Per iniziare ci vuole la fine

I Domenica di Avvento Anno B (Ger 33,14-16; 1Ts 3,12-4,2; Lc 21,25-28.34-36)

Il tempo della Chiesa ha inizio con l’avvento e perché ci sia inizio ci vuole la fine dalla quale partire. È la fine, infatti, a dare al tempo un senso nuovo. Ci vuole una fine e ci vuole un fine.

È per questo che la Chiesa apre un nuovo anno con il cuore rivolto al centro e alla fine del tempo, al Natale e alla Venuta finale del Cristo, all’ingresso di Dio nel tempo e nella carne e all’ingresso della carne e del tempo in Dio. 

E perché sia avvento occorre sentire che questa vita ci sta stretta, ci stringe, ci fa mancare l’aria.

L’avvento è tempo di attesa e di venuta perché ci ricorda la distanza, ci fa sentire che i nostri sono tempi mancanti e imperfetti. Avvento è sentire il vuoto che avvolge la vita. Avvento è non bastare a se stessi. 

Si può attendere e celebrare l’avvento solo scoprendo l’inconsistenza dei nostri vissuti, la marginalità dei nostri progetti, le domande che mettiamo a tacere perché abbiamo paura che restino senza risposta.

Avvento è sentire che ciò che viviamo è preda del rischio. Tutto traballa ed è insicuro. L’avvento è il tempo che nasce quando ci lasciamo ferire dalla mancanza e diventiamo consapevoli di essere fragili e vulnerabili. 

Bisogna sentire che questo tempo ha bisogno di guardare in faccia la sua stessa fine perché, proprio in essa, si nasconde l’inizio di qualcosa di nuovo.

Ecco, verranno giorni – oràcolo del Signore – nei quali io realizzerò le promesse di bene che ho fatto alla casa d’Israele e alla casa di Giuda.
In quei giorni e in quel tempo farò germogliare per Davide un germoglio giusto
(Ger 33,14-15a)

Gerusalemme, agli occhi degli esuli che ritornano dall’esilio, è un cumulo di macerie. Il popolo è sopraffatto e confuso, spiazzato e senza orizzonti. E quando gli occhi vedono che tutto è senza speranza e futuro, Dio parla. “Verranno giorni” e nasceranno quando il futuro non sembra possibile. Dio realizzerà le sue antiche promesse. Non con azioni forti e potenti, ma con un esile germoglio indifeso, che spunta nuovo da un tronco secco e inaridito. 

È questo il modo in cui Dio sceglie di agire. Quando le vite e le storie sembrano chiuse nel loro fallimento, nel loro essere rinsecchite e senza futuro, proprio allora egli fa nascere qualcosa di nuovo, un germoglio, un inizio nascosto e senza pretese. 

Gli inizi di Dio non sono evidenti, sono nascosti e confusi tra le macerie di ciò che è fallito. Non nasce nulla di nuovo da ciò che facciamo e conosciamo. Non nasce il nuovo dai nostri impegni, dall’affaccendarci, dalle strategie e dalle tecniche umane. La novità nasce sempre da Dio perché solo lui sa far germogliare la vita vera lì dove sembra regnare la morte e la fine. 

Può non piacerci, ma bisogna spesso toccare il fondo, scoprire quanto sia sterile e avvizzita la nostra storia, quanto sia tutto destinato a crollare, per veder nascere e riconoscere il nuovo e il divino.

E quel germoglio, promesso da Dio, è posto al centro della storia umana. È il germoglio del Figlio, entrato nel mondo come esile vita, a mostrare che Dio è giusto perché ha scelto di prendersi a cuore la vita e il destino di tutti.

Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte (Lc 21,25-26)

Questo mondo che noi conosciamo è destinato a finire. Arriverà per ciascuno il giorno in cui il cielo perderà il suo ordine e non darà più il ritmo alla vita. Arriverà il giorno in cui le acque romperanno gli argini che Dio ha deciso, invaderanno gli spazi che Dio ha vietato. Accadrà per ciascuno e poi per tutti che l’ordine si trasformerà in caos, in disordine e confusione. 

Saranno sconvolte le cose che conosciamo, in cui abbiamo preso casa e dimora. Non c’è scelta: questa terra, prima o poi, diventa per ciascuno zolla insicura e franante. Verrà meno un punto su cui installarsi, ogni roccia su cui piantarsi.

Chi è interessato soltanto a ciò che accade su questa terra, però, rischia di morire per la paura e per l’attesa. Resta inchiodato a questa terra e a questo mondo. Quando tutto sembra finire (nella storia personale, dei popoli e dell’umanità) non serve continuare a tenere lo sguardo basso, intento a contare ciò che si perde, a piangere ciò che non si può trattenere, ad aver paura per ciò che può accadere.

Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria.
Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina
(Lc 21,28)
Al di là delle immagini che richiamano una lunga serie di profezie, l’invito è a riconoscere quando cominciano ad accadere queste cose. Occorre capire e stare attenti a vedere i segni che annunciano il finire di questo mondo. Non solo del mondo cosmico, ma del mio e del tuo mondo, di quello creato da Dio e di quello costruito da noi, di quello che Dio ci ha donato e di quello a cui noi ci siamo aggrappati. E i segni di questa fine sono sempre e sono ovunque. Tutto in noi e attorno a noi è annuncio di questa fine. 

E per non cedere alla paura e per non restare bloccati nell’attesa di ciò che accadrà sulla terra, è altrove che possiamo volgere il nostro sguardo. Non possiamo restare incatenati a ciò che accade su questa terra, a ciò che succede agli imperi della mente e del cuore che abbiamo costruito. È solo rivolgendo altrove lo sguardo, è solo risollevandoci da questa terra che possiamo scorgere un senso nuovo. “Risollevatevi e alzate il capo” come a dire, non restate incartocciati nelle vostre vicende, non restate ripiegati sulle vostre vite, non restate rivolti con gli occhi in basso, non lasciatevi piegare da ciò che vi accade. Proprio allora dovete risollevarvi e alzare il capo, guardare oltre e guardare lontano. Si avvicina così la vostra liberazione. Perché allora tu senti un bisogno nuovo, quello di essere liberato dai pesi di cui ti sei caricato, dai vincoli che ti hanno inchiodato, da bassezze che ti hanno piegato, da rifugi in cui ti sei cacciato.

Quando sembra che tutte le tue certezze ti vengano tolte, inizia a vedere che quella che ti sembra la fine è in realtà la liberazione che si avvicina. Accadrà per il mondo alla fine del tempo, accade sempre nella tua vita, accadrà alla tua morte.

Quando alcuni sono con gli occhi rivolti in basso ad aspettare e a vedere la fine, tu impara a guardare in alto per vedere un nuovo inizio. Quando alcuni sono sopraffatti dalla paura, tu impara a gustare la speranza; quando alcuni si affrettano a puntellare e a trattenere ciò che è destinato a crollare, tu impara ad essere libero e a restare in piedi. Quando alcuni sono intenti a fissare in basso lo sguardo per paura di ciò che sta per accadere, tu guarda in alto e vedrai che sulle macerie spunta un germoglio e si intravede il suo volto.

State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso; come un laccio infatti esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo (Lc 21,34-36)

Perché lo sguardo si levi in alto, occorre che i cuori non siano pesanti. Dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita sono il ritratto dei nostri vissuti, sono le spine che soffocano il germoglio, che fanno morire la parola seminata da Dio nella nostra vita. Riempiamo la vita di tante cose, la frammentiamo e dissipiamo. Ci spendiamo in mille affanni e questioni per non vedere che ogni cosa ha già la sua fine. Abbiamo bisogno di non vedere e cerchiamo salvezza senza saperlo. Narcotizziamo la vita per non sentirne il dolore, per non sentirne l’angoscia, per evitare di sentirne il vuoto. 

E ci sfugge che tutto questo è solo il travaglio che porta alla nascita di una storia nuova, di un germoglio che spunta squarciando il tronco diventato ormai secco.

Occorre vegliare e stare attenti per avere la forza di vedere che la fine è il grembo di un futuro nuovo. E per vegliare occorre pregare. Pregare è sfuggire alle maglie di ciò che ci accade, alle cose che stringono la vita in un laccio. Pregare è prendere fiato per tenere dritta la schiena, per rendere gli occhi capaci di vedere che sulla nube (su ogni nube!) è seduto il Figlio. Pregare è sintonizzare il cuore e la mente con ciò che non passa e non muore. È restare in piedi mentre tutto sembra crollare, è tenere gli occhi pronti a scorgere quel piccolo e inerme germoglio che nasce sempre tra le macerie. Quando tutto crolla e cade a pezzi, la preghiera apre lo sguardo e fa vedere, in tutto, il travaglio di una storia nuova, il parto della vita vera. 

Liturgia della Parola

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