Una tomba che profuma d’amore

Il Vangelo è la storia di un’amicizia. Una storia che conosce il pianto, il dolore, la paura, la morte. È la storia di ognuno quando comprende di essere amato, quando vede, tra le tante lacrime che la vita gli dona, anche quelle dell’Amico che sembrava lontano, quasi distratto e indifferente al dolore che accompagna ogni morte. “Colui che tu ami” è malato, dicono a Gesù. E non c’è migliore definizione dell’amico e dell’uomo. Ognuno ha impresso per sempre questo nome davanti a Dio. Ognuno è colui che egli ama. E prima di ogni altra cosa siamo questo per lui: coloro che egli ama. E gli amati si ammalano, provano dolore, attraversano il confine ostile della morte. E non una volta soltanto. La vita è costellata di morti: delusioni, fallimenti, cadute, perdite, insoddisfazioni. Perdiamo sempre qualcosa di noi, fino a perdere tutto noi stessi.

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In cerca di luce

Siamo tutti un po’ ciechi. Brancoliamo nel buio, alla ricerca di un senso, di una bellezza che ci sembra perduta, di una luce che ci sembra negata. È fatta di tenebre la nostra esistenza, di insicurezze e incomprensioni. Ed è nelle tenebre che si fa il male, perché sia nascosto e non sia visto. Siamo in cerca a tentoni, mendicanti di visioni e di vedute, persi nelle nostre cose che non ci fanno vedere bene, non ci fanno vedere lontano.
In questo cammino quaresimale, dopo il deserto serve l’acqua e anche il cibo. Serve una sorgente che non deluda, serve una fonte che non sia a secco. 
Di amori è costellata la vita e, proprio per questo, è costellata anche di delusioni. Perché amare è, spesso, ricerca disperata, ansia che è messa alla prova, attesa che resta delusa. Non bastano gli amori a riempire d’amore, non bastano le passioni a dissetare la sete. 
L’amore fa disperare, perché è agli amori che, spesso, si chiede ciò che da soli non sanno dare. Siamo ciechi quando pensiamo di tenere tutto, persino Dio, sotto controllo. Siamo ciechi e lo restiamo, quando ci illudiamo di vedere bene, di bastare a noi stessi e restiamo chiusi nel nostro buio.

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Sete e fame, sintomi della vita

La vita è questione di acqua e di cibo. La sete e la fame, infatti, sono i sintomi chiari della vita. Solo chi è vivo e vuole restare in vita ha sete e fame. Attorno all’acqua e al cibo, segni di vita e di pienezza, si condensa un dramma intero. Tutta la Scrittura è abitata dal cibo e dall’acqua, dalla fame e dalla sete. 

In questo cammino quaresimale, dopo il deserto serve l’acqua e anche il cibo. Serve una sorgente che non deluda, serve una fonte che non sia a secco. 
Di amori è costellata la vita e, proprio per questo, è costellata anche di delusioni. Perché amare è, spesso, ricerca disperata, ansia che è messa alla prova, attesa che resta delusa. Non bastano gli amori a riempire d’amore, non bastano le passioni a dissetare la sete. 
L’amore fa disperare, perché è agli amori che, spesso, si chiede ciò che da soli non sanno dare.

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Trasfigurare la storia

Gesù sale sul monte portando con sé tre discepoli. Li porta in disparte, su un alto monte. C’è bisogno di staccarsi dagli altri, di vedere bene e a fondo e per farlo serve salire in alto. È un monte che si eleva al di sopra dei nostri orizzonti, più alto delle nostre mete. È monte che avvicina al cielo e, per questo, fa vedere meglio la terra. Ci sono momenti in cui abbiamo bisogno di quest’altezza, di questa salita che, mentre sembra farci lasciare il mondo alle spalle, in realtà è solo il modo per vederlo meglio, per penetrare al fondo di tutto, anche del buio più fitto.

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Liberare Dio dalle false immagini

La prima tappa della Quaresima ci propone, come ogni anno, la scena delle tentazioni. È una prima sosta che mette le cose in chiaro. Vivere è affrontare una prova, perché la fede ci inchioda alla storia, ci provoca nelle scelte, ci rimanda a ciò che viviamo. La fede si dice con tutta la vita, della quale bisogna imparare ad affrontarne le prove e le tentazioni. Non credo a chi si bea di un Dio che ha già dentro, di un Dio che non scomoda e “non fa problemi”. Non mi fido di chi racchiude la fede in una pace che sa di narcotico, di chi, sentendosi figlio, pensa di essere già dentro casa. Non credo a chi ha paura di sporcare Dio con le parole che dicono prova e tentazione. E so che non si sporca l’uomo se riconosco che vivere è la tentazione più grande, che credere è la prova più difficile.

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Un puledro per scendere

Siamo giunti alla Domenica delle Palme, il portale che ci introduce nella Grande Settimana, nei giorni della creazione del mondo nuovo, in cui celebriamo la nostra nascita. Essere credenti, infatti, è sentire e sapere che ogni storia e vicenda ha inizio da qui e qui conduce, perché essere cristiani è vivere, sulla propria carne, l’assurdo e l’indicibile che in questi giorni si è fatto spettacolo. Luca, infatti, così definisce ciò che avviene sulla croce: “Così pure tutta la folla che era venuta a vedere questo spettacolo…” (Lc 23,48).

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Un dito che incide la pietra

La vita è fatta di storie, di legami e di tradimenti, di perdite e di ricerche. E la storia della salvezza, cioè la nostra vita amata e abbracciata da Dio, ci costringe a fermarci per capire a che punto siamo. E, alla fine, siamo sempre lì, fermi su quel lastricato, un po’ adulteri e un po’ giudici, un po’ peccatori e un po’ giustizieri. Ed è lì che si trova anche il Maestro, all’incrocio imprevisto di storie diverse. È lì che il suo dito segna e ridisegna la storia, che mostra il senso di ciò che è creduto, il motivo di ciò che è vissuto, il significato di ciò che è osservato.

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Le sventure si fanno Vangelo

La cronaca di sofferenza, dolore e morte trova ampio spazio in questo tempo. Prima la pandemia e ora la guerra, morte su morte, dolore su dolore, male su male. Le sventure, di ieri e di oggi, le tragiche morti e il dolore ci stanno sempre davanti agli occhi e chiedono di diventare Vangelo, di non essere sprecate, di farsi segno e annuncio perché il tempo, per ciascuno di noi, non scorra invano.

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Entrare nella nube

La seconda tappa del cammino quaresimale fa sosta, dopo il deserto, sul monte. È l’approdo di uno sforzo, una salita che chiede di lasciarsi dietro le cose che sanno di terra. Anzi, salendo in alto bisogna portare solo la propria terra, quella di cui è impastata la vita. È sul monte che si ha una prospettiva più ampia, che supera steccati e confini. Il monte avvicina a Dio e permette di toccare ed entrare in cielo tenendo i piedi affondati sul nudo terreno. 

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Abramo, il dittico del buio

Il testo ci dice che Dio condusse fuori Abram. E allora possiamo dedurre che Abram fosse nella tenda, in quella dimora instabile e precaria dove l’invito di Dio lo ha collocato. Abram è pellegrino e per il pellegrino la tenda è ristoro e salvezza, rifugio e casa, sicurezza e pace. Eppure Dio fa uscire Abram fuori, anzi lo conduce fuori lui stesso, e scopriamo che era notte. Ci sono state e ci saranno ancora tante uscite, tanti esodi e Abram esce dal confine certo della tenda, dal perimetro delle sue sicurezze e dei suoi calcoli umani per esporsi al buio della notte che è poi anche il buio del suo cuore e della sua speranza. Abram vive qui la notte del tormento, la notte prima di tante altre notti, la notte prima delle nostre notti. Ci sono state tante notti e tante ce ne saranno, tutte diverse tra loro e tutte accomunate dal segno che le contraddistingue: il buio. Abram deve uscire allo scoperto, sfidare i pericoli della notte e dello spazio aperto, deve vivere il buio e guardarlo in faccia. 

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