Una tomba che profuma d’amore

V Domenica di Quaresima A (Ez 37,12-14; Rm 8,8-11; Gv 11,1-45)

Il Vangelo è la storia di un’amicizia. Una storia che conosce il pianto, il dolore, la paura, la morte. 

È la storia di ognuno quando comprende di essere amato, quando vede, tra le tante lacrime che la vita gli dona, anche quelle dell’Amico che sembrava lontano, quasi distratto e indifferente al dolore che accompagna ogni morte.

Colui che tu ami” è malato, dicono a Gesù. E non c’è migliore definizione dell’amico e dell’uomo. Ognuno ha impresso per sempre questo nome davanti a Dio. Ognuno è colui che egli ama. E prima di ogni altra cosa siamo questo per lui: coloro che egli ama. E gli amati si ammalano, provano dolore, attraversano il confine ostile della morte. E non una volta soltanto. La vita è costellata di morti: delusioni, fallimenti, cadute, perdite, insoddisfazioni. Perdiamo sempre qualcosa di noi, fino a perdere tutto noi stessi.

E per l’amico che ama anche la malattia di colui che è amato, persino il suo fallimento, finanche la morte è per la gloria di Dio, perché il Figlio di Dio venga glorificato.

Non possiamo, però, fraintendere e vaneggiare. La malattia di Lazzaro è per la gloria di Dio e serve alla glorificazione del Figlio non perché è l’occasione, per Gesù, di fare sfoggio del suo potere, di dare prova della sua forza. Tutt’altro! La risurrezione di Lazzaro, nel vangelo secondo Giovanni, sancisce la morte di Gesù. È a causa di quell’evento che si deciderà la sua morte e si firmerà la sua condanna. La glorificazione di Dio e di suo Figlio coincide con la morte di Gesù. È la croce a mostrare la gloria, la presenza e l’azione di Dio nel mondo. E perché la gloria si manifesti serve che Gesù manifesti il suo amore, mostri le sue calde lacrime per la morte ci colui che egli ama, accetti di morire lui stesso perché ogni Lazzaro e ogni suo amico possa uscire indenne dalla morte e dalla malattia. La risurrezione di Lazzaro porterà Gesù alla morte perché egli ha scelto di morire per far vivere tutti i Lazzaro della storia, tutti quelli che egli ama e chiama suoi amici.

Il terzo giorno, Gesù si mette in cammino verso la Giudea, dove avevano cercato di ucciderlo. Si mette in cammino mentre sa che Lazzaro è morto. Gesù si dice contento per non essere stato con Lazzaro nel momento della sua malattia. “Io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui!”.

La morte di Lazzaro è necessaria perché i discepoli credano, perché riconoscano che sulla croce si compie la gloria di Dio. Accostarsi all’amico morto è prendere su di sé la sua morte, è accogliere il suo dolore. E Tommaso chiosa a modo suo quella scelta: “Andiamo anche noi a morire con lui!

Tommaso sembra quasi ironizzare. Si può rischiare la morte per un amico? Si può sfidare la morte per visitare un morto che da quattro giorni è nel sepolcro? Si può morire per uno che è destinato alla morte?

Marta corre e va incontro a Gesù. Le sue parole sono di rimprovero e di speranza, di rimpianto e di preghiera. Sono parole sospese tra ciò che nel passato non è avvenuto e ciò che ella spera circa il futuro. 

Signore, se tu fossi stato qui…” Quella di Marta è la preghiera più vera e diffusa, le parole più calde e accorate. “Mai che combacino i tempi di Dio col calendario dei nostri bisogni” (Turoldo)

Quante volte sentiamo il bisogno di ricordare a Dio che non c’era, che era altrove, che era assente quando serviva la sua presenza. È altrove quando noi soffriamo, quando non lo sentiamo, quando cadiamo, quando ci sentiamo persi, quando lo abbiamo perduto. “Se tu fossi stato” qui è preghiera che sa di lamento e contestazione. E ce la prendiamo con un Dio che è altrove, che non è mai lì dovrebbe, che non resta mai lì dove serve. 

Eppure Marta va oltre. Non si ferma al passato, sa che tutto può ancora succedere. Ella sa che l’amico che ha di fronte può chiedere tutto a Dio. In questo ella spera, in questo ella crede. E non si accontenta di parole accurate, scelte per l’occasione. Non le servono parole ambigue. Non le basta sapere che suo fratello risorgerà. È oggi che ella vive il suo problema, è oggi il suo dolore, è oggi che il tanfo di morte le è entrato in casa. Il futuro è troppo lontano, troppo sbiadito per dare conforto, troppo incerto per dare ristoro. E Gesù, davanti all’amore esigente di questa donna, si mostra e fa vedere.

Io sono la risurrezione e la vita”. La risurrezione e la vita sono lì, davanti a lei, sono presenti in quell’amico, in quel confidente col quale ella può lamentarsi. 

Chi crede in me, anche se muore, vivrà. Chiunque vive e crede in me non morirà in eterno”.

Gesù svela se stesso e rivela il futuro dell’uomo. Chi vive in lui non può morire, chi crede in lui sa andare oltre la morte. È già oltre, è già altrove. La vita è questione di relazione. Vivere è sapere in chi si vive, è restare vivi, nonostante le tante morti, perché si è scelto di posare nell’amico la propria vita, di confidare nel suo amore. Vivere è credere di essere colui che egli ama. Vivere è vivere di amore e di amicizia, è credere che persino un Dio ci può amare, che persino un Dio viene a visitare le nostre tombe, i nostri fallimenti e fa suo il nostro dolore, fa suo il nostro pianto. Credere in Cristo, risurrezione e vita, significa respirare il tanfo della morte e sapere che è proprio quello ad annunciare il tepore della primavera. Credere è sentire necessaria la morte perché è profezia della vita che sboccia. 

Credi tu questo?

E devi crederlo mentre senti la morte, mentre le lacrime ti bagnano il volto, mentre il fetore mortale ti toglie il respiro. Devi credere prima di poter vedere, prima di sapere e di capire. Devi credere perché l’amore non ha nulla da darti e da dimostrarti, non ha nulla di cui puoi chiedere conto. Credi tu questo? Credi che colui che ti ama è vita in cui puoi vivere, è amore in cui puoi risorgere, è vita in cui puoi anche morire perché la vita e l’amore non muoiono in eterno?

Marta va a chiamare Maria, sua sorella. La fa uscire dalla casa di lutto, dal suo dolore chiuso come un sepolcro. Lo fa con la scusa di una chiamata non esplicitata: “Il Maestro è qui e ti chiama”. Ci vogliono le parole giuste per far uscire da case serrate, da disperazioni che lasciano soli, da dolori che non si sa condividere. Marta sa cogliere nel segno, conosce la chiave di quel dolore, di quel cuore che soffre e dispera. Ti chiama! E ti chiama fuori dal tuo dolore, dalla morte che ti ha chiuso in sé. La morte di chi è accanto, infatti, è anticipo e profezia della tua, è inizio del tuo morire. Lo sa bene chi ha visto qualcuno morire. Non puoi più tornare indietro. La morte ti segna e ti scopri mortale, ti senti in vita perché sei moriente. 

Maria si alza subito e va da Gesù. La seguono quelli che erano lì per consolarla. Pensano stiano andando al sepolcro a piangere. È il corteo dei disillusi, di quelli che sanno come finisce ogni storia, di quelli che preferiscono consolare il pianto degli altri per allontanare il proprio. Sono quelli che hanno le parole facili, pronti a spiegare come vanno le cose, a far credere che basta il tempo per sanare ogni cosa. 

Maria ripete anche lei lo stesso lamento: “se tu fossi stato qui”. Il dolore ha voce uguale, ha lacrime che si assomigliano. Ripete la preghiera di tutti i tempi ad un Dio che è altrove e lontano, che ignora il grido di chi è prigioniero, il dolore di chi è solo nel suo soffrire, il pianto di chi sta per morire.

Gesù si commuove e fu turbato. Non affronta la morte a petto duro, non è insensibile davanti al dolore. Scoppia in pianto, perché l’amore non fa sconti. Il pianto che riga il volto di Gesù è il pianto per ogni morte, per ogni dolore da cui Dio sembra distratto. È il pianto di chi ama, il dolore di chi ha a cuore e fa suo il dolore di tutti gli amati. Non si può passare subito alla festa, all’esultanza del miracolo, alla risurrezione che restaura ogni cosa. Bisogna passare dal pianto perché la morte è cosa seria. Ogni morte, anche le piccole quotidiane morti, sono un dramma e un dolore. E Gesù piange, piange per Lazzaro e per se stesso, piange per ogni uomo e donna che soffre. Piange per raccogliere nel suo pianto divino le lacrime di ogni dolore. E anche piangere, da quel giorno, è atto di fede, è atto di amore e di speranza. Perché sono le lacrime a fecondare la vita, a renderla viva, a farla sbocciare fin dentro alla morte. Non si richiama alla vita qualcuno se non lo si ama e le lacrime sono il racconto più vero di un amore autentico.

Signore, vieni a vedere!”, gli dicono. Due verbi usuali nel vangelo secondo Giovanni. “Venite e vedrete”. Sono, in genere, legati alla vita che il Maestro è venuto a donare. Gesù ci invita ad andare da lui e a vedere perché lui ha scelto di venire a noi e vedere. È venuto con noi, vede i sepolcri in cui chiudiamo la vita, le morti in cui la sigilliamo, le tombe chiuse a difenderci dal dolore che non si può seppellire.

Togliete la pietra” è lo sforzo umano, preludio alla risurrezione. È la fede che è chiesta in anticipo, la fiducia che smuove le cose. Togliere la pietra è sperare contro ogni speranza, è credere quando non si vede nulla, è piangere continuando ad amare.

Bisogna credere per vedere la gloria di Dio, per vederla davanti ad un sepolcro sigillato, davanti ad una croce su cui è appeso un cadavere. Bisogna credere perché il futuro sia visto, perché si apra davanti allo sguardo una scena inattesa e imprevista. 

Vedere la gloria di Dio è sapere che l’amore ha vinto ogni morte, perché l’amore ha scelto la via della morte per farla fiorire di primavera.

E poi quello sguardo al cielo e quell’urlo a gran voce “Lazzaro, vieni fuori!”.

Anche un morto può uscire fuori dal suo sepolcro, anche un morto può essere liberato e lasciato andare. Perché colui che apre i sepolcri e ci fa uscire dalle tombe, si è fatto compagno delle nostre morti, coinquilino dei nostri sepolcri. 

E se anche la vita è un continuo correre incontro alla morte, sappiamo e sentiamo che ad attenderci ad ogni svolta, ad ogni passo di questo morire è solo la voce e il volto di colui che ci è amico, perché per lui noi siamo sempre gli amati. Ed è lui a gridarci ancor: Vieni fuori, perché io ho aperto il tuo sepolcro, ti faccio uscire dalla tua tomba. Ti farò vivere della mia morte, ti farò vivere della mia vita.  

Liturgia della Parola

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