Non m’importa se l’inferno sia vuoto

XXI Domenica Tempo Ordinario C (Is 66,18b-21; Eb 12,5-7.11-13; Lc 13,22-30)

Sono tante le questioni che sorgono quando si parla di Dio e del suo regno. E si perde tempo a fare teoria per sfuggire alla presa, forte e potente, che il Vangelo ha sulla vita.

E partono i dibattiti e gli scontri teologici, che, mentre dividono la Chiesa e i credenti, in realtà servono solo a intrattenersi e a crearsi un valido alibi per non lasciarsi inquietare e scomodare dalla parola del Vangelo. Rischiamo di diventare appassionati spettatori di un Vangelo che ci resta estraneo perché lo teniamo a debita distanza dalla nostra vita.

Io non so se l’inferno sia vuoto, non so se i buoni atei siano nel regno, non so se i cattivi siano all’inferno, non so nulla di tutto questo e, per quanto possa incuriosirmi e interessarmi, so che non è per questo che mi è donato il Vangelo, non mi è dato per lambiccarmi il cervello, per risolvere enigmi e avviare dispute. 

Il Vangelo mi è stato donato per lasciarmi scarnificare e fare piccolo, per lasciarmi incidere sul corpo e sul cuore, sulla mente e sulla mia volontà i segni chiari e visibili che possano rendermi riconoscibile, che possano un giorno diventare la mia identità. Perché arriverò anch’io a bussare a quella porta che sembra chiusa e, allora, mi sarà chiesto di esporre non teorie o belle idee, non simpatia e interesse, non curiosità e vicinanza, ma i segni vivi che il Vangelo ha impresso nella mia vita, i tratti che Dio ha scavato in me per rendermi simile a lui. 

Gesù passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme (Lc 13,22)

Gesù è in cammino verso il compimento di tutta la storia. È diretto a Gerusalemme dove, nel rifiuto e nell’odio, farà risplendere il suo amore e il suo dono, il suo farsi servo senza misura. E mentre è orientato alla croce, continua ad insegnare nelle città e nei villaggi, a porre i segni che mostrano la strada, che indicano la direzione, che orientano ogni cammino.

Un tale gli chiese: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?» (Lc 13,23)

È una domanda lecita, sembra innocente e sincera, eppure è tipica di chi non ha conosciuto il Vangelo, di chi non ha preso sul serio le sue parole. 

È anche un dubbio che ci resta ancora. Questa domanda risuona ancora in mille contese, in sfiancanti e deludenti conflitti e interpretazioni. Eppure in questa domanda, come nelle tante domande che dividono e contrappongono i credenti, si nasconde spesso l’alibi per non volersi impegnare, il bisogno di restare indietro e lontano, osservatori di una storia e di una Parola che, invece di impegnare la vita, di rinnovarla e renderla nuova, ci limitiamo a studiare e a guardare da lontano. 

Anche oggi, a che serve sapere se l’inferno sia vuoto, se i giusti non credenti si salvino o se i credenti che hanno peccato (e trovatemi qualcuno che non ne abbia) siano davvero ammessi nel regno? Serve a noi, a seconda delle nostre idee, per condannare gli altri o giustificare noi stessi. Per alcuni è importante vedere il Vangelo nella sua durezza, ci serve per farci giudici impietosi degli altri che, poiché sono peggiori di noi, ci fanno sentire migliori. Per altri, l’annuncio della salvezza e dell’inferno vuoto serve per evitare di impegnare la vita, ci serve per lasciare le cose così come sono, per non impegnare noi stessi in quella lotta e in quell’agone di cui non abbiamo voglia.

Ma il Vangelo ci urta e ci viene incontro, non è pretesto per dire cose, non è occasione per parlare di altro, non è scusa per parlare di altri.

So che è a me e a me soltanto che devo ricordare il Vangelo, è a me che parla per scuotermi dal mio torpore. A nulla serve diventare esperto di parole divine senza ascoltarle e farle entrare nella propria vita.

Disse loro: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno» (Lc 13, 24)

E Gesù, al suo solito, non risponde a quella domanda. Ogni volta che è interrogato su questioni fondanti, su teorie che a noi sembra necessario chiarire, rimanda ciascuno a se stesso e alle sue scelte. Egli smaschera gli alibi che intrattengono la mente quando non abbiamo voglia di impegnare la vita.

Gesù rilancia e porta in avanti il dubbio del tale che lo ha interrogato. Prende quella domanda e la fa entrare con forza nella vita di chi si limita a fare teorie. 

A te non importa se siano pochi quelli che si salvano, a te deve importare che sia tu a sforzarti di entrare per la porta stretta. Perché potresti essere tu, uno tra i molti, a non riuscire ad entrarci. 

Gesù non toglie il dubbio, anzi rincara la dose. Se nella domanda erano pochi a salvarsi, Gesù afferma che sono molti a non entrare. Ma non è più teoria o gioco intellettuale. È ora sforzo, lotta, impegno e agone perché bisogna fare di tutto per entrare per la porta stretta.

“Sforzatevi”, in realtà, è lottate, “agonizzate”. È lo stesso verbo che viene usato per Gesù che “agonizza” nell’orto degli ulivi. La salvezza non è una quiete da fare nostra, ma una lotta all’ultimo sangue, uno sforzo su cui concentrarsi, un impegno per cui battersi. 

Salvarsi non è farsi tirare in una cordata, non è intrufolarsi perché, tanto, si è parte di qualcosa e si conosce qualcuno. Entrare è impegnarsi in prima persona, facendosi piccoli e senza nulla, abbandonando ciò che è di peso e ci è di ostacolo. Bisogna agonizzare per attraversare la porta stretta, l’unica via che porta al Signore.

Le parole di Gesù non accarezzano le nostre voglie, non assecondano le nostre aspettative. Molti non riusciranno ad entrare perché non avranno il coraggio di farsi piccoli, di abbassarsi alla giusta misura, di rinunciare ad orpelli e ideologie, a teorie costruite per non impegnare e mettere in gioco la vita.

«Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”» (Lc 13,25)

E poi arriva il momento in cui anche la porta stretta viene chiusa. Il rischio è di restare fuori, per aver usato il vangelo come occasione per scambio o scontro di idee, per aver vissuto la fede come sonnifero, per aver creduto come si crede a notizie che non ci interessano e non ci cambiano la vita. 

“Signore, aprici!” è la supplica che viene da fuori, da chi non è stato al passo, da chi non ha seguito il suo Signore, ma si è limitato a vederne la strada, ad indovinarne la traiettoria. Si resta fuori quando non si ha il coraggio di arrivare alla meta seguendo la sua stessa strada, anche se stretta e in salita, anche se difficile e piena di ostacoli.

E da dentro la risposta arriva. Sembra dura e irremovibile. “Non so di dove siete”, come a dire: non conosco la vostra origine, non è mia e non mi appartiene. Non è mia la strada che avete fatto. 

La risposta del padrone, però, non li accusa per il ritardo, altri arriveranno anche dopo e saranno ammessi ad entrare. Ma non si può entrare se si resta estranei, se non si ha nel cuore e nel volto qualcosa di familiare, qualcosa che racconti che la propria origine e la propria storia è stata segnata dal Signore, reca impressi i suoi segni e la sua vita.  

«Allora comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”. Ma egli vi dichiarerà: “Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!”» (Lc 13,26-27)

Si resta fuori anche se si è orecchiato il Vangelo, anche se si ha un po’ di pratica con le cose di Dio. È opportuno non fraintendere qui il testo e non far dire a Gesù ciò che non dice.

Quelli che restano fuori non vantano la partecipazione ad eucaristie o l’ascolto della sua predicazione. Tutt’altro! Mentre essi tentano di giustificarsi non fanno altro che accusarsi. Hanno mangiato e bevuto in presenza del padrone e sanno che egli ha insegnato nelle loro piazze. Non c’è stata però comunione, non c’è stato coinvolgimento e adesione. Hanno scelto di restare come spettatori, anonimi e distanti. Lo conoscono per sentito dire. Sanno che ha insegnato nei loro luoghi, ma sanno di non averlo ascoltato, di non aver accolto i suoi insegnamenti. Hanno mangiato in sua presenza, davanti a lui, ma non hanno mangiato e bevuto con lui, lo hanno tenuto a distanza. 

Il loro è stato un rapporto secondario ed esterno, una conoscenza per sentito dire, un sapere che non muove il cuore. Non c’è stata familiarità e ascolto, ma solo informazione alla giusta distanza. È per questo che il padrone ribadisce che egli non sa di dove siano. Hanno patrie che sono diverse, hanno origini che non sono comuni, hanno radici che non li fanno incontrare. 

Li allontana da sé perché sono operatori d’ingiustizia. Ed è per questo che hanno preferito restare ai margini, non lasciarsi interpellare in prima persona. Non hanno abbracciato la via del vangelo, non hanno scelto la porta stretta, non hanno intrapreso la via della croce, ma sono arrivati da scorciatoie. Forse, come noi stessi, hanno usato le sue parole per fare dibattiti e porre questioni, per inscenare scontri e fare incassi. 

«Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori» (Lc 13,28)

No, non è condanna e non è castigo. Avendo scelto di restare fuori e lontani, non si può fingere di essere dentro, non si può far finta di essere suoi.

Sono cacciati fuori perché non hanno voluto entrare nell’intimità, non hanno accettato di lasciarsi visitare da quella presenza, di lasciarsi plasmare da quella Parola. Ed è allora, restando fuori, che il cuore vede che Abramo, Isacco, Giacobbe e tutti i profeti sono uomini che si sono lasciati incontrare, che hanno creduto impegnando la vita, che hanno deciso di restare in cammino, di soffrire e correre rischi, di perdere e di lottare. E allora il pianto e la rabbia avranno la meglio, per aver perso tempo a giocare con le cose di fede, con Dio e con il Vangelo, per aver fatto teoria e parole vuote, per aver inseguito curiosità e fascino, invece di lasciarsi scavare il cuore e la vita da una parola che non è donata per accarezzare l’intelletto, ma per convertire la mentalità. 

«Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi» (Lc 13,29-30)

Eppure la fine è imprevista. La porta è già chiusa ma ancora verranno, verranno da tutto il mondo, da tutti i punti dispersi, verranno a sedersi alla mensa del regno. 

E quella porta stretta già chiusa sembra ancora riaprirsi e accogliere gente che sembrava lontana, quelli che nel silenzio e senza clamori, si sono messi in cammino senza fare storie, senza spendere tante parole. 

E la speranza resta sospesa: perché se gli ultimi saranno primi, i primi saranno ultimi. E forse anche quelli restati fuori, per ultimi potranno entrare, dopo che il pianto e il loro stridore avrà mostrato loro come si entra per la porta stretta. 

Ma a me non importa sapere se l’inferno esista o se sia vuoto. A me importa varcare la soglia della porta stretta, non so se tra i primi o forse tra gli ultimi, ma so che voglio passare la vita a bussare, finché la mia invocazione, il mio grido e la mia attesa, non mi rendano nuovo e riconoscibile, perché avrò i segni del mio Signore e per lui non sarò più uno sconosciuto, perché sarà lui a darmi un volto e uno stile nuovo. 

Liturgia della Parola

Condividi