resto è solo illusione, è solo idolo che inganna e deforma. O si è figli o si è schiavi. E il problema è confondersi, è non saper prendere le misure, è non capire dove si è a casa e dove invece si è in schiavitù. Ma il figlio minore è furbo e sa come va il mondo. Sa accontentarsi e, quindi, decidersi. Meglio vivere da servi e restare vivi. 

Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre (Lc 15, 17-20)

Il suo progetto di ritornare a casa non è l’inizio della conversione, non è la coscienza della propria distanza. È solo fame e opportunismo. Egli prepara le parole da dire: sono un contratto tra un servo e un padrone, sono un’offesa al volto del padre, sono un oltraggio al suo essere figlio. Egli dichiara l’illusione di sempre. 

Nessuno merita di essere figlio, nessuno ha meriti per avere un padre. Il figlio minore rinnega la gratuità che prende un uomo e lo rende padre, che fa di ogni uomo un figlio amato. Nessun figlio è tale perché ne è degno, nessuno ha un padre perché lo ha meritato. Non è così nei rapporti umani. Non è così nei rapporti con Dio.  

Il figlio parte per fare ritorno, per rientrare da servo in quella casa che a lui, da figlio, sembrava stretta, troppo piccola per le sue ambizioni, troppo ristretta per le sue presunzioni. 

Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò (Lc 15, 20)

E il miracolo ha inizio ora. Il Padre, già da lontano, lo vede e ne ha compassione. È un Padre che veglia sulla strada di casa, che osserva il lontano orizzonte, che spera che quel sentiero riporti a casa il figlio perduto. Egli vede e ha compassione! Ed è quel suo sguardo, forse, la vera attrazione. Perché in quello sguardo ogni figlio rinasce, ogni uomo si sente a casa.

Il figlio, però, non può dire tutte le parole che ha preparato. Sono bestemmia e insulto al padre, sono oltraggio al vero amore. Può dire soltanto il suo peccato, può dire ancora che lui ha tradito il suo essere figlio. Non può andare oltre nel discorso che ha preparato. Perché sarebbe idolo credere in un Dio che vuole servi, sarebbe bestemmia pensare a Dio come a un padrone, come a un signore che ci tratta da salariati.

A dirla tutta, però, i gesti del padre lasciano senza parole. Ci sembrano ingiusti e senza ritegno. Troppo esagerato, troppo veloce e troppo imprudente. Addirittura è pronto a far festa. Ci aspetteremmo un tribunale, un po’ di tempo di messa alla prova, un po’ di condanna e di esclusione. O almeno un rimprovero che umili il figlio che pensava di farsi da solo. E il padre, invece, sperpera ancora le sue ricchezze per festeggiare un figlio degenere.

Ma quel figlio non era il solo. 

Il figlio maggiore si trovava nei campi… Egli si indignò, e non voleva entrare. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (Lc 15,25-31)

C’è il figlio maggiore, quello buono e perfetto, che è sempre restato in casa, ma ci è rimasto come un servo resta davanti al suo padrone. Ed ora, è indignato e non vuole entrare. Resta fuori perché si è perso da tempo, sebbene sia rimasto dentro. Si sente servo, tutto dedito ad obbedire ai comandi. È preso soltanto dai suoi doveri che servono a tenere buono quello che ai suoi occhi non è più un padre, ma solo un padrone, forte e severo.

Ha dimenticato di essere figlio, ha ignorato di avere un fratello perché, ormai da tempo, ha smarrito il volto del Padre. È vittima della sua invidia, è posseduto dalla gelosia.

Questo padre, invece, è sempre in uscita, sempre fuori e alla ricerca. Perché ci si può smarrire andando lontano, come la pecora e il figlio minore, e ci si può perdere restando dentro, come la moneta e il figlio maggiore. 

Questo padre ha figli perduti, il minore fuori e lontano da casa, il maggiore dentro e vicino a lui. 

Si è sempre perduti quando si confonde Dio con le sue immagini, quando si pensa Dio come fossimo noi. Peccato è non riconoscere di essere figli e non vedere l’amore del Padre, restare rigidi nei propri meriti o avere la spocchia di farsi da sé. 

Un padre aveva due figli e li ha persi entrambi, li ha perduti perché non hanno visto i suoi occhi gonfi d’amore, gonfi di lacrime e di compassione. Aveva due figli e nessuno dei due lo credeva Padre, nessuno dei due lo riconosceva come il legame che li tiene insieme. 

Il figlio maggiore rifiutando il fratello rifiuta e nega di avere un padre. E se il figlio minore, già all’inizio, vuole la morte del padre per essere libero, è alla fine il figlio maggiore a non riconoscere il padre, perché non sa più dire “mio fratello” ma si limita a dire “questo tuo figlio”.

Ed è così che pubblicani e peccatori, scribi e farisei, sono insieme e tutti perduti, ma tutti figli che il Padre cerca ed egli li attende sull’uscio di casa.

E questo Dio sgomenta e mette in crisi, spacca e rompe i nostri idoli e la sua immagine che abbiamo creato. Abbiamo bisogno di libertà e non sappiamo che solo l’amore rende liberi, che solo l’abbraccio fa andare lontano, che solo il perdono fa sentire a casa. 

Ci sono sempre due modi di perdersi, di perdere Dio e il suo volto di Padre. Si può restare dentro o andare fuori, ma ciò che salva è sempre quel volto, quell’amore che si fa compassione, grembo accogliente in cui sboccia la vita, in cui si rinasce come figli e fratelli.

Le tre parabole sono una soltanto, la storia di un Padre che ha figli che, sebbene vicini o già lontani, sono persi e da cercare. Ed è per questo che ogni giorno c’è un pastore che va fuori e una donna che cerca dentro, c’è un Dio in attesa e in ansia perché sia visto il suo volto d’amore, che rende figli e ci rende fratelli.

Si può andare 
a volte
lontano da casa 
e ci si può perdere 
restando dentro.
Si può essere schiavi 
smarrendosi fuori e
si può essere schiavi
restando dentro.
Ci si perde per troppo coraggio 
e ci si perde per troppa paura.
Ci si perde sempre 
quando la vita 
vede Dio 
nel volto triste 
di un severo padrone.
Ed egli esce fuori,
ci viene incontro 
per mostrarci
il suo volto di Padre, 
per farci sentire il suo calore,
per toccarci con mani
che risanano il cuore.
E non si è figli 
se non si è fratelli,
se non si vive 
l’abbraccio del Padre
che stringe 
e tiene insieme
i figli perduti 
che sono fuori
e anche quelli 
rimasti in casa.
E per gli uni come per gli altri
la gioia e festa 
è tutta 
racchiusa 
in quello sguardo d’amore 
che chiede a ciascuno 
di restare figli,
che insegna a tutti
a diventare fratelli, 
perché non c’è figlio
che vanti dei meriti
per meritare l’amore del Padre.

Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna (Tm 1,15-16)

Liturgia della Parola

Condividi