Insegnaci a pregare per insegnarci a vivere

XVII Domenica Tempo Ordinario C (Gen 18,20-32; Col 2,12-14; Lc 11,1-13)

La preghiera è scandalo che contraddice il nostro modo di vivere, è appello che scardina le nostre certezze, è assillo che abbassa le nostre pretese, è grido che smonta le nostre presunzioni, è supplica che rivela la nostra mancanza, è pianto che mostra la nostra insufficienza. 

Ed è per questo che oggi pregare è un problema. Pregare è mettere in crisi il nostro delirio di autosufficienza, è gridare il nostro bisogno, è dichiarare la nostra debolezza. E anche i credenti fanno fatica ad accettare una preghiera che sia richiesta, invocazione di aiuto, un bussare, assurdo e imperterrito, ad una porta che stenta ad aprirsi. Bisogna chiedere al Figlio che ci insegni ancora a pregare perché solo così impareremo a vivere.

«Signore, insegnaci a pregare» (Lc 11,1)

Sono in tanti che, contro ogni evidenza evangelica, ci dicono che non si può pregare per invocare Dio, per chiedergli cose, per chiamarlo in causa nella nostra vita. Si affannano a dirci che non ne abbiamo bisogno, che tutto è in mano nostra. E contrabbandano le loro parole rivestendole di parole divine. E poi ci dicono Dio non può intervenire e se intervenisse sarebbe ingiusto perché ascolterebbe alcuni senza ascoltare gli altri, e sarebbe un despota che attende suppliche… 

E poi sono loro stessi a insegnarci che, se proprio bisogna pregare, bisogna farlo in modo da compiacere se stessi, da esaltare ciò che sentiamo, da sentirci a posto così come siamo, da sentire che siamo appagati. E questi esperti confondono Dio con la loro immagine e immaginano se stessi al posto di Dio. 

Ed è per questo che, per noi e per tutti, la prima preghiera che bisogna fare, la prima cosa che bisogna chiedere è sempre e ancora quella di allora: «Signore, insegnaci a pregare».

«Quando pregate, dite: “Padre» (Lc 11,2)

Bisogna evitare ogni fraintendimento e incomprensione. Ogni discorso sulla preghiera si svolge e si estende racchiuso e concluso nell’unica cornice che dà senso e significato. È la parola Padre a erigere i confini della preghiera, a costituire il suo orizzonte. È questa la parola da cui prende avvio la preghiera ed è questa stessa parola che conclude e dà il senso a tutto il discorso. Solo la fede in un Padre rende lecito il nostro gridare, solo il nostro sentirci figli rende possibile il nostro pregare. 

Ogni preghiera che si muova al di fuori di questo sacro recinto dell’essere figlio e della fede in un Dio che si è fatto Padre è solo magia e superstizione, è solo inganno e mero interesse, è solo ricatto oppure sopruso, è solo scambio e triste commercio.

E forse per questo la preghiera è in crisi ed è per questo che è sempre rischiosa.

Abbiamo paura di saperci figli, di scoprirci piccoli e bisognosi, di vederci nudi e in cerca di aiuto. Sì, la preghiera è sempre in crisi perché chiede di diventare bambini, di restare figli davanti al Padre, di sentirci piccoli e dipendenti.

Bisogna che il Figlio ci insegni a pregare, a rompere il guscio di ogni presunzione, a farci sentire che non ci bastiamo.

E a tutti i sapienti di cose divine dovremmo ripetere, ogni volta che ridono delle preghiere dei piccoli, lasciateci gridare “Abbà”, lasciateci ancora pregare Dio perché alle vostre esaltanti opinioni preferiamo le parole dei figli, preferiamo l’abbraccio caldo e accogliente di un Padre che dalla preghiera si fa scomodare. Al Dio dei filosofi e del pensiero, preferiamo il Dio che si è rivelato, un Padre attento e premuroso, un volto amico che si fa vedere. 

«Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto» (Lc 11,9-10)

Gesù parla della preghiera di domanda, quella che, spesso, viene bollata come ingenua e infantile. È a questa preghiera che Gesù invita, alla preghiera fatta da figli, rivolta ad un Dio che è amico e Padre.

Pregare è sapermi figlio, è riconoscermi piccolo. Pregare è credere in un Padre che, proprio per questo, ne sa più di me ed è solo di lui che mi posso fidare. Posso credergli anche quando tarda ad aprire, anche quando il mio grido resta inascoltato, quando il mio cercare non sembra trovare nulla. 

Pregare il Padre è scoprire la mia finitezza, fare pace con la mia debolezza, fare mia la mia povertà, prendere atto, con filiale fiducia, della mia insufficienza. Pregare è liberarmi da ogni desiderio di efficiente perfezione, da ogni solitaria e introspettiva esaltazione.

Mi serve un Dio che sia Padre, che stia lì, di fronte e fuori, ad ascoltare. Mi serve un Dio che, come un amico, alla fine, si scomodi anche di notte per tenere viva la vita, per dare un senso al mio gridare, per dare luce alle mie lacrime, per dare un esito al mio cercare, per offrire un volto al mio bussare.

Pregare è credere in un Dio che è Padre davanti al quale non ho nulla da recriminare perché so che tutto è dono suo. Di lui posso fidarmi più di quanto possa fidarmi di me stesso e delle mie intuizioni. Le sue risposte saranno sempre più vere delle mie domande, ma non riuscirò a vederle se non continuerò a chiedere. Certo, potrò litigarci, potrò gridare a lui e anche accusarlo, ma come ogni figlio fa con suo padre. Posso sfogare verso di lui la mia insoddisfazione e il mio dolore, ma di lui posso fidarmi perché anche quando non agisce, non interviene e non risolve il mio problema, mi resta Padre, mi resta accanto e resta affidabile.  Posso, come capita ad ogni figlio, non comprenderlo, non vedere ciò che lui vede, non condividere. Eppure da figlio, posso ancora affidarmi, posso vedere il suo amore, posso ancora riposare sicuro su quel petto e riempirlo di lacrime, perché egli mi è Padre, e so che, in qualche modo che io non capisco, egli mi ascolta e mi esaudisce. 

«Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!» (Lc 11,13)

Pregare è vivere nella fiducia, è affidarsi ad un Padre che è l’unico buono. Se anche i padri di questo mondo, che sono tutti cattivi, sanno provare amore per i loro figli, sanno procurare ciò che gli occorre, molto e molto di più Dio che è Padre buono ai figli che ama, a quelli che pregano e chiedono a lui, sa donare lo Spirito di cui hanno bisogno. Sa donare cioè il suo modo concreto di restarci accanto, di aprirci il cammino e di farci strada. 

«Vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono» (Lc 11,8)

Dio è amico e Padre, è presenza che non abbandona, è mano che sostiene la vita. Con lui posso anche insistere, posso inondarlo delle mie suppliche, non perché egli abbia bisogno di essere pregato, ma perché sono io che ho bisogno di sapermi amato, di sentire che non sono solo. È nostro il bisogno di non sentirci esiliati, gettati soli in un mondo ostile e triste. Sì, bisogna avere il coraggio di chiedere, perché il nostro è un Padre buono, che non si sostituisce ai suoi figli, ma li sostiene e li tiene in piedi, li sorregge e li mette in cammino.

E per pregare devo imparare a chiedere, devo sperare quando non ottengo, devo attendere quando sembra impegnato, devo urlare quando sembra distante. Devo pregare per scoprire che egli mi è accanto, mi è vicino e mi sostiene, mi è amico e solidale. E se a volte non mi esaudisce, so per certo che non mi abbandona, ma si fa carico della mia povertà, si prende addosso la mia sofferenza. E allora la vita si fa più leggera.

La preghiera autentica è impastata di vita, è sporca di terra, è impregnata di storia. È grido e sussurro che coinvolge il mondo, che prende gli altri e li porta a Dio. Abramo (cf. prima lettura, qui è disponibile un commento alla preghiera di intercessione di Abramo) parla a Dio in favore di Sodoma, intercede per quella città, perché anche gli ingiusti siano salvati. Abramo sa di essere polvere e cenere ed è per questo che parla a Dio. Può guardarlo e provocare il suo amore, può metterlo alla prova e stimolare il suo perdono. Abramo sa di essere nulla e proprio per questo ardisce parlare al suo Signore e lo fa con testardaggine e sfacciataggine. 

La preghiera di intercessione di Abramo ha “costretto” Dio a rivelare il suo volto, a mostrare la sua benevolenza. Davanti ad Abramo che si fa piccolo e invoca e chiede una giustizia nuova Dio mostra il suo disegno d’amore, rivela il suo volto amico. Dio è pronto a salvare una città di peccatori per soli dieci giusti che in essa rimangono. Poi arriverà il tempo nuovo in cui un solo giusto salverà il mondo e rivelerà, completamente, un Dio che è Padre e amico amorevole.

«Padre, sia santificato il tuo nome,
venga il tuo regno;
dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano,
e perdona a noi i nostri peccati,
anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore,
e non abbandonarci alla tentazione”»
(Lc 11,2-4)

Sono parole che modellano la vita, che le danno una forma nuova. E solo un Padre dà forma ai suoi figli, può dare loro il suo stesso volto.

Poche parole che dicono tutto, che racchiudono la vita in un abbraccio d’amore. 

Un nome e un regno che sono divini, che sono presenza di amore e pazienza, che sono l’inizio di una nuova creazione. Dio santifica il suo nome rivelando a tutti il suo vero volto, rendendo viva la sua presenza, il suo amore che squarcia il peccato, dando inizio al suo regno di pace, rendendo la terra un regno divino. 

E poi il pane per ogni giorno, pane e parola, cibo e amore, che restano vivi se sono accolti, se sono doni a cui tendo le mani, perché ciò che è mio marcisce e si perde. E se da figlio ricevo il pane, ciò che serve al mio cammino, non ho bisogno di dire mio, di conquistare e accumulare. Mi fido di Dio giorno per giorno e allora ogni dono si fa condiviso e la mia vita e le mie scelte rivelano il volto di Dio che è Padre che dona il pane a tutti i suoi figli.

So, però, di non essere all’altezza di essere figlio, di restare manchevole, ma ho un Padre che può perdonarmi, che può colmare le mie mancanze, che può sanare i miei fallimenti. Ed è per questo che, tutte le volte in cui sbaglio bersaglio, chiedo al Padre di perdonarmi, di riorientare il mio cammino. E questo dono si fa condiviso, il sentirmi figlio mi rende fratello. Il perdono che è ricevuto diventa forza che si irradia agli altri, perché è amore eccedente che posso offrire.

E ogni vita ha le sue prove, i suoi momenti di crisi e di tentazione. Sono momenti che aiutano a crescere, a dire il vero in ciò che facciamo. In quei momenti un Padre osserva, accompagna e tende la mano. E io, come un figlio che inizia il cammino, tentenno e inciampo, ma mentre sto per perdere l’equilibrio so che posso osare e sfidare il male, so che posso osare e tentare il bene perché c’è un Padre che non mi abbandona, che mi tende la mano e mi sostiene nel mio incespicare. 

Signore, insegnaci ancora a pregare perché abbiamo ancora bisogno di imparare a vivere.

Qui è disponibile un commento alla prima lettura estratto da Una storia di fede, Abramo.

Liturgia della Parola

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