Trasfigurare la storia

II Domenica di Quaresima A (Gn 12,1-4a; 3,1-7; 2 Tm 1,8b-10; Mt 17,1-9)

La seconda tappa del cammino quaresimale fa sosta, dopo il deserto, sul monte. Salendo in alto, bisogna portare solo la propria terra, quella di cui è impastata la vita. È sul monte che si ha una prospettiva più ampia, che supera steccati e confini. Il monte avvicina a Dio e permette di toccare ed entrare in cielo tenendo i piedi affondati sul nudo terreno. 

Sul monte si intravvede la luce che abita il buio, la gloria che splende nella passione, la vita che germina mentre si prepara la morte. 

Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte (Mt 17,1)

È il settimo giorno, il giorno di tutti i giorni. È il giorno della rivelazione ultima, quella piena e definitiva. È giorno che richiama e condensa gli altri giorni. 

Gesù sale sul monte portando con sé tre discepoli. Li porta in disparte, su un alto monte. C’è bisogno di staccarsi dagli altri, di vedere bene e a fondo e per farlo serve salire in alto. È un monte che si eleva al di sopra dei nostri orizzonti, più alto delle nostre mete. È monte che avvicina al cielo e, per questo, fa vedere meglio la terra. Ci sono momenti in cui abbiamo bisogno di quest’altezza, di questa salita che, mentre sembra farci lasciare il mondo alle spalle, in realtà è solo il modo per vederlo meglio, per penetrare al fondo di tutto, anche del buio più fitto.

E sono lì, il giorno settimo, su un alto monte, in disparte da tutto e da tutti. Un piccolo gruppo che ha il respiro dell’umanità intera, che reca in alto l’ansia di tutti. Perché a Gerusalemme? Perché proseguire, a muso duro, su quella strada che porta dritta al fallimento, perché non cambiare piano? E mentre queste domande, necessarie e legittime, umane e vere, riempiono la mente dei discepoli, Gesù conduce i tre altrove. Li fa uscire dall’ordinario, dal presente ripiegato su se stesso, rinchiuso nella paura di ciò che accadrà. E lì, su quel monte, apre, per loro e per tutti, uno spiraglio di futuro e di promessa o, meglio, apre loro la profondità del presente.

E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui (Mt 17,2-3)

Lì, su quel monte, Gesù fu trasfigurato. Il suo volto brilla come il sole e le sue vesti sono candide come luce. La trasfigurazione sembra squarcio aperto sul futuro, anticipo di luce, è caparra di vita. Non lo hanno mai visto così. Lo hanno visto sempre immerso nei sentieri terreni, sporco di polvere e fango, sudato e stanco.

Ogni esistenza ha in sé ferite, ogni veste ha scuciture e parti lise, ogni storia ha frammenti da rammendare, opacità e macchie che non si possono nascondere. La storia di tutti è costellata di notti che sanno di fango, di tenebre che sanno di morte, di inciampi e cadute che fanno male.

Ma lì, Gesù mostra la sua identità, mostra la veste e il suo vero volto, la verità di ciò che accade, quello che è vero oltre ogni apparenza. È sul monte che si può vedere al fondo del presente. Lì Gesù mostra se stesso e rivela, in quei segni di luce, che il suo cammino umile e dimesso, mortale e sconfitto è già pieno di luce nuova, è già impregnato di splendore divino.

Attorno a Gesù si raduna la storia sacra, la promessa e l’attesa. Mosè ed Elia sono con lui, perché in lui si compie un lungo cammino, in lui la storia trova il suo approdo. Mosè ed Elia conversano insieme a lui. Le parole di Dio parlano con la Parola, la promessa con il compimento, l’attesa con il Veniente. E lì, su quel monte, la storia del popolo nato da Abramo, l’unico benedetto perché tutti lo siano, trova il suo punto di arrivo. La Scrittura, su quel monte, si unisce alla Parola, il molteplice rivelarsi di Dio, che in molti modi e in molti tempi ha parlato, ora si svela in quell’uomo trasfigurato, in quella carne avvolta da luce.  

Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia» (Mt 17,4)

Pietro vuole fissare il momento, vuole renderlo duraturo. Vorrebbe installare la sua vita nella gloria e, per farlo, tenta di saltare le tappe, di accorciare le distanze, di evitare il sentiero scosceso e difficile che impone di restare in piedi prendendo la croce. 

È bello per lui essere lì e non coglie che la vera bellezza è quella di chi “non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto” (Is 53,2).

Pietro non comprende la via che conduce a Gerusalemme, l’aveva già rifiutata e messa in questione. Egli non capisce che la gloria nasce nell’umiliazione, che la luce risiede nelle tenebre, che lo splendore emerge nell’ignominia, che la bellezza risiede in un volto sfigurato.

I tre vedono la gloria e Pietro non riesce a capire quale sia la strada che conduce ad essa, quale sia lo scrigno che la conserva, quale sia la ferita che la rende accessibile, quale sia il trono dal quale risplende. Egli vuole soltanto restare lì, a quell’approdo che lo rende sereno. Dimentica il mondo che è rimasto giù, dimentica persino i suoi compagni, dimentica un’umanità intera.

Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo» (Mt 17,5)

E se Pietro tenta di sfuggire a ciò che deve ancora accadere, è ora Dio stesso a far entrare tutti nella nube, a coprirli nella sua ombra. Una nube luminosa interrompe Pietro e tutti sono coperti dall’ombra della nube di luce. E Dio mostra se stesso come tenebra e luce, come umiliazione ed esaltazione, come passione e gloria.

Dalla nube esce la voce che tenta di sostenere i passi incerti dei tre discepoli. “Ascoltatelo”, perché ascoltarlo è abbracciare la croce, è accogliere un linguaggio nuovo, è lasciare a Dio di essere Dio mentre è sulla croce e si fa buio su tutta la terra. Ascoltando il Figlio possiamo attraversare le ombre, possiamo muoverci quando ogni speranza ci ha abbandonati, quando le tenebre non ci fanno vedere la strada. Nell’ombra in cui si svolge e si spegne la vita solo una voce fa ancora da strada, apre e mostra il cammino, illumina di senso ciò che sembra soltanto la fine ed è invece luce che riveste ogni cosa. 

Quando viviamo tempi che sono bui, che sono avvolti dall’ombra e Dio sembra assente, la fede ci spinge a credere che è proprio quello il momento in cui ascoltarlo, in cui uscire fuori, in cui vivere noi il suo stesso esodo. È solo ascoltando la voce del Figlio, l’amato, che si può attraversare la nube, che si può vivere nella morte, che si può affrontare a mani nude il buio per farlo brillare della luce che emana dal volto glorioso del Crocifisso.

Il cammino è tutto e sempre in salita, perché siamo fatti per altezze divine, siamo fatti per sfidare le morti e la morte, per farle risvegliare alla vita, per renderle, con pena e fatica, grembi in cui si rinnova la storia. 

All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete». Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo (Mt 17,6-8)

I discepoli sono presi da timore, da quel fremito del cuore che avverte il mistero. Cadono con la faccia a terra, perché se la luce li attrae, è l’ombra della nube di luce a fare paura. Non hanno temuto di stare davanti a Mosè e ad Elia, non hanno temuto di vedere Gesù trasfigurato, ma hanno paura della voce che invita ad ascoltarlo, dell’ombra che avvolge le loro persone.

Sì, perché la nube luminosa fa anch’essa ombra. È il mistero di Dio e dell’Amore, è il mistero di quella salita difficile a Gerusalemme, è il mistero della Croce. Anche lì ci sarà una nube, anche lì prevarrà il timore.

A rimettere in piedi e in cammino bastano le parole di Gesù. È lui che conosce la strada, è lui che la apre e la percorre. Ci vuole il suo tocco per ridestare i discepoli, per richiamarli alla vita ordinaria, per renderli vivi e risorti, in piedi, mentre si compie il cammino. 

Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti» (Mt 17,9)

E poi dal monte bisogna scendere perché non si arriva alla luce del monte alto senza passare per le tenebre di un altro monte. Bisogna che il Figlio dell’uomo sia risorto dai morti per non cedere a facili illusioni, per non barattare il futuro con il presente, per non arrendersi alle lusinghe di scorciatoie mondane.

Bisogna assaporare da soli e in silenzio la luce che risplende nelle tenebre, la vita che vive nella morte, la parola che nasce dal silenzio. 

L’esperienza della trasfigurazione è annuncio e promessa. È sosta che rincuora e rimette in piedi. Perché in ogni vita ci sono momenti in cui non si sa come andare avanti, come continuare a credere e a sperare. Ci sono sempre occasioni in cui sembra che tutto sia ormai perduto, che è tempo perso e non ci sia davvero nulla per cui valga la pena… Ed è in quei momenti, in cui vorremmo dire a Dio che si è sbagliato, che ci sono modi più furbi e forti di affrontare le cose, che ci sono vie più agevoli e applaudite per arrivare alla meta, è in quei momenti che salire sul monte alto ci serve, per intravvedere nelle turbolente vicende del cuore, negli smacchi della vita, nei tradimenti e nelle cadute, nell’inutilità del nostro coraggio, una luce che non conosciamo, un volto che ci appare nuovo, una parola in cui, ormai, non speravamo. 

“Ascoltatelo!” dice la voce dal cielo perché ascoltare lui è spezzare le tenebre, è fregare la morte, è vincere la paura, è stanare l’odio.

E solo allora, dopo che avremo visto la luce, anche l’ombra ci sarà familiare. E potremo alzarci e andare, ascoltando quella voce che ancora ci chiama a fare della nostra vita un cammino, un’uscita continua (Cf. Prima lettura). 

L’invito a partire, che Dio rivolge ad Abram, è l’inizio di un tempo nuovo, di una storia che ci riguarda. Dio prende l’iniziativa e tira fuori Abram dalla sua situazione ordinaria, lo fa uscire fuori. La benedizione divina, infatti, è elezione e chiamata che mette in movimento, che sradica e mette in cammino.

Solo se siamo capaci di uscire da ciò che siamo e da ciò che siamo diventati, possiamo anche noi avere un volto e vesti che emanano luce, storie e parole che dicono Dio.

Figlio mio, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo. Egli ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’incorruttibilità per mezzo del Vangelo (2Tm 1,8b.10b)

Ma si può soffrire per un lieto annuncio, per una buona novella?

Sì, perché il Vangelo è grazia, è amore gratuito, è dono che non chiede in cambio, è vita spezzata che si fa comunione. E noi, con la forza di Dio, possiamo dire e donare, con la nostra vita, il Vangelo che ci ha redenti e salvati, l’amore che ci ha resi figli.

Liturgia della Parola

Se vuoi contribuire alle spese del sito puoi fare qui una tua donazione

Condividi