Non sei tu a preparare la strada

II Domenica di Avvento Anno B (Bar 5,1-9; Fil 1,4-6..8-11; Lc 3,1-6)

L’avvento è tempo di attesa e di grido, di abbandono e di inerme fiducia. Ma noi non siamo abituati ad attendere, a restare in attesa ed aspettare. Preferiamo l’ansia del fare, abbiamo il bisogno di sentirci utili, di pensare di essere noi a guidare la storia. L’attesa ci logora perché ci chiede di restare passivi e pensiamo che l’avvento sia darci da fare e preparare.

In verità noi, in avvento, non abbiamo molto da preparare. Possiamo solo non vergognarci di quelle lacrime che ci rigano il volto, di quei desideri che non riusciamo a soffocare, di quella sete che rende secca la vita.

L’avvento è tirarsi fuori dalla storia potente, che crede di fare ciò che è necessario, che pensa che tutto dipenda da noi, che pensa solo di bastare a se stessa.

Avvento è restare nei nostri deserti e sentire il brivido che atterrisce il cuore, avvento è restare e aspettare, è sperare che proprio lì, nei nostri deserti verrà ancora una Parola, proprio quella che sembrava perduta e che non siamo in grado di pronunciare. 

Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetràrca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetràrca dell’Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetràrca dell’Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Càifa, la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccarìa, nel deserto (Lc 3,1-2)

Luca ci introduce nei tempi e nei luoghi del potere e del dominio. Lì dove ciascuno pensa e si illude che si compiano le cose serie. Lì dove ognuno immagina di essere artefice di ciò che conta e crede di essere lui il creatore di tutta la storia.

Ci introduce, quindi, nella storia che conta, quella ricordata sui libri di storia. Eppure, le cose che contano avvengono sempre ai margini della storia ufficiale. Le storie vere si vivono altrove.

Mentre tutto si svolge secondo i ritmi e i pensieri umani, nel deserto venne la parola di Dio. Quella è parola che non puoi prevedere. Viene lì dove non dovresti trovarla. È parola che attendi e non sai quando viene, è parola che speri mentre sei disperato, che ascolti e non sai ridire, che ignori ma ti vive dentro, che ti fa sorridere mentre hai il cuore ferito a morte. Quella è parola che non ti appartiene perché non è tua e non la puoi pronunciare. Eppure lei ti viene incontro, ti sale addosso, ti investe e ricopre con la sua forza. È parola che tu non possiedi e nulla puoi fare per conquistarla. È dono che giunge all’improvviso, è lampo che illumina il cuore, è squarcio divino che spezza il grigiore.

E quel giorno (e da allora per sempre) la parola venne nel deserto perché solo il silenzio la fa risuonare. Venne nel deserto, luogo di amore e di tentazione, luogo di esilio e di ricerca, luogo di morte che porta la vita. La parola venne nel deserto lì dove l’uomo non sopravvive, lì dove ogni grido si perde lontano, dove le lacrime non sono viste e si perdono subito senza che siano servite a bagnare e fecondare la terra.

Venne nel deserto perché è parola che si può incontrare quando ogni altra parola è restata muta. E in ogni vita c’è tanto deserto ed è proprio lì che occorre restare, fermi e indifesi, del tutto incapaci. Quel giorno nel deserto venne la parola e fu goccia che divenne torrente, fu pioggia divina che rese il deserto un giardino fiorito.

La parola scese lontano da ogni clamore, fuori da ogni recinto, libera da ogni vincolo, perché è parola che libera e nutre, che risana e ricrea il mondo, che mostra ai potenti e ai faccendieri di turno che solo Dio può fare qualcosa.

Egli percorse tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati, com’è scritto nel libro degli oracoli del profeta Isaìa:
«Voce di uno che grida nel deserto:
Preparate la via del Signore,
raddrizzate i suoi sentieri!
Ogni burrone sarà riempito,
ogni monte e ogni colle sarà abbassato;
le vie tortuose diverranno diritte
e quelle impervie, spianate.
Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!»
(Lc 3,2-6)

Giovanni, investito da quella parola, percorre la regione del Giordano, il confine della libertà e della promessa. Il Giordano è sponda che divide la storia tra schiavitù e libertà, tra esilio e patria, tra fuga e dimora. Il Giordano, infatti, è il fiume che gli Ebrei hanno attraversato per entrare nella terra promessa. Ed è il fiume che, nella storia, segna l’inizio di ogni esilio ma anche il ritorno nella patria perduta. È il confine in bilico dove il peccato dell’uomo e l’amore di Dio sono pronti a sfidarsi e gareggiare.

Giovanni percorre tutta la regione di frontiera, predicando l’immersione in un nuovo cammino, che abbia il sapore del tornare indietro, della riscoperta del primo amore. C’è infatti una fonte alla quale tornare, c’è un fiume in piena nel quale immergersi. E persino il peccato, che rende arida e morta la vita, è un deserto che è costretto a fiorire quando Dio si lascia incontrare e noi ci immergiamo nel suo amore divino.

Anche la conversione, quindi, è dono di Dio. Non si torna indietro, non si cambia il proprio pensiero se non si incontra una parola nuova, se non si vede una salvezza vicina, se non si riconosce che Dio si è messo in cammino. Prima di Giovanni, già altre volte, nel deserto, erano risuonate le voci dei profeti come grida inattese, annunci di cose nuove. E ora quell’annuncio si è fatto realtà e risuona ancora nel tuo deserto: Dio si è preparato una strada.

Sia chiaro una volta per tutte: non siamo noi a preparare la strada. Non siamo noi a doverci dare da fare. È Dio che si prepara la strada, che chiede alla terra che tutto sia pronto, perché ogni uomo, anzi ogni povera e debole carne, possa vedere la sua salvezza. E anche noi, povera carne, se apriamo gli occhi e guardiamo lontano, fin dentro al cuore di ogni vicenda, scopriamo che Dio è ancora lì, in cammino verso di noi, impaziente che si compia l’incontro.

C’è una strada in ogni deserto in cui Dio e l’uomo si danno appuntamento, c’è una strada che Dio ha preparato perché i passi degli uomini siano sicuri. Quella strada su cui l’umano incontra il divino, il grido incontra l’ascolto, il buio incontra la luce, la morte incontra la vita.

E allora è bene mettersi in ascolto della profezia, di quell’annuncio, che in modi diversi, risuona in tutte le pagine sacre:

Sorgi, o Gerusalemme, sta’ in piedi sull’altura
e guarda verso oriente; vedi i tuoi figli riuniti,
dal tramonto del sole fino al suo sorgere,
alla parola del Santo, esultanti per il ricordo di Dio.
Si sono allontanati da te a piedi,
incalzati dai nemici;
ora Dio te li riconduce
in trionfo come sopra un trono regale.
Poiché Dio ha deciso di spianare
ogni alta montagna e le rupi perenni,
di colmare le valli livellando il terreno,
perché Israele proceda sicuro sotto la gloria di Dio.
Anche le selve e ogni albero odoroso
hanno fatto ombra a Israele per comando di Dio
(Bar 5,5-8)

È grandiosa questa immagine di Gerusalemme, madre fiera che deve sorgere e levarsi in piedi. Ad oriente, quando il sole tramonta, ella vede nascere un giorno di luce. Vede i suoi figli non più dispersi, raminghi e fuggiaschi, ma radunati da una parola, resi felici dal ricordo di Dio.

Quei figli, fuggiti a piedi, incalzati dai nemici, ritornano in trionfo ricondotti da Dio. È la fine dell’esilio, la fine del castigo, la fine dell’abbandono.

E Dio realizza una strada che, attraverso ogni luogo, riconduce a casa i figli smarriti. E tutto partecipa a quest’esultanza, tutto è a servizio di questo cammino.

È una marcia trionfale che solo Dio può preparare.

Dio ricondurrà Israele con gioia
alla luce della sua gloria,
con la misericordia e la giustizia
che vengono da lui
(Bar 5,9)

Mi piace questo Dio all’opera, che riconduce con gioia e alla sua luce. Mi piace questo Dio che si serve solo della sua giustizia e misericordia, che sono i due nomi della sua fedeltà.

E no, io in questo tempo, non ho strade da preparare, non ho sentieri da costruire, non ho itinerari da elaborare. Ho solo un Dio che mi conduce lì dove io non posso andare, ho solo un Dio che mi viene incontro lì dove a me sembra di non poterlo incontrare.

Deponi, o Gerusalemme,
la veste del lutto e dell’afflizione,
rivèstiti dello splendore della gloria
che ti viene da Dio per sempre.
Avvolgiti nel manto della giustizia di Dio,
metti sul tuo capo il diadema di gloria dell’Eterno,
perché Dio mostrerà il tuo splendore
a ogni creatura sotto il cielo
(Bar 5,
1-3)

E avvento è questo: deporre il lutto e l’afflizione, abbandonare il lamento e il piangersi addosso. Avvento è affidare il cammino ad una strada che non conosci, è credere in un incontro che non puoi programmare.

Non ci sono altre cose da fare, altri meriti da conquistare, altre glorie da esibire e mostrare. È solo Dio che può darti la gloria, quella che il mondo non sa vedere.

Sono persuaso che colui il quale ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù (Fil 1,6)

“Una cella di prigione come questa

rappresenta un’ottima similitudine

per le condizioni proprie dell’Avvento:

uno aspetta, spera, fa questo, fa quello

– cose di poca importanza, alla fine – ,

la porta è chiusa

e può essere aperta solo dall’esterno”

(D. Bonhoeffer)

Liturgia della Parola

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