Parola

Tutt’altro che affabili

III Domenica di Avvento (Gaudete) Anno B (Sof 3,14-17; Fil 4,4-7; Lc 3,10-18)

È un po’ difficile dirsi cristiani. Non perché bisogna osservare una morale, essere fedeli a delle pratiche, credere in cose difficili. Ma perché non si può essere cristiani senza trasudare di gioia. Perché la prima cosa che dovrebbe essere notata di un cristiano è la sua affabilità. E, di questi tempi, mi sembra che di cristiani così se ne vedano pochi. 

Oggi i cristiani sono riconosciuti più spesso per il loro lamento e la loro asprezza ostinata (alcuni per ciò che non va nella Chiesa e altri per ciò che non va nel mondo). 

Sono riconosciuti per la loro insana capacità di dividersi e di accusarsi, di gettarsi addosso parole di fede, di odio e di incomprensione. No, non sempre i cristiani appaiono affabili, sembrano, semmai, in perenne propaganda dottrinale, pronti a darsi patenti di cristianesimo, di integrità, di fedeltà, di adesione al vangelo, quello vero però che, chissà perché, coincide sempre con quelle piccole frasi che ciascuno crede di aver capito senza scomodarsi troppo. 

Eppure, a metà dell’Avvento, imperterrito risuona l’invito alla gioia. 

Non è che la liturgia sia distratta e distante dai drammi mondiali, sociali e personali che viviamo. È che la gioia e l’affabilità sono il modo migliore per reagire a ciò che viviamo, per vincere, da uomini liberi, sui mali di varia natura che, se possono toglierci il sorriso, non possono toglierci l’amore che Dio sa seminare nel nostro vissuto.

La gioia, infatti, è quell’irresistibile godimento che ti assale nonostante tutto, che ti coglie quando sarebbe meno opportuno. Ed è questa gioia a renderci affabili, capaci di manifestare quella cortesia e piacevolezza che rende amabili, che fa percepire che di te ci si può fidare. 

Ci vuole gioia e affabilità, ci vuole quella serena capacità di restare nel mondo immettendo, nelle vite ordinarie che viviamo, un sussulto di vita altra, un seme di speranza nuova, un rivolo di forza che nasce dalla certezza che Dio rinnova ogni cosa immergendola nel suo fuoco d’amore. 

Rallègrati, figlia di Sion,
grida di gioia, Israele,
esulta e acclama con tutto il cuore,
figlia di Gerusalemme!
Il Signore ha revocato la tua condanna,
ha disperso il tuo nemico.
Re d’Israele è il Signore in mezzo a te,
tu non temerai più alcuna sventura
In quel giorno si dirà a Gerusalemme:
«Non temere, Sion, non lasciarti cadere le braccia!»
(Sof 3,14-16)

Non puoi chiudere gli occhi davanti alle miserie e ai mali del mondo, ma devi sapere che Dio si è schierato. Ha scelto di restare dalla tua parte contro il male e la tristezza che assale la vita. Ha scelto di ergersi a difensore della tua esultanza. Sì, abbiamo un Dio che ci esorta ad esultare e a gridare di gioia. Eppure i nostri volti sono tesi e incupiti, vediamo il male che assale le scelte, il peccato che cresce nel mondo, la morte che afferra la vita. E fatichiamo a credere e ad annunciare un Dio che si è messo dalla nostra parte, che si è schierato a favore dell’uomo.

Mentre tanti cristiani profetizzano castighi e vendette e credono in un Dio che serva da sfogo alle proprie frustrazioni e impotenze, Sofonia rivolge parole di gioia ad un popolo infedele, che ha tradito Dio e la sua parola. 

Dopo aver annunciato il castigo, le parole cambiano tono e l’annuncio è di lieta certezza: Dio ha revocato la condanna. Il Signore ha cambiato strategia. Dio sa che il cuore del popolo e di ogni uomo non cambia perché minacciato e impaurito. La conversione non nasce per paura o per tornaconto. 

La conversione e la gioia nascono quando si scopre che Dio ha deciso di restare in mezzo al suo popolo. E poco importa il peso dei loro misfatti, ciò che conta è l’amore con cui Dio ha deciso di restare in mezzo a quelli che sono stati infedeli. La gioia non nasce da perfezioni umane, da strategie di conquista, da progetti che riportano la Chiesa e la fede sulla vetta delle cose che contano. La gioia di ogni credente nasce dall’annuncio che Dio ha scelto di restare in mezzo al suo popolo per essere il suo salvatore. 

Non siamo noi a salvare Dio o il Natale, la storia e la vita, il Vangelo e la fede. È Dio a restare in mezzo a noi e a salvarci. 

Sì, non farti cadere le braccia davanti al male che ti circonda e insidia la vita. Non lasciarti cadere le braccia davanti al peccato che ti assedia e devasta. Non lasciarti cadere le braccia davanti ai vani tentativi di risalire la china. Non lasciarti cadere le braccia se tutto sembra destinato a fallire.

«Il Signore, tuo Dio, in mezzo a te
è un salvatore potente.
Gioirà per te,
ti rinnoverà con il suo amore,
esulterà per te con grida di gioia»
(Sof 3,17)

Dio è in mezzo a te, un salvatore potente. È lui che ti salva e ti rende nuovo. È lui che esulta per te. Il tuo è un Dio che non sa trattenersi, ma prorompe in grida di gioia. È come un bambino che esulta senza vergogna, che mostra a tutti che è felice di averti scelto, di averti amato. Non ci sono altri modi per rinnovare la vita, per vincere il male, per ritornare a sorridere e ad essere amabile. Solo il suo amore può rinnovarti. Non un amore meritato e ottenuto, ma un amore gratuito che ti investe e rinnova dentro. 

È lui che risana il cuore, che fascia le ferite che il male ha riaperto. È lui che ridona al tuo volto un sorriso che ha nell’amore la sua forza e la sua ragione.

È questo il Signore che si è posto in mezzo a noi per essere sorgente di vita nuova. È questo il Dio che attendiamo. Anzi, è questo il Dio che attende da noi un segnale, un gesto, un cambiamento che apra nel nostro cuore indurito un varco al suo ingresso e alla sua visita. 

Le folle interrogavano Giovanni, dicendo: «Che cosa dobbiamo fare?». Rispondeva loro: «Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto».
Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: «Maestro, che cosa dobbiamo fare?». Ed egli disse loro: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato».
Lo interrogavano anche alcuni soldati: «E noi, che cosa dobbiamo fare?». Rispose loro: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe»
(Lc 3,10-14)

Davanti all’invito di Giovanni alla conversione e al cambiamento di vita, sorge la domanda di sempre: che cosa dobbiamo fare?

Abbiamo anche noi qualcosa da fare. L’amore con cui Dio ci rinnova non viola il nostro cuore, non espugna la nostra vita. Che cosa dobbiamo fare, allora, per aprirci a questo amore, per accoglierlo in noi? Cosa dobbiamo fare perché la salvezza di Dio non diventi un idolo o un amuleto?

Giovanni è interrogato dalle folle, dai pubblicani e da alcuni soldati. Gente qualunque, che non ha vanto né fama. Soprattutto i pubblicani e i soldati sono gente malvista, peccatori per definizione, sono ladri e violenti, nemici di Dio e del suo popolo. Eppure eccoli lì, in fila anche loro, ad interrogare Giovanni. 

La domanda è sempre la stessa, perché anche noi dobbiamo fare qualcosa per preparare il terreno, per aprire il cuore, per consentire al Signore l’accesso alla nostra storia. Le risposte di Giovanni sono semplici e ricordano che la vita di tutti può essere terreno buono per accogliere la lieta notizia. Alla folla è chiesto di condividere i propri beni, ai pubblicani di essere onesti e giusti, ai soldati di non maltrattare e di non approfittare della posizione che ricoprono. 

Tutti possono fare qualcosa. Non ci sono vite che sono sbagliate. Ci sono solo storie che vanno corrette. Non ci sono uomini che siano esclusi. Ci sono solo scelte nuove che vanno fatte. Non importa allora il tuo ruolo e il tuo lavoro, il tuo carattere e la tua storia, la tua fama e il tuo vestito… Per tutti c’è modo di fare qualcosa per iniziare una storia nuova. 

Abbiamo tutti bisogno di conversione, di segni che la raccontino e la rendano vera. È possibile per tutti innestare nel grigiore dei giorni un gesto e un tratto che aprano il varco al divino che avanza. Non ci sono condizione disperate, non ci sono situazioni e posizioni impossibili. Non ci sono persone che siano escluse per sempre. 

La conversione, però, perché non sia illusione o talismano, idolo o tornaconto, deve segnare l’inizio di rapporti nuovi, di un modo diverso di relazionarsi agli altri. 

Basta poco, basta porre segni concreti di un desiderio che coinvolga i fratelli, che metta in moto relazioni nuove, che innesti nel male del mondo, un modo giusto, onesto e amorevole di vivere il proprio lavoro. 

Il resto verrà dopo, il resto sarà Dio a compierlo. 

«Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile» (Lc 3,16-17)

Dobbiamo tutti fare qualcosa per aprire una breccia da cui il fuoco possa entrare, da cui lo Spirito possa prenderci e rinnovare. E poi occorre restare in attesa e restare in ascolto. Perché sarà Dio a venirci incontro, a rompere gli argini del nostro vissuto, a riformare del tutto la nostra esistenza, a rinnovare il cuore con il suo amore. È il Cristo la risposta alle nostre attese. È lui a battezzare in Spirito Santo e fuoco, a immergere tutti nella vita di Dio.

Giovanni è solo colui che annuncia, colui che mostra le coordinate perché si compia l’incontro. Non è lui il Messia, non è lui che può rinnovare la vita, non è lui che può donare il fuoco che purifica e modella il credente, che imprime nella vita di ognuno i tratti e il volto dell’amore divino. E anche oggi, noi come singoli e come Chiesa, dovremmo imparare lo stile di Giovanni e mostrare a tutti che ci sono poche cose da fare per aprire un varco, per aprire una strada. 

E poi dovremmo fidarci del Dio che viene: sarà lui a immergere ogni vita nella vita divina, perché tutto sia riscaldato, fuso e rinnovato dall’amore che divampa e dà a tutto una forma nuova. Sarà lui a fare pulizia di ciò che va ripulito e bruciato.

Ci vogliono cristiani che mostrino i passi possibili per gli uomini e le donne di oggi. Quei passi che aprono il cuore, lo rendono esposto al mistero di un Dio che ama e rinnova. È vero, Giovanni ha parole di fuoco, eppure annuncia e chiede cose che sono possibili, parte dal concreto che quegli uomini vivono e li invita a porre lì gesti fraterni di conversione.  È quello l’inizio di un vero cammino.

Il resto arriverà. Non per paura del castigo e per la minaccia, non per convinzione o opportunità, non per senso identitario e di distinzione. 

Il resto arriverà perché sarà Dio a immergerci nello Spirito che rinnova la vita.

Per questo possiamo ancora essere lieti e affabili. Possiamo esserlo sempre e dovunque.

Fratelli, siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti. La vostra amabilità sia nota a tutti. Il Signore è vicino!
Non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti.
E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù
(Fil 4,4-7)

La gioia e l’affabilità sono il segno della salvezza compiuta, della presenza di Dio che ha allargato e rasserenato il cuore. È Dio che custodisce il cuore e la mente in Cristo. Siamo custoditi in Cristo, siamo immersi nella sua vita d’amore. E allora, tutto ciò che ci porterebbe angustie e turbamenti, diventa preghiera e ringraziamento. Perché in ogni cosa vedremo il Signore che si è fatto vicino.

Liturgia della Parola

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