Abramo, il dittico del buio
Un breve estratto dal mio libro Una storia di fede. Abramo, per riflettere sulla notte di Abramo (Gen 15)
Poi lo condusse fuori e gli disse: “Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle” e soggiunse: “Tale sarà la tua discendenza” (Gen 15,5)
Il testo ci dice che Dio condusse fuori Abram. E allora possiamo dedurre che Abram fosse nella tenda, in quella dimora instabile e precaria dove l’invito di Dio lo ha collocato. Abram è pellegrino e per il pellegrino la tenda è ristoro e salvezza, rifugio e casa, sicurezza e pace. Eppure Dio fa uscire Abram fuori, anzi lo conduce fuori lui stesso, e scopriamo che era notte. Ci sono state e ci saranno ancora tante uscite, tanti esodi e Abram esce dal confine certo della tenda, dal perimetro delle sue sicurezze e dei suoi calcoli umani per esporsi al buio della notte che è poi anche il buio del suo cuore e della sua speranza. Abram vive qui la notte del tormento, la notte prima di tante altre notti, la notte prima delle nostre notti. Ci sono state tante notti e tante ce ne saranno, tutte diverse tra loro e tutte accomunate dal segno che le contraddistingue: il buio. Abram deve uscire allo scoperto, sfidare i pericoli della notte e dello spazio aperto, deve vivere il buio e guardarlo in faccia.
Abram viene condotto fuori: sembra un’azione di forza, ma forse va letta in coerenza con l’altra uscita che Dio ha già fatto compiere ad Abramo. Egli è già uscito dalla terra, dalla parentela, dalla casa di suo padre: ora deve uscire dalla tenda, unico rifugio nel quale trovare certezza. Abram deve uscire dai suoi convincimenti, dalle sue soluzioni, dal suo continuo confondere le parole del Dio che si rivela con i bisogni del suo cuore. Abram deve uscire dal meccanismo cronologico dell’urgenza del bisogno, per entrare nello spazio libero e aperto dell’attesa della promessa, che è poi l’attesa che il desiderio nutre e motiva. Eppure, lo spazio aperto dalle parole di Dio è uno spazio buio, notturno, non calcolabile e misurabile.
L’invito di Dio è però chiaro, solenne e al contempo carico di sospensione. Abram deve levare il suo sguardo in cielo, è lì che deve guardare, lì dove il buio della notte è totale e infinito. Guardare il cielo di notte, per Abram, è guardare il buio che attanaglia il suo cuore e la sua vita. Guardare il cielo è sì levare in alto lo sguardo ma per accogliere di vivere nel buio e nella notte. Abram deve contare le stelle, deve guardarle e annoverarle. Ma come si guardano le stelle di notte? Per vedere le stelle occorre abituarsi al buio della notte, occorre fissare con forza gli occhi nel buio perché solo concentrando lo sguardo sul buio più cubo si inizieranno a vedere le fragili e flebili fiammelle della notte. Le stelle non si vedono senza vedere il buio, senza fissarlo con volontà, senza accoglierlo con determinazione. È singolare la scena: Abramo esce dalla tenda, di notte e al buio, e alza lo sguardo per contare le stelle. E tutto perché? Perché Dio vuole rassicurare il cuore buio e tenebroso di Abram: tale sarà la tua discendenza!
Abram contava i giorni del cammino verso la morte, numero definito e limitato, giorni che si sommano fino al giorno finale; ora deve contare le stelle, se riesce a contarle. È la sfida di Dio che legge nella vita e nel cuore. È la sfida del Creatore alla creatura che ha bisogno di ricordare che solo Dio conta le stelle e, per giunta, chiama ciascuna di esse per nome (Sal 147,4). Abram, davanti al cielo stellato, è muto e spaurito, inerme e indifeso. Le stelle che pulsano diventano mistero e segno, garanzia e promessa. Se Dio conta le stelle e le chiama per nome, Abram può guardarle e sperare, può guardarle e aspettare. Le stelle che Abram non può contare sono il sigillo di Dio alla sua parola: Abram cerca soluzioni umane e le propone al Dio dell’universo che conta le stelle e promette che le stelle del cielo saranno il numero della discendenza di Abram.
Giobbe affronterà più tardi la stessa avventura. Anch’egli, uomo sfidato dal male e dai mali, griderà verso Dio il suo lamento e la sua angoscia, manifesterà la sua onestà e purezza di cuore e chiamerà Dio ad essere giudicato. E Giobbe, come Abram, dovrà fare i conti con il Dio del Creato. È bene rileggere il capitolo 38 del libro di Giobbe per scoprire che in Abram anche Giobbe è già presente. Ad Abram non è possibile contare le stelle come a Giobbe non è possibile conoscere “Qual è la strada dove abita la luce e dove dimorano le tenebre, perché tu le possa ricondurre dentro i loro confini e sappia insegnare loro la via di casa?” (Gb 38,19). Giobbe e Abram non conoscono nemmeno il luogo dove abiti la vera sapienza perché “Dio solo ne discerne la via, lui solo sa dove si trovi, perché lui solo volge lo sguardo fino alle estremità della terra, vede tutto ciò che è sotto la volta del cielo” (Gb 38,23-24).
La strada dove abita la luce così come la strada della sapienza sfuggono alla conoscenza di Abram e di Giobbe. Essi non sanno calcolare, non sanno misurare, non sanno trovare quello che Dio solo conosce e sa operare. Abram è ricondotto quindi a riconsiderare se stesso, i suoi bisogni e le sue soluzioni. Abram sa, in cuor suo, che Dio non può dargli nulla, tanto meno un figlio, ma ora sa anche di non saper nemmeno contare le stelle. Le stelle di una notte buia e difficile diventano allora la cifra e il segno di un Dio dell’impossibile, di un Dio che guarda le potenze e presunzioni umane e se ne ride […]
Dio parla ad Abram in visione e scopriamo che l’unica cosa che Abram può e deve vedere sono il buio e le stelle, le stelle della notte, le stelle che orientano il cammino degli uomini, le stelle che a volte sembrano dominare e guidare la storia umana. Abram deve vedere le stelle e contarle… e ci immaginiamo Abram, il vecchio pellegrino, nel cuore di una notte, pericolosa come lo sono tutte per i pellegrini, impegnato, fuori dalla sua tenda, a contare le stelle […]
Vedere le stelle per Abram è come vedere i confini del buio e della notte. La notte è il buio dello smarrimento, ma anche questo buio ha i suoi confini, i suoi limiti. Le stelle del cielo viste da Abram, primo profeta, diventano i segni eloquenti che nel buio della storia e della vita, Dio sempre mette i confini. Le stelle di Abram sono la certa conferma che il buio della notte, visto e vissuto nel suo dramma, cela in sé ricchezze e vita insperata. Abram non vede nulla di nuovo, quelle stelle sono quelle di sempre, ma ora, che le vede per la parola che Dio gli ha rivolto, quelle stelle diventano il cuore di un buio che chiede di essere squarciato, di una notte che chiede di essere svelata, di un dubbio che chiede di lacerarsi di fronte all’evidenza di un Dio che non gioca con le sue parole. È difficile per noi cogliere la grandezza del segno delle stelle: dovremmo avere gli occhi di Abram, gli occhi dello sconforto e della morte, gli occhi della sfiducia e del terrore. Dovremmo avere il coraggio di fissare il buio e la notte, non per amore del rischio e del limite, ma per la fiducia in un Dio che solo nel buio si fa vedere e fa sentire la sua forza. Abram al buio, fuori dalla tenda, non ha nulla di familiare da guardare, non ha nulla di proprio su cui appoggiarsi, non ha certezze e sicurezze su cui contare: per questo guardare le stelle diventa per lui segno e promessa, garanzia e verità.
Solo ora noi sappiamo con certezza cosa alberga nel cuore e nella storia di Abram:
Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia (Gen 15,6)
Abram credette al Signore guardando le stelle nel buio, credette alla sua parola sfidando la paura della notte. La vera fede nasce nel buio del silenzio notturno, nel tormento del cuore che si dimena, nella rabbia di un esilio vissuto. È quando ogni certezza umana viene meno che gli occhi riescono a vedere: solo nel buio si vedono le stelle. Abram credette a quel Dio che ha dato movimento e incertezza alla sua vita. Non sappiamo cosa albergasse prima nel cuore di Abram, non sappiamo perché egli abbia preso sul serio l’invito a partire… Sappiamo però che solo ora egli crede al Signore. Credere, però, è per noi parola vana, troppo abusata, è parola stanca e quasi senza vera profondità.
Abram credette al Signore ed è come dire che egli, persa ormai ogni certezza umana, ogni solidità di vita e di relazioni, si appoggia solo al Signore, si fonda in lui, su di lui che è roccia che sostiene e dà forza. Credere, nella lingua ebraica, non è solo assentire con la mente o col cuore, è radicare tutta la propria vita su una parola sicura e affidabile. Credere diventa allora costruire una casa, la propria, avendo la parola di Dio come unico fondamento e certezza (cf. Mt 7,24-27). Abram è stato chiamato perché deve costruire una storia, una famiglia, una terra, un popolo e per farlo deve avere un solo fondamento: la parola di Dio.
Quella di Abram è impresa sovrumana come lo sarà quella dei patriarchi, di Mosè, del popolo ebraico, dei cristiani, di ogni uomo che sa che, alla fine di tutto, ciò che più conta è avere il coraggio di guardare il buio della notte per costruire la vita e la storia sull’unica garanzia che Dio offre: la flebile luce delle stelle. È guardando in alto che i passi dell’uomo costruiscono futuro, è abbracciando il buio di ogni insicurezza che si è certi di non venir meno all’appuntamento con Dio che realizza le sue promesse […]
Mentre il sole stava per tramontare, un torpore cadde su Abram, ed ecco terrore e grande oscurità lo assalirono (Gen 15,12)
E Abram è assalito da terrore e da grande oscurità. Ormai lo sappiamo: è la notte e l’oscurità il segno che Dio sta agendo, che Dio è all’opera, che Dio sta realizzando prodigi di futuro. Il terrore di Abram è il terrore dell’uomo che vede la notte di Dio, che vede il Dio che agisce nella notte perché solo lui sa per quale strada la luce ritorna a risplendere (cf. Gb 38,19-24).
È mentre Abram è sotto l’assedio del terrore e dell’oscurità che Dio prende parola per svelargli il futuro del popolo che uscirà da lui […]
Ma cosa hanno a che fare queste parole con gli animali divisi? Con lo spettrale scenario che Abram ha creato?
È necessario che il sole sia tramontato, che il buio sia fitto perché Dio possa rispondere alla domanda di Abram, al cuore indeciso di un fragile pellegrino.
Quando, tramontato il sole, si era fatto buio fitto, ecco un braciere fumante e una fiaccola ardente passare in mezzo agli animali divisi.
In quel giorno il Signore concluse questa alleanza con Abram: “Alla tua discendenza io do questa terra dal fiume (Gen 15,17-18)
Nel buio della notte non più le stelle, ma un braciere fumante e una fiaccola ardente che passa tra gli animali divisi. Gli occhi di Abram e i nostri restano a guardare, nel fitto buio dell’incontro con Dio, il braciere e la fiaccola, il fumo e la fiamma.
Quello che qui si compie è un giuramento solenne, il più forte e il più vero: Dio, che è insieme fumo e fiamma, passa tra gli animali divisi per impegnarsi a prezzo della vita e del sangue. Questo che si è compiuto è un rito che suggella un patto e un giuramento. Passare tra gli animali divisi è invocare su di sé la stessa sorte che li ha colpiti qualora si infranga il giuramento e il patto. È una promessa per la vita. Abram, nel suo torpore, vede il fumo e la fiamma e assiste al passaggio mortale di un Dio che promette a costo della sua vita. Nessuno chiede ad Abram di fare altrettanto: solo Dio si impegna e promette.
Fumo e fiamma, oscurità e luce, tenebra e visione: è il Dio della promessa e del patto, il Dio della vita e della morte. Dio ha promesso e lo ha fatto giurando su se stesso e sulla sua vita: egli rispetterà il patto e l’alleanza che ha stretto […]
L’alleanza è conclusa, il patto suggellato. Dio ha parlato ad Abram in visione ma egli ha visto solo le stelle, il fumo e la fiamma. La rivelazione che si è compiuta svela ad Abram, velando, il Dio che dona e il Dio che sa come donare ma Abram ancora poco può capire e vedere. La discendenza e la terra non si vedono ma Abram nel buio della notte qualcosa ha pur visto, qualcosa ha sentito e questo sembra bastare. […] Abram, uomo che ha rinunciato al passato, ha in Dio il suo futuro, racchiuso in un fumo e in una fiamma, realtà sfuggenti e misteriose, aleatorie e incerte. Non si afferra una fiamma e non si afferra il fumo: eppure si vedono e agiscono e fanno sentire la loro presenza… Così appare Dio nella notte di Abram: Dio passa e si fa vedere ma niente può stringerlo e afferrarlo e, forse, davvero la mente non può afferrare un Dio che giura su stesso, sulla sua vita, di adempiere alle sue promesse. E solo le tenebre e il buio possono custodire e mostrare la presenza di Dio.
cf. M. Manco, Abramo. Una storia di fede, Tau editrice, pp. 75-94