Tra un asino e un profumo: la follia di Dio

Domenica delle Palme: Passione del Signore B (Mc 11,1-10; Is 50,4-7; Fil 2,6-11; Mc 14,1-15,47)

La Domenica delle Palme e di Passione si staglia, come un grande portale d’ingresso, all’inizio della Settimana Santa, nella quale celebriamo il mistero della nostra fede e della nostra vita. Si è cristiani in virtù della Pasqua e del futuro che essa dischiude. Dire Pasqua è dire tutto il mistero di Dio e dell’umanità, è dire quest’abbraccio d’amore che, sulla croce, unisce e redime la terra e il cielo. Sulla croce è redenta l’umanità e, insieme, è redento anche il volto di Dio, salvato e liberato da ogni immagine che è idolo e frode, menzogna e perversione. Sulla croce, infatti, si rivela il volto di Dio nei tratti del Figlio che muore. Sulla croce si rivela l’amore del Padre che rinuncia a salvare il Figlio per rendere tutti come suo Figlio. Sulla croce si svela la passione smodata di un Figlio che non salva se stesso perché è venuto per servire e dare la vita in riscatto di tutti.

E sulla croce si svela anche il nostro volto, la storia profonda di ciò che viviamo. È nei giorni pasquali che siamo nati, è lì che ha origine tutto. È lì che tutto ritrova il suo senso. 

La domenica delle Palme, quindi, ci introduce a questo mistero e ci prepara a sentirlo vero, a farlo nostro, a renderlo vivo nella nostra storia. Questa domenica si tinge di tinte diverse perché, se è vero che ci ricorda l’ingresso di Gesù a Gerusalemme mentre viene acclamato come il figlio di Davide, il Benedetto che viene nel nome del Signore, quasi da contrappunto la liturgia ci fa ascoltare la passione del Signore e ci mette davanti al grido più atroce e solenne: Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato? 

L’entrata a Gerusalemme

Celebrando l’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme, celebriamo la venuta di Dio che visita la nostra vita. E qui egli ci entra da re, perché viene nel nome del Padre, viene per purificare la vita e renderla degna di diventare divina. 

Marco ci dice che quando furono vicini a Gerusalemme, Gesù mandò due suoi discepoli. Siamo presso il monte degli Ulivi, luogo che nella Scrittura ha una rilevanza fondamentale. Al tempo della deportazione, raccontata dal profeta Ezechiele, quando la Gloria del Signore, cioè la presenza di Dio in mezzo al suo popolo, abbandona il tempio e va in esilio insieme al popolo, trova riparo e si ferma sul monte degli Ulivi. Il giardino che è sul monte degli Ulivi diventa il luogo da cui la Gloria si allontana dopo la distruzione di Gerusalemme. E sarà lì che, dopo l’esilio e al compimento del tempo, la Gloria ritornerà per entrare trionfalmente nella Città. La Gloria metterà piede nella Città Santa, entrando dal monte degli Ulivi, e sarà quello il momento del giudizio. 

Ed è proprio da quel luogo così significativo, che Marco fa iniziare l’organizzazione e l’entrata di Gesù a Gerusalemme. In lui è la Gloria di Dio a rientrare nella Città Santa, per dare inizio al giudizio di tutta la storia. Si riassume così l’intera Scrittura. Sta per entrare il Dio re e giudice che lì, a Gerusalemme, si rivelerà a tutte le genti.

Gesù manda due discepoli perché sleghino un puledro legato, sul quale nessuno è mai ancora salito, e lo conducano a Gesù. In questi pochi versetti, c’è troppa precisione e premura per essere solo il racconto di un fatto. Tutto è carico di significato e valore. 

Quando Giacobbe sta per morire (Gen 43), mentre benedice i suoi figli, dichiara che da Giuda uscirà il re e avrà inizio la dinastia davidica. Nella benedizione si racconta che questo re legherà alla vite il suo asinello e, ora, invece è giunto il momento che quell’asino, legato nel libro della Genesi, venga slegato e condotto a Gesù. Solo la dinastia di Davide è quella regale, per questo il suo asinello è legato. Ora quell’asino viene slegato perché il discendente di Davide, il vero ed unico re, sta per mostrare il suo regno e rivelarne la vera natura. Si scioglie l’asinello legato perché il regno di Cristo, portando a compimento quello di Davide, lo supera e lo rende diverso. Quello di Gesù è un regno per tutti e non conta sul sangue e sulla nazione. La regalità di Cristo si innesta su quella di Giuda e di Davide, ma porta a frutto e a compimento ciò che quell’altra non sapeva e poteva fare.

Zaccaria, poi, racconta di un Messia umile, che entra a Gerusalemme seduto su un asino, figlio di asina. E Isaia ricorda che l’asino conosce il suo padrone. L’immagine del Messia profetato da Zaccaria, è l’inizio di un regno di pace e di umiltà, in cui è bandita la violenza. L’asino si oppone al cavallo, ai cortei trionfanti di chi ha vinto in guerra, di chi è potente perché ha sconfitto chi era più debole. L’asino, invece, porta con umiltà il peso degli altri, non ha aspirazioni di gloria e splendore, non compare nei cortei di trionfo. 

L’avvento del regno del Messia giunge nell’immagine di un asino, che porta il peso degli altri, nell’umiltà di colui che serve ed è a servizio. Gesù inaugura così il suo regno che ha lo stile dell’umiltà e del servizio, della povertà e del dono. E ora quell’asino può essere slegato perché è giunto Gesù che realizza il modo nuovo di essere re: attraverso il servizio.  Il puledro e Gesù sono l’uno l’immagine e l’altro la realtà di questo regno. 

E non c’è differenza fra questo puledro e la Chiesa: anche noi siamo chiamati a portare, ad accompagnare Cristo nel suo ingresso in tutte le realtà del mondo, ma possiamo portare il Cristo, caricarlo su di noi, solo impediamo ad ogni altra cosa, idea e priorità di salire sopra di noi. La Chiesa ha come compito di farsi strumento dell’ingresso di Cristo nella vita del mondo, nella vita dei fratelli, nella vita di chi ci è accanto. Quando noi prestiamo la nostra vita ad altri servizi, quando portiamo il peso di tutto ciò che non è Cristo, tradiamo il messaggio che il Vangelo ci consegna. 

Essere cristiani secondo la logica del regno ci chiede di accogliere la dimensione dell’umiltà che passa, evidentemente, attraverso l’umiliazione. L’asino non è umile perché vuole esserlo ma perché umiliato dal lavoro che è impegnato a fare. Noi esultiamo per l’entrata di Gesù a Gerusalemme, ma questa esultanza è strettamente abbinata al nostro compito: come far entrare oggi il regno di Cristo nella nostra storia, nelle nostre vicende, nelle nostre famiglie? Semplicemente vivendo lo stile dell’umiltà, dell’umiliazione, della povertà che Gesù ha voluto abbracciare. 

C’è un’altra cosa che merita attenzione, i mantelli. Marco insiste due volte sui mantelli: mettono i mantelli sul puledro e Gesù sale su di essi e, poi, altri mantelli vengono stesi sulla strada.

Immediatamente prima dell’entrata di Gesù a Gerusalemme, Marco ci presenta Bartimeo. È un uomo cieco, seduto lungo la strada, e ha il suo mantello. Quando sente che Gesù sta arrivando grida: “Signore, figlio di Davide, abbi pietà di me”. Quando Bartimeo si alza, per andare da Gesù, getta il suo mantello lungo la strada. A Bartimeo, quel pezzo di stoffa non serve più e, guarito, si mette a seguire Gesù lungo la strada che conduce alla croce.

Bartimeo anticipa il gesto di quelli che, subito dopo, getteranno i propri mantelli sul puledro o lungo la strada. Riconoscendo Gesù come figlio di Davide, ottiene la guarigione della vista, riesce quindi a vedere come Gesù è Messia e, per questo, si mette a seguirlo e diventa suo discepolo lungo la via che, in Marco, è sempre la via che conduce alla croce. Bartimeo abbandona il mantello, tutto ciò che ha, perché ha scoperto e ha visto il Gesù che rende presente il regno di Dio. 

I mantelli che vengono gettati, sul puledro e per strada, perché Gesù possa mettersi sopra, sono il segno della nostra identità, della nostra storia, del nostro passato, sono anche il segno delle nostre ferite, della nostra cecità, del nostro essere mendicanti. Arriva un certo punto, nella propria vita, in cui bisogna lasciar perdere i propri mantelli, lasciar perdere se stessi e gettare tutto davanti al Cristo perché su tutta la nostra storia egli possa salire e avanzare.

Si può abbandonare il mantello nella misura in cui lasciamo che sia il Cristo a camminare e avanzare e tutto va messo a servizio della regalità di Cristo, che è regalità di amore e di dono. 

Gesù sale a Gerusalemme per dare inizio al suo regno e lo fa con l’umiltà di un asino, lo fa, però, nella misura in cui anche oggi noi siamo capaci di stendere i nostri mantelli perché lui possa visitare le nostre storie. L’ingresso di Gesù a Gerusalemme, cioè la realizzazione del regno, anche oggi è possibile nella misura in cui prendiamo la nostra storia, il nostro passato, il nostro vissuto e lo facciamo diventare strumento a servizio di Cristo, strumento al servizio di colui che viene per realizzare il suo regno di vita e di salvezza. Certo, non è il regno che noi speravamo e desideravamo, eppure è il regno di cui abbiamo necessariamente bisogno. L’esultanza della domenica delle palme non è in contraddizione con la domenica di passione, anzi ci fornisce una chiave di lettura per entrare nel mistero della passione, il mistero di un amore che ama a tal punto di lasciarsi spaccare e distruggere dall’amore. 

Una donna unge il capo di Gesù

L’inizio del racconto della passione ci offre una scena che potrebbe benissimo essere sganciata ma che Marco e la stessa liturgia ci presentano come l’inizio perfetto e spropositato della passione. È l’episodio di una donna sconosciuta, di cui Marco non ci consegna il nome, ma in riferimento alla quale Gesù stesso dice che la sua azione sarà stata ricordata per sempre, in tutto il mondo, perché il suo gesto è strettamente legato al Vangelo.

Il racconto è incastonato tra due scene, in cui protagonisti sono i sommi sacerdoti e gli scribi insieme a Giuda. Al centro di queste trame nascoste e segrete, è narrato l’atteggiamento e lo stile di questa donna. I primi hanno il desiderio di catturare Gesù, prenderlo con la forza, impadronirsi di lui e della sua vita, vogliono cioè strappare a Gesù la vita che gli è propria. Gesù, per essere espropriato di sé e catturato, ha bisogno di qualcuno che lo consegni, che prenda il suo corpo e lo metta in mano di altri, magari con uno scambio di denaro. Si tratta di una logica costante nella storia: il tentativo di prendere, catturare, impossessarsi di qualcuno perché attraverso la violenza e il denaro che sono due strumenti tipici, che tolgono libertà e dignità all’umanità nostra e degli altri. La forza e il commercio sono, infatti, le uniche modalità di relazione che spesso usiamo nei rapporti con gli altri. Pensando a tante nostre relazioni, spesso ci chiediamo: ci guadagno qualcosa, riesco, con la forza e la furbizia, ad ottenere qualcosa? È questo l’atteggiamento i sommi sacerdoti e Giuda hanno nei confronti di Gesù.

La donna, invece, ci offre uno stile e un modo diverso di entrare in relazione e costruire legami. Compare all’improvviso, mentre Gesù è a tavola in casa di Simone. Giunge da fuori, portando un vaso di alabastro, materiale molto prezioso, che non trattiene la luce. 

Questo vaso è pieno di profumo di nardo puro, è un nardo, letteralmente, affidabile, a cui si può dare credito. Si tratta una resina molto preziosa, non mischiata ad altre sostanze e di grande valore. 

La donna fa quindi un gesto inaudito e da folle. Se oggi vedessimo una scena del genere, forse, diremmo anche noi che questa donna è pazza e smisurata. Non si limita ad usare un po’ di profumo, ma rompe il vaso e versa tutto il profumo sul capo di Gesù. Quel profumo valeva circa 300 denari che era lo stipendio di un lavoratore medio per un anno.

Prendere lo stipendio di un anno e usarlo in questo modo è inaudito e folle, ancor più che sarebbe bastato versare un po’ di profumo per profumare il capo di Gesù. Ella, invece, rompe persino il vaso, che, quindi, non avrà più altro scopo e altro utilizzo.

Questa donna, profeticamente, sa quello che sta per accadere e lo anticipa nel gesto dello spezzare il vaso. In quel vaso è significata la vita e il corpo del cristo, vaso prezioso è la sua carne, ma quel corpo sta per essere spezzato sulla croce perché si diffonda ovunque un nuovo profumo.

La funzione di un profumo si svolge indipendentemente da quello che noi facciamo. Il profumo esiste e profuma e ci raggiunge e investe indipendentemente dalla nostra volontà. Per odorare un profumo basta stare in presenza di qualcosa che effonde il suo aroma. Il profumo è un po’ come l’amore che non ha nessuna funzione se non quella di esistere, se non quella di esserci e l’amore, quando c’è, si espande, si manifesta, si mostra in qualsiasi situazione. 

L’azione della donna è veramente uno spreco. E anche la croce lo è, è uno spreco di amore e di vita, un’esagerazione di dono. Il nome dell’amato è profumo nel Cantico dei Cantici. C’è amore tra questa donna e Gesù, l’immagine è strettamente nuziale. Tuttavia è anche un’unzione tipica della tradizione ebraica, dove ad essere unti erano i re ma anche gli altari e le vittime.

Gesù davanti alla reazione che denuncia lo spreco interviene e difende il gesto di quella donna. Ella ha compiuto un’azione buona, bella verso di lui, ha fatto ciò che poteva fare in anticipo, ungere il suo corpo per la sepoltura. La donna, infatti, è l’unica a ungere il corpo di Gesù e a preparalo sin d’ora per la sepoltura. 

Allo spreco di amore del Cristo corrisponde uno spreco di amore, di dedizione, di passione della donna verso colui che non si è trattenuto, non ha lesinato e non si è risparmiato.

In questa donna è riflessa e anticipata la scelta del Cristo che spezza la sua vita e il suo corpo per inondare il mondo di un profumo nuovo che raggiunge tutti. La potenza di vita e di amore che sgorga dal corpo crocifisso di Cristo è amore che profuma e si diffonde su tutta la terra. 

Questa donna è la sposa, l’umanità nuova, la Chiesa, ciascuno di noi. Gesù dice che si ricorderà ovunque quello che ella ha fatto e dovunque sarà proclamato il Vangelo si racconterà di questa donna. Ovunque si proclama il Vangelo, la buona notizia, bisogna narrare ciò che questa donna ha fatto e cosa noi, questa Chiesa, deve continuare a fare. Siamo noi che dobbiamo rendere profumato il mondo dell’unico profumo, quello del Cristo. Siamo noi a dover rompere i tanti vasi di alabastro, le nostre vite, le nostre storie, perché diventino trasparenza della vita del Cristo e suo profumo che si dona ed effonde. Questa donna e Gesù vivono la stessa vicenda. Gesù la vivrà nella sua carne, questa donna la vive nel segno del vaso di alabastro che è ciò che ella ha per vivere un anno. Il suo è, quindi, il dono di tutta la vita. 

Mentre ci accostiamo a questa grande settimana, siamo invitati non tanto ad assumere l’atteggiamento degli spettatori o di quelli che provano qualche emozione, le emozioni, certo, ci aiutano ad entrare nel mistero della croce, ma dobbiamo soprattutto ricordare che accompagnare il Cristo nella settimana della passione significa ricordare che c’è stato uno spreco di amore, uno spreco di dono. Dio non ha misurato il suo amore, non ha misurato i suoi doni, ma deciso di amarci in maniera folle ed esagerata

Celebrare la Pasqua significa celebrare il dramma di un Dio che ci ama e significa ricordare che noi siamo nati da questo amore. La morte di Cristo è un dono totale e irreversibile che la risurrezione non cancella ma, anzi, conferma e rende eterno e indelebile. Anche noi, come la donna del vangelo, siamo chiamati ad ungere il corpo di Cristo per la sepoltura e siamo chiamati a diffondere il profumo di Cristo nel mondo perché il suo corpo spezzato possa diventare corpo che continua a donarsi attraverso il dono di tutto noi stessi. 

Liturgia della Parola

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