Guarire la vita

Se guardiamo alla vita di ognuno, ciò che resta è solo un sospiro, un desiderio inespresso e inevaso. Sembra che il dramma di vivere non abbia altra via d’uscita se non quella in cui il dramma sopprime la vita. Sì, al di là di tante parole, vivere non è affatto facile e ciò che sembra darci sollievo è come l’ombra che dà conforto allo schiavo, come il salario che rasserena il mercenario, solo illusione e soffio che passa. Eppure c’è un modo per guarire la vita.

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Io non so chi sei, tu, mia rovina

È facile, per un credente, arrivare subito alle conclusioni ed esclamare con fede devota: Io so chi tu sei! E ci troveremmo a condividere le stesse parole dello spirito impuro. E ci troveremmo ad avere una fede che sa di consumato. Credere, invece, è lasciarsi stupire da quelle parole che nessun’altro dice, da quello stile che è solo divino, da quella strada che possiamo percorrere. E potremmo ancora, messa da parte ogni presunta certezza, chiederci che cosa è mai questo, chi è questo Dio che si è fatto conoscere, chi è quest’uomo che ha autorità, chi è costui che mette a tacere il male che ci cresce dentro. Credere è esporci a lui per riconoscere che davvero è venuto a rovinare qualcosa di noi, qualcosa che ci portiamo dentro, ma se è venuto a rovinarci è solo perché è venuto a servirci e dare la sua vita per noi (cf Mc 10,45). 

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Un ascolto che si fa cammino

L’incontro con Dio è reso possibile dalla parola che ci rivolge. È lui a venirci incontro e a parlare. Tutto nasce da un dono, da un indicativo che muove la storia di ognuno e la rende capace di svolte nuove e inattese. Mettersi in ascolto della parola, infatti, è dare pienezza al tempo e riempire di vita lo spazio. Il Vangelo, lieta notizia, annuncio bello e inatteso, è dono che non possiamo darci e non possiamo meritare. È rivelazione che smuove la vita e ci rende capaci di scelte radicali. Credere al Vangelo significa lasciarci incontrare da Dio per seguirlo, con passi liberi e lieti, sulla strada che egli ha aperto per noi.

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Che cosa cercate?

Nel tempo di Natale abbiamo vissuto l’incarnazione di Dio che ha mischiato la sua vita a quella dell’umanità. Il tempo ordinario ci immette, in maniera graduale, nel mistero della storia in cui Dio si manifesta e fa conoscere. È nell’ordinarietà della vita, infatti, che siamo chiamati a cercare il Dio che ci chiama, è tra le voci confuse che possiamo scoprire l’appello, unico e inatteso, di colui che ci ama. Qui, nei contesti usuali e feriali, egli ci chiama per nome, fa vedere il suo volto e ci fa vedere chi siamo. Entra nella nostra personalissima storia per rivolgerci parole che ci mettono in cammino e in ricerca.

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Credere ad un Dio dei volti

La parola “Dio” può dire ancora molto ma il rischio è confondere Dio con i concetti che abbiamo. Possiamo immaginarlo come il sovrano potente che tutto dispone e organizza, come l’energia che muove le cose, come l’insieme di quello che esiste, come la parte migliore di noi. E forse il rischio è che ciascuno abbia e si faccia il suo Dio. Dedicare una festa alla Trinità ci chiede di ritornare a questo cuore pulsante e vitale del nostro credere.  Ci siamo smarriti per strada. Abbiamo manomesso il cuore del nostro messaggio e abbiamo offerto un Dio che fosse a misura umana. 

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La Pasqua non è conclusa

Per cinquanta giorni abbiamo celebrato la Pasqua. Abbiamo raccolto i frutti di questa storia, lasciando che la vita del Cristo risorto smuovesse le morti che ci portiamo dentro, aprisse i sepolcri che teniamo chiusi, ridestasse il coraggio e la voglia di amare. Si conclude il tempo pasquale, ma non si conclude la Pasqua, non si chiude e rinserra la storia nuova che, da quel giorno, ha investito la vita del mondo. La Pentecoste, infatti, più che chiudere il periodo pasquale, compie e rende perenne il tempo nuovo della Pasqua di Cristo. 

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La Pasqua si fa feriale

L’Ascensione di Gesù al “cielo” ci mette alla prova. Sarebbe facile incontrare il Risorto che cammina nelle nostre strade, ma non è questo che ci è stato donato. Sarebbe bello tenere lo sguardo orientato al cielo, restare lì, in attesa che qualcosa avvenga, ma non è al cielo che dobbiamo guardare. Il nostro sguardo è incastrato in questa terra, è orientato a questo mondo, è fissato su questa storia. 

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Amare è vedere Dio

Questo non è il tempo dell’assenza. Il Risorto è vivo e noi lo vediamo perché amare è vedere Dio. È il tempo della testimonianza pasquale, in cui dare ragione, amando, della speranza che è in noi. Amare è da Dio, per questo il Figlio ha promesso a noi il Paràclito, perché ci resti accanto per sostenere il cammino, per renderci capaci di vivere fedeli alla speranza che ci è stata donata, fedeli all’amore che è Dio.

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Erranti come pecore

È difficile parlare di pecore e di pastore, di recinti e di porta. Siamo convinti che ciascuno basti a se stesso e sappia già dove andare. Non sentiamo il bisogno di stare insieme, di essere gregge che si ritrova. E poi ci ritroviamo a leccarci le ferite, rinchiusi nelle verità che abbiamo elevato a torri di difesa e di attacco. Siamo incapaci di riconoscerci e saperci vicini.È il primo giorno della settimana, il giorno primo del mondo perché è l’inizio di un mondo nuovo. Ma le porte sono chiuse perché è forte il timore degli avversari, l’insidia di chi è là fuori. Hanno paura di fare una brutta fine, di seguire davvero il Maestro di cui ancora sono chiamati discepoli. Ma ora non c’è più nulla da fare, nessuno più da seguire.

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Per strada ci siamo anche noi

L’avventura dei due discepoli di Emmaus è quella nostra. Anche noi siamo spesso in cammino, senza speranza e con poca fede. Delusi e amareggiati, impegnati in tante discussioni che ci fanno perdere fiato e rendono il cammino sempre più incerto e insicuro. Eppure, mentre abbiamo deciso di voltare le spalle all’unico luogo che può darci speranza, proprio allora possiamo sentire che, in questo cammino di disperati, di gente delusa e disillusa, non siamo soli.
È il primo giorno della settimana, il giorno primo del mondo perché è l’inizio di un mondo nuovo. Ma le porte sono chiuse perché è forte il timore degli avversari, l’insidia di chi è là fuori. Hanno paura di fare una brutta fine, di seguire davvero il Maestro di cui ancora sono chiamati discepoli. Ma ora non c’è più nulla da fare, nessuno più da seguire.

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