Liberare Dio dalle false immagini

I Domenica di Quaresima A (Gen 2,7-9; 3,1-7; Rm 5,12-19; Mt 4,11)

La prima tappa della Quaresima ci propone, come ogni anno, la scena delle tentazioni. È una prima sosta che mette le cose in chiaro. Vivere è affrontare una prova, perché la fede ci inchioda alla storia, ci provoca nelle scelte, ci rimanda a ciò che viviamo. La fede si dice con tutta la vita, della quale bisogna imparare ad affrontarne le prove e le tentazioni. 

Non credo a chi si bea di un Dio che ha già dentro, di un Dio che non scomoda e “non fa problemi”. Non mi fido di chi racchiude la fede in una pace che sa di narcotico, di chi, sentendosi figlio, pensa di essere già dentro casa. Non credo a chi ha paura di sporcare Dio con le parole che dicono prova e tentazione. E so che non si sporca l’uomo se riconosco che vivere è la tentazione più grande, che credere è la prova più difficile.

Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo (Mt 4,1)

E allora provo ad accostarmi a quell’uomo tentato e non posso girarci attorno: Dio è complice di quelle prove. Dio lascia che Gesù sia tentato e lo Spirito quasi lo spinge in mani nemiche.

Prima il popolo d’Israele e ora Gesù e nello sfondo sempre il deserto che fa da cornice. Può accadere di non capire perché ciò avvenga. E allora il rischio è di immaginare un Dio superbo, un Dio despota, rinchiuso nel suo cinismo e a questo Dio diamo il volto del peggiore degli uomini. 

No, non è così. Eppure credo sia necessaria la prova, credo davvero che Gesù fu tentato. Fu tentato per tutta la vita, fino a quando, con l’ultimo respiro, consegnando la sua vita, vinse per sempre ogni tentazione.

Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». Ma egli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”» (Mt 4, 2-4)

Guardo allora a quei deserti, guardo quell’uomo che ha fame. Dopo il digiuno di quaranta giorni è lecito pretendere cibo. È lecito aspettarsi del pane. 

E lì, quando vivere diventa un problema, quando la fame restringe lo sguardo, si insinua la prova e la tentazione. “Se tu sei Figlio di Dio”. Gesù sa di essere il Figlio, il Padre, al Giordano, lo ha confermato. Ma cosa farsene di essere figlio se oggi tu hai solo fame? A cosa serve avere un Padre se non hai da mangiare? A cosa ti serve avere Dio se la tua vita non è appagata?

No, non è Dio ad essere arcigno, a godere delle tue prove. È che la fede è vita da vivere. E non conosco vite che non abbiano prove, che non abbiano bivi e tentazione. Vivere è scegliere da che parte stare, è situarsi in mezzo alla storia e decidere da quali mani ricevere il proprio futuro. Credere non è prendere Dio in ostaggio, non è osare di lui per prendersi ciò che si vuole, per ottenere ciò a cui si ha diritto, per garantirsi il proprio futuro. La fame è sempre un problema. Dal racconto di Adamo ed Eva al popolo di Israele nel deserto a tutta la storia di sempre, la fame è voglia di afferrare il mondo, di farlo proprio, di modificarlo per soddisfare le proprie esigenze. Eppure la fede ci impone di guardare la pietra e di lasciare che resti tale.

Non si vive afferrando la vita, rubando e trattenendo, perché a vivere non basta il pane. Serve la parola, serve un dialogo che mantenga in vita, serve una relazione che soddisfi le ansie che nel cibo noi proiettiamo. L’uomo non vive di solo pane, perché il pane ci basta a stento a sopravvivere e quando, illudendoci, pensiamo che basti il cibo per mantenerci vivi, allora nasce il bisogno di possedere e accumulare, di rubare e arraffare tesori.

Essere credente non ti offre vantaggi sulla gestione delle cose del mondo, non ti libera dai problemi che gravano sulla tua vita. Credere, però, ti offre una Parola, la sola capace di mantenerti vivo, di richiamarti in vita anche quando la fame rischia di farti perdere i sensi. Non vivere di solo pane, non rinchiudere Dio tra le cose che hai, non immaginarlo come qualcosa da usare a tuo piacimento. A vivere non basta il pane, ci vuole l’incontro, ci vuole il dono, ci vuole qualcuno che ti metta in vita. Non vieni al mondo da solo, non puoi darti da solo la vita. Puoi solo imparare a riceverla, ad accoglierla e a donarla di nuovo. E più che rendere pane la pietra, bisogna imparare a rendere di carne il proprio cuore di pietra e a donarlo come pane fragrante. 

Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”». Gesù gli rispose: «Sta scritto anche: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”» (Mt 4,5-7)

E di nuovo il diavolo insiste. Se tu sei Figlio di Dio, devi uscire allo scoperto, devi costringere Dio a farsi vedere, devi imporgli la tua salvezza. È la tentazione più sacra e devota. Ed è anche la più delicata. Perché Satana parla da Dio, prende e usa le sue parole, cita la Scrittura che diventa bestemmia. Propone a Gesù di buttarsi dall’alto del tempio, di dichiararsi salvato da Dio, di fare in modo che Dio intervenga perché suo Figlio sia preservato. 

La sfida è sottile e duratura. Gesù è spinto ad affrontare una prova che costringa Dio a salvarlo, a mostrarsi come Padre affidabile. E Dio diventa ostaggio, qualcuno che serve per farmi valere. Ma non è salvando il Figlio che Dio si mostrerà Dio.

E qui Gesù ricorda che l’uomo non può provare Dio, non può misurarlo e verificarlo. Non posso verificare Dio con criteri e misure umane. Non posso decidere prima in quale Dio la mia fede si incunea. 

Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». Allora Gesù gli rispose: «Vàttene, satana! Sta scritto infatti: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”» (Mt 4,8-10)

C’è poi un’ultima prova, un po’ più esplicita e vorticosa. Il potere fa sempre gola, attira sempre il possedere, avere la gloria e l’impero su tutto. Ci piace dominare sugli altri, sentirli ai nostri piedi. E quell’uomo nel deserto sa di essere il Figlio, sa che il potere sarà suo per sempre, sa che davvero lo attende la gloria. Ma non accetta le scorciatoie, non cede alle lusinghe di chi prospetta vie troppo brevi, di chi propone di saltare le tappe. Basterebbe piegare la vita, scendere a compromessi, accettare criteri umani, ridurre Dio a nostro fantoccio. Ma Gesù sa ciò che sta scritto, sa che solo Dio bisogna adorare. Sa che non si può piegare la vita per ottenere la gloria e il potere. Sa che egli di tutto sarà il Signore, ma solo accettando di farsi servo, di prostrarsi nel servizio più vero. Gesù non si prostra davanti a Satana, ma si piegherà davanti ai fratelli, per lavare i piedi e donare il suo amore. Si piegherà sotto il peso della sua croce perché anche il potere si faccia servizio, anche il dominio si trasformi in amore.

Non puoi accettare scorciatoie. Se vuoi contare qualcosa, adora l’unico Dio e poi piegati a servire i fratelli, ad amarli come il Padre ti ama. Il mondo non è fatto perché tu lo stringa in mano, ma puoi sempre mettere la tua mano a servizio del mondo. Non c’è potere più vero, non c’è possesso più duraturo.

Gesù non mette alla prova il Padre, non ne ha bisogno. Egli crede nel Padre che non lo salva dal calice amaro, non gli evita lo scandalo e la caduta. E arriva il giorno in cui il Figlio inciampa e muore, ed è lì che inciampa ogni uomo, quando sceglie di non salvare se stesso, di fidarsi di un Dio che sembra scomparso. Ed è solo allora che quella pietra si trasforma in vero pane.

Nel deserto e sulla croce, la tentazione è tutta nostra. Quella di credere ad un Dio diverso, ad un Dio che salva se stesso, ad un Dio potente che piega tutti. 

E, invece, credere è seguire un Dio che non ci dà pane ma parole per nutrire la vita, che ci insegna che salvarsi è possibile solo a chi sa donare la vita, a chi sa perderla per offrirla. Credere è amare un Dio che ci insegna che il vero potere è farsi servi e donare la vita.

Siamo tentati ogni volta che dubitiamo dell’amore di Dio, che mettiamo in dubbio la sua fedeltà, che vorremmo accorciare i tempi e le distanze per evitare lo sforzo di vivere la fede nel quotidiano.

Il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male» (Gen 3,4-5)

Siamo tentati quando ci immaginiamo che Dio sia come noi, geloso di tutto e chiuso nel suo ottuso potere. E siamo sempre lì, incerti se credere a lui e alla sua parola o al serpente che ci morde dentro, che ci instilla nel cuore veleno, che ci fa temere e pensare che, alla fine, Dio sia solo un altro nemico, un altro geloso del suo potere, un despota come tanti altri.

Adamo ed Eva, dimenticando che Dio li aveva creati a sua immagine, cedettero alle lusinghe del serpente. Volevano essere come Dio ma senza di lui e finirono per diventare simili al serpente, gelosi di tutto e rinchiusi nelle loro paure.

Il Figlio invece, nell’obbedienza per noi fino alla morte, ha superato ogni tentazione e ha scelto di non essere Dio senza di noi. E ora anche noi, per la sua obbedienza, siamo costituiti giusti, destinatari di una grazia che ci fa regnare per sempre insieme con Dio (cf seconda lettura).

Qui puoi leggere una riflessione sul tempo della Quaresima

Liturgia della Parola

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