Così fu generato e così resta con noi

Ci sono svolte che non sono pensabili. È l’incursione di Dio nella nostra vita, il suo farsi vivo lì dove non è possibile, proprio quando non è contemplato. E a fatica riusciamo a credere che sia proprio lui a farsi presente, perché è segno chiaro che ci mette in crisi, che si fa vicino e ci chiama a giudizio. Dio infatti, mentre si dona, ci spinge sempre ad una crisi, ad una scelta che è solo nostra. 

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Lo scandalo della gioia

Nel cuore dell’avvento risuona l’invito alla gioia e la Parola avverte che non è più tempo di pianto e di tristezza. Ma come e perché gioire? Come annunciare e vivere questo il tempo come il momento della festa? Attorno a noi regna una coltre di nube e di rassegnata disperazione. Nulla sembra andare per il verso giusto e i progetti umani sono sempre più incerti e precari. Siamo in balia delle onde e delle maree. Eppure risuona per noi l’invito a rallegrarci. 

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La fine dei giorni

L’Avvento inizia dalla fine, da ciò che dà senso e slancio al cammino. È “alla fine dei giorni” che si volge lo sguardo perché è solo la fine che può suggerire la strada a questo presente, che può riempire le ansie del tempo con una veglia che sia luminosa, che sia colma di attesa e speranza. È grandiosa la visione dell’Avvento, perché è visione della fine, della meta a cui tutto aspira. 

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Il grido d’Avvento

Il tempo, scandito dall’anno liturgico, ha un inizio che coincide con l’Avvento. Il tempo, infatti, può iniziare e farsi storia perché il suo scorrere è sottratto al ciclico e insensato rincorrersi uguale dei giorni. La storia e il tempo possono iniziare perché c’è un Altrove che viene, c’è un Oltre che ad-viene. L’Avvento è il tempo che vede la nostra storia aperta all’Altrove. È il tempo in cui celebriamo la venuta, anzi esponiamo noi stessi e gli eventi a questa venuta che avviene.

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Quando ci diranno beati?

C’è il rischio di abituarsi a tutto. Persino al Natale. Non ci stupisce più il mistero dell’incarnazione! Non nasce in noi quel senso di meraviglia inquieta. Dio ha scelto di entrare nella storia dell’uomo usando la “porta di servizio”. Dio si è fatto uomo, è passato attraverso le strettoie della vita umana. Quelle stesse alle quali tentiamo inutilmente di sottrarci. Quelle stesse che pensiamo siano di ostacolo e impedimento all’incontro con lui. Natale, invece, è scoprire che Dio è proprio lì dove non dovrebbe. Natale è credere che Dio si muova ancora lungo le strade del mondo per far sussultare di gioia ogni vita. É credere che egli ha scelto che il nostro corpo sia il suo, che la mia carne diventi la sua.  

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Tutt’altro che affabili

È un po’ difficile dirsi cristiani. Non perché bisogna osservare una morale, essere fedeli a delle pratiche, credere in cose difficili. Ma perché non si può essere cristiani senza trasudare di gioia. Perché la prima cosa che dovrebbe essere notata di un cristiano è la sua affabilità. E, di questi tempi, mi sembra che di cristiani così se ne vedano pochi. Oggi i cristiani sono riconosciuti più spesso per il loro lamento e la loro asprezza ostinata (alcuni per ciò che non va nella Chiesa e altri per ciò che non va nel mondo). 

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Per iniziare ci vuole la fine

Il tempo della Chiesa ha inizio con l’avvento e perché l’inizio sia vero ci vuole la fine dalla quale partire. È la fine, infatti, a rendere nuovo un tempo, sottraendolo al suo monotono scorrere che divora la vita. Solo la fine, che è la meta e lo scopo, permette l’inizio di un tempo nuovo, di un tempo che sia di grazia. Non si può iniziare, allora, se non dalla fine. È per questo che la Chiesa apre un nuovo anno con il cuore rivolto al centro e alla fine del tempo, al Natale e alla Venuta finale del Cristo, all’ingresso di Dio nel tempo e nella carne e all’ingresso della carne e del tempo in Dio. E perché sia avvento occorre sentire che questo tempo, che scorre senza senso e senza scopo, ci sta stretto, ci stringe, ci fa mancare l’aria.

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