Quando ci diranno beati?

IV Domenica di Avvento Anno C (Mi 5,1-4a; Eb 10,5-10; Lc 1,39-45)

C’è il rischio di abituarsi a tutto. Persino al Natale. Non ci stupisce più il mistero dell’incarnazione! Non nasce in noi quel senso di meraviglia inquieta.

Dio ha scelto di entrare nella storia dell’uomo usando la “porta di servizio”. Dio si è fatto uomo, è passato attraverso le strettoie della vita umana. Quelle stesse alle quali tentiamo inutilmente di sottrarci. Quelle stesse che pensiamo siano di ostacolo e impedimento all’incontro con lui. 

Natale, invece, è scoprire che Dio è proprio lì dove non dovrebbe. Natale è credere che Dio si muova ancora lungo le strade del mondo per far sussultare di gioia ogni vita. É credere che egli ha scelto che il nostro corpo sia il suo, che la mia carne diventi la sua.  

È irreversibile l’abbraccio tra Dio ed ogni uomo, tra il cielo e la terra. Tuttavia, non possiamo abituarci, non possiamo archiviare questo evento di grazia tra le cose ormai risapute.

Dio riprende in mano la storia, quella del popolo ebraico e quella di tutta l’umanità, la mia e la tua storia. La prende in mano per farla sua, per impastare, con quella, il corpo del Figlio divino, quel pane che ancora possiamo spezzare e donare perché nuovi grembi esultino e siano pronti a far sbocciare la vita.

Eppure oggi è difficile che ci dicano che siamo beati, che riconoscano che abbiamo creduto. E, forse, non è solo perché gli altri non sanno vedere…

«E tu, Betlemme di Èfrata,
così piccola per essere fra i villaggi di Giuda,
da te uscirà per me
colui che deve essere il dominatore in Israele;
le sue origini sono dall’antichità,
dai giorni più remoti»
(Mi 5,1)
Questo oracolo condensa le attese di un popolo e lo stile di Dio. Da Betlemme sorge il re Davide, ragazzo ignorato dagli occhi umani, ma sul quale Dio ha posto il suo sguardo divino. Scartato per logiche di questa terra, Dio lo sceglie come re e guida del suo popolo. Non riusciamo a capire perché Dio agisca così: non vogliamo capirlo, perché le sue scelte ribaltano i nostri criteri.  A Betlemme, quindi, Dio sceglie un re e il futuro del regno, nonostante quella “Casa del pane” sia troppo piccola e troppo anonima rispetto ai grandi villaggi di Giuda. È lo stile di Dio: Betlemme, la Galilea delle genti, Nazareth. Luoghi che non sono centrali e non sono importanti, dai quali nulla può venire di buono.

«Egli si leverà e pascerà con la forza del Signore,
con la maestà del nome del Signore, suo Dio.
Abiteranno sicuri, perché egli allora sarà grande
fino agli estremi confini della terra.
Egli stesso sarà la pace!»
(Mi 5,3-4a)

È da Betlemme che Michea attende la nascita di un nuovo re. Eppure, di parola in parola, di attesa in attesa, di re in re, quelle parole si riempiono di nuove speranze. A Dio non basta promettere, egli rilancia e rinnova ogni promessa e quelle parole, secoli dopo, prendono nuovo senso e valore. Da Betlemme è uscito il Cristo, pastore vero e guida sicura. 

Eppure, guardando al mondo, queste parole sembra che siano avvenute invano. Cristo è grande fino ai confini della terra eppure molti sembrano aver dimenticato il suo nome. E poi, non c’è sicurezza e manca la pace. 

E può sorgere il dubbio che Natale sia ancora invano, che sia ancora vana la presenza divina. Che, forse, siano solo parole! 

Eppure, lo sguardo si volge dentro, l’ascolto si fa più intenso: “Egli stesso sarà la pace!”

Non è più gioco e trama politica, strategia e tornaconto. Egli stesso si è fatto pace, perché nel suo corpo si incontrano tutte le carni e le storie umane. Egli si è fatto corpo in cui tutti i corpi ritrovano impresse le proprie ferite. Si è fatto uomo in cui ogni donna e ogni uomo intravvede il suo stesso volto. E allora se manca la pace, se tutto questo è ancora lontano, occorre scavare ancora, scendere dentro la storia, penetrare fin dentro al mistero di questo Natale.

Fratelli, entrando nel mondo, Cristo dice:
«Tu non hai voluto né sacrificio né offerta,
un corpo invece mi hai preparato.
Non hai gradito
né olocausti né sacrifici per il peccato.
Allora ho detto: “Ecco, io vengo
– poiché di me sta scritto nel rotolo del libro –
per fare, o Dio, la tua volontà”»
(Eb 10,5-8)

L’ingresso di Cristo nel mondo è l’ingresso di un corpo che Dio ha preparato perché finalmente la terra e il cielo si accordassero in un solo canto. È un corpo che supera la separazione. I sacrifici e le offerte, infatti, erano desiderio di questa unione, di questa tensione che voleva unire orizzonti lontani. Ma ora, con l’ingresso di Cristo nel mondo, basta il suo corpo, basta la sua scelta perenne di fare la volontà di Dio. E il Natale è già orizzonte pasquale, è già angoscia dell’orto, dove il Figlio si affida al Padre, dove, ancora e per sempre, ripete per tutti quell’unico “Ecco, io vengo per fare la tua volontà”. In quel suo eccomi trovano posto le nostre esili voci, i nostri timidi passi, le nostre incerte decisioni, il nostro desiderio che si compia anche in noi il volere di Dio. È in lui e nel suo corpo che si concentra la vita e la volontà di ogni uomo. Egli ha detto per tutti il suo eccomi e, da quel giorno, il mondo è attraversato da onde di grazia, da passi di danza, da grida di gioia e da lacrime che sono divine. 

Mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre (Eb 10,10)

Non ci sono altre cose da offrire. Basta quel corpo con cui egli si offre, quel corpo nel quale anche noi siamo chiamati ad entrare. È il corpo di Cristo che ci santifica ed è entrando e partecipando a quell’offerta, inserendoci in quella volontà d’amore, che anche noi possiamo ancora portare nel mondo il suo corpo, rendere vivi i suoi gesti. Non servono troppi strumenti umani, serve solo una fede che ci schiodi da ogni certezza, che metta fretta al nostro cammino.

Perché se il mondo non ha ancora pace è perché non ha ancora lui, non ha ancora incontrato il suo corpo, non ha ancora ascoltato le sue parole, non ha ancora incrociato il suo sguardo che, anche oggi, continua a guardare con gli occhi di ognuno di quelli che sanno amare e che sanno dire con lui e in lui il loro eccomi.

Credere è mettere un corpo a servizio di Dio, è unire al corpo di Cristo anche il proprio.

E allora, senza timore, potremo camminare sulle strade del mondo, affrontare colline e montagne, perché l’unico peso che porteremo è quello del corpo di Cristo che ci porta con lui dove egli vuole farsi presente.

Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda.
Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta
(Lc 1,39-40)

L’eccomi che dice il Cristo genera e rende possibile l’eccomi della madre. L’eccomi è mettersi in gioco, è credere che la vita può ancora muoversi, possono ancora iniziare percorsi e storie che non siano banali. Maria si alza e va in fretta. Non va per servire la cugina, non va per portarle aiuto. Va perché ha fretta che la vita che gli vive dentro diventi canto e annuncio di pace. Ha fretta perché l’angelo le ha raccontato che anche Elisabetta è piena di un nuovo futuro. Maria ha fretta di credere a ciò che le è stato annunciato, di rivolgere ad altri quell’eccomi che ha rivolto a Dio. Ha fretta di portare agli altri l’eccomi che Dio ha pronunciato.

E Maria saluta Elisabetta: Pace! Shalom! È questo il saluto che le due donne si scambiano. Maria saluta Elisabetta e la pace che ella augura con le labbra, la sta tessendo con la sua carne, l’ha resa viva con la sua scelta. Pace sarà l’annuncio degli angeli nella notte santa: tutti gli uomini sono amati dal Signore e questa benevolenza divina ha un volto ed un nome nel bambino di Betlemme.

Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: 

«Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto» (Lc 1,41-45)

Basta un saluto e sussulta la terra, sempre gravida di nuove speranze, sempre in attesa di nuovi annunci. Il bambino, Giovanni, le sussultò nel grembo: è danza di gioia perché, in quelle due donne, le attese promesse sono compiute. Nel loro incontro, l’attesa di Dio e l’attesa dell’uomo si fanno tutt’uno. 

E così Elisabetta, sterile e anziana, mostra che è Dio a intervenire per rendere feconda la storia. Tutta l’attesa e la storia di un popolo, proprio quando sembra inutile e rinchiusa in se stessa, si apre alla danza nuova, alla gioia davanti ad un saluto che mostra il nome di un corpo che nasce, che reca il suono di una Parola che giunge nel mondo da confini eterni.

Maria è Arca che reca il Verbo, carne che dona la carne di Dio, corpo che tesse il corpo divino. Maria è l’Arca nuova, in lei il patto è stretto e suggellato.

È in lei che Dio si fa ora presenza e cammina sulle alte montagne perché sia annunciato il tempo nuovo. 

È questa la prima missione, il primo annuncio, il primo passo del nuovo cammino. 

Maria è benedetta e benedetto è il frutto del suo grembo. Madre e figlio sono insieme racchiusi in una benedizione, in un nuovo inizio, in una nuova creazione. 

Maria è beata perché ha creduto. La beatitudine di Maria apre una nuova sorgente, un nuovo torrente di benedizioni. Ella è la prima ad aver creduto in quel modo, ad aver preso sul serio un Dio che prende casa tra le case degli uomini, un Dio che ci chiede di dargli un corpo, che ci chiede di entrare, con la nostra carne, nel suo corpo spezzato e donato. 

E da quel giorno la Parola ha cominciato il suo cammino, ha dato inizio alla sua corsa. 

Elisabetta accoglie per prima il Verbo che si fa carne, lo accoglie a nome dell’umanità, di tutta questa storia che ci sembra troppo spesso ancora chiusa nella sua sterilità e si domanda, con stupore e la meraviglia: a che debbo che la madre del mio Signore venga a me?

A che dobbiamo che il Signore continui a venire, a farsi corpo nei corpi, parola nelle parole, vita nelle vite che incontriamo?

Piuttosto che piangerci addosso
e maledire i tempi pagani, 
dovremmo anche noi dire “Eccomi”
e poi alzarci ed andare.
Se Dio ci è entrato dentro,
se vive nel corpo che abbiamo,
dovremmo in fretta
portare la gioia,
far sussultare la vita nascosta,
che attende e che spera
di vedere Colui 
che è la Pace.
A che devono gli altri 
che il Signore venga a loro attraverso di noi?
Solo allo sguardo d’amore di Dio
che compie in noi e in loro
le grandi cose
della sua onnipotenza.
E forse qualcuno riprenderà a dirci:
beati voi perché avete creduto!

Liturgia della Parola

Condividi