L’amore sovverte ogni legge

È sempre facile fraintendere e smarrire il senso delle parole, ridurle a ciò che siamo in grado di intendere e di volere. La rivelazione, però, propone parole altre, che non si attestano sul nostro orizzonte. Parole che si muovono in alto, verso confini e orizzonti divini. Ed è per questo che non basta dire amore e non basta nemmeno amare. Amore e amare sono parole che dicono tanto, forse anche troppo, ma non dicono mai a sufficienza, perché quando la Scrittura parla di amore non parla di noi e dei nostri sentimenti, non parla delle nostre scelte e delle nostre azioni. Dire amore, per la Scrittura, è rivelare Dio e il suo volto, è dispiegare la sua santità, è raccontare la sua perfezione. 

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Immersi nel mondo per dire Dio

La luce è la prima delle creature che Dio ha fatto, la prima parola che Dio ha pronunciato. E luce e parola si fondono insieme. Tutto esiste per la sua parola e la sua parola è luce alla quale vedere ogni cosa. E tutto ciò che Dio ha fatto è cosa buona. Ogni opera, fatta da Dio, è cosa buona perché è fatta dalla sua parola, è impregnata della sua luce. E Dio ci dona ancora la sua parola, luce che vince le nostre tenebre. Essere discepoli, quindi, è accogliere in noi la sua parola, vivere della sua luce e compiere, insieme a lui, le opere buone che rinnovano il prodigio della creazione, la preservano dalla corruzione, la rendono bella e sempre più buona perché diffondono, in questo mondo, la sua parola, luce divina che Dio ha messo in noi.

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Una vita controcorrente

È sempre difficile distinguere i criteri divini da quelli umani, la sapienza di Dio da quella degli uomini. E ogni cristiano si trova nel mezzo, incerto abitante di logiche opposte. C’è una scelta da fare, ci sono decisioni da prendere, c’è un criterio da scegliere. E, nonostante le tante parole, è sempre difficile prendere per buone le beatitudini, parole che sconvolgono il senso comune, che mettono in crisi le nostre certezze, che ribaltano i nostri piani. Il nostro è un Dio imprevedibile, un Dio che ci chiede di andare controsenso sui sentieri della storia. 

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Venite e diventate Parola

Per quanto siano fitte le tenebre c’è sempre una luce a rischiarare la notte, per quanto sia profondo il silenzio c’è sempre una voce a sollevare il cuore, per quanto siamo lontani da Dio c’è sempre la sua parola a venirci incontro, a inseguirci nei nostri sentieri, a incontrarci sui nostri cammini sperduti. È così che ha inizio il Vangelo e si muove su strade inattese. Così avanza ancora oggi l’annuncio lieto: Dio si è fatto vicino, si è accostato alle nostre vite ordinarie.  

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Testimoni dell’Agnello

Dopo aver celebrato il mistero dell’incarnazione ed essere stati partecipi della duplice manifestazione di Dio nella carne di un uomo (ai Magi e nel battesimo al Giordano), il cammino si ferma, prima di proseguire sul sentiero ordinario, dinanzi ad una ulteriore manifestazione della gloria divina, quella nascosta nel servo che si fa agnello. «Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria» (Is 49,3). L’immagine del servo, che Isaia delinea, è quella di colui che, come agnello mansueto, si lascia condurre al macello portando su di sé il peccato di molti. È su di lui che Dio manifesta la sua gloria, quella stessa che Giovanni indica nell’uomo che viene verso di lui. 

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Cristo Re: un potere che vince il dovere

Celebrare Cristo Re dell’universo è chiudere il tempo, quello dell’anno liturgico, con una chiusura che, invece di porre fine al percorso, lo innalza e spinge oltre. Cristo Re dell’universo, infatti, non è un’immagine devozionale. È segno potente che incide e innesta, nell’impossibilità umana, la possibilità ultima e divina. Il potere di Cristo Re, infatti, è la possibilità che, in lui, per tutti è aperta e disponibile. 

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La fine è Dio che ci tende la mano

Il cuore è orientato al fine di tutto, a ciò che è essenziale e sopravvive. Non resterà pietra su pietra, non resterà nulla di ciò che abbiamo, non resterà nulla di questa vita. Tutto è precario e relativo. Ci sono guerre e divisioni, rivoluzioni e violenze, terremoti, carestie e pestilenze. Questa è la cronaca dei nostri giorni ed è la storia di questo mondo. Non è però ancora la fine. La fine è Dio che ci tiene per mano, che salva i capelli del nostro capo, che ci salva la vita fin dentro la morte.

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Figli della risurrezione

Avvicinandosi la fine dell’Anno liturgico gli occhi si spostano al limite di ciò che conosciamo, si affacciano sul mistero ultimo. In gioco è la meta di tutta la vita e, quindi, il senso di tutto il cammino. Anche se si è portati, per convenienza e comodità, ad appiattire la fede a misura del tempo umano, a strumento per sbrigare le nostre faccende, a mezzo per render migliore il nostro mondo, arriva sempre il momento in cui lo sguardo si solleva e guarda dentro e lontano. La fede, infatti, si regge se spinge avanti e guarda oltre. Ed è quell’oltre che rende possibile vivere questo tempo in modo nuovo. 

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Colui che cerchi ti cerca

L’episodio di Zaccheo è compendio di tutto il Vangelo e, quindi, di tutta la storia. Da Adamo a noi Dio cammina per le nostre strade in cerca dell’uomo perduto. Zaccheo cerca di vedere chi è Gesù e Gesù si mostra come colui che cerca ogni uomo perduto, ogni figlio scappato lontano. La salvezza è nell’incrocio di queste ricerche, di queste inquietudini del desiderio, di questi movimenti inaspettati del cuore. Oggi può venire la salvezza per ogni casa, perché salvezza è sapere che Dio mi cerca e mi trova proprio lì dove mi sono nascosto in attesa di poterlo vedere. Salvezza è incontrare il suo sguardo che cerca me mentre io tento di cercare lui. Salvezza è sapersi cercato da Dio, anzi sapere che Dio stesso si è dato il dovere di passare lì dove io aspetto di poterlo vedere, si è imposto il dovere di fermarsi nella mia casa perché in ogni casa in cui regna il peccato lui viene a farsi salvezza.

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Un fariseo che vive in noi

La parabola del fariseo e del pubblicano è talmente iconica e nota che è difficile leggerla così come è, lasciandoci coinvolgere in quella storia. Siamo subito pronti a tirare le somme, a condannare il fariseo per la sua presunzione, per il suo sentirsi superiore e, senza rendercene conto, prendiamo il suo posto nella parabola. Pensiamo che egli sia il cattivo e che buono, invece, sia il pubblicano e così la parabola smette di parlarci e di dirci ciò che scardina i nostri criteri, smantella i nostri giudizi, rompe l’idolo che continuiamo a farci.  

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