Io non so chi sei, tu, mia rovina

IV Domenica Tempo Ordinario B (Dt 18,15-20; 1Cor 7,32-35; Mc 1,21-28)

È facile, per un credente, arrivare subito alle conclusioni ed esclamare con fede devota: Io so chi tu sei! E ci troveremmo a condividere le stesse parole dello spirito impuro. E ci troveremmo ad avere una fede che sa di consumato. Credere, invece, è lasciarsi stupire da quelle parole che nessun’altro dice, da quello stile che è solo divino, da quella strada che possiamo percorrere. E potremmo ancora, messa da parte ogni presunta certezza, chiederci che cosa è mai questo, chi è questo Dio che si è fatto conoscere, chi è quest’uomo che ha autorità, chi è costui che mette a tacere il male che ci cresce dentro. Credere è esporci a lui per riconoscere che davvero è venuto a rovinare qualcosa di noi, qualcosa che ci portiamo dentro, ma se è venuto a rovinarci è solo perché è venuto a servirci e dare la sua vita per noi (cf Mc 10,45). 

Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, [a Cafàrnao,] insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi (Mc 1,21-22)

Tra tante parole e insegnamenti ascoltati, Gesù si presenta come uno la cui autorità non deriva da altri, non è frutto di studi e rimandi, di citazioni o attestazioni. Non è autorevole perché qualcuno lo ha riconosciuto tale o perché dice parole che sono già state dette. Le sue parole trovano solo in lui ogni forza e legittimazione. 

Gli scribi sono autorevoli perché ultimo anello di una tradizione, di formazione ininterrotta che da Mosè ha condotto a loro. Gesù ha autorità perché non si appella ad altri, ma solo a se stesso, parola divina pronunciata dal Padre, parola che si è fatta visibile ed è presente ed è detta nella sinagoga. 

Eppure, Marco non ci dice le sue parole, non ci riporta il suo insegnamento. Egli stesso, infatti è vangelo, racconto di una buona notizia, insegnamento che modella la vita, presenza che dà forma alla storia. 

Ogni parola è rimando ad altro, segno che tenta di dire e far vedere ciò che è assente e a stento può essere detto. Gesù, invece, è viva presenza, è Vangelo che può essere visto, è stile che racconta Dio, è storia che annuncia che Dio si è fatto presente nel tempo degli uomini.

Davanti a lui, ogni altra parola diventa flebile e smorta, ogni convinzione si fa tremante, ogni certezza si trasforma in dubbio. 

Ed ecco, nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, dicendo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!» (Mc 1,23-24)

La parola di Gesù è talmente efficace che smuove il male che giace nell’uomo. La sua presenza è urto che sommuove ogni cosa. Lo spirito impuro sente la minaccia e avverte il terrore perché la parola di Gesù e la sua stessa persona manifestano, narrano e rendono presente la santità di Dio. 

Lo spirito impuro sa che Gesù è venuto a rovinarlo, sa che nulla è in comune tra loro. Sono troppo diversi i mezzi e i fini, gli stili e i modi, le parole e le azioni, i criteri e i pensieri. Tra lo spirito impuro e Gesù c’è un abisso che li separa, c’è uno spazio che non può essere riempito con strategie di accomodamento e compromesso. Non c’è possibilità, e dovremmo ricordarcelo, di trovare soluzioni giuste, che non facciano torto a nessuno. Non c’è dialogo e armistizio possibile.

Marco, nel riportare le parole dello spirito impuro, alterna il singolare al plurale. Lo spirito parlando al singolare sa chi è Gesù, ma parla al plurale quando mette le distanze tra sé e Gesù, quando denuncia la rovina che egli è venuto a portare. È un gioco di prospettiva illusoria. Sembra parlare per sé e per il posseduto.

E sembra, a volte, anche a noi che non possa la parola di Gesù e la sua persona avere qualcosa in comune con noi. Altri tempi, altre storie, altre complessità. E poi egli era Dio e noi uomini… Come a dire che è bello pensare a lui e alle sue parole, ma è utile fare altrimenti. Ci sembra che prenderlo sul serio ci porti alla rovina, al fallimento e alla fine. 

Ogni volta che ascoltiamo il Vangelo, ogni volta che incontriamo il Signore, c’è anche in noi qualcosa che si rivolta, che sente dolore, che vorrebbe gridare che davvero non c’è nulla in comune tra noi e quella parola, tra noi e quella vita. C’è in noi qualcosa che stride e soffre davanti a Gesù, c’è un rifiuto, spesso silente e nascosto, che ci fa sentire che, alla fine, non può essere vero, non possono essere prese per buone parole che all’apparenza sono fallite, non può essere preso sul serio Gesù che, al di là di tutto, non ha fatto una bella fine. 

Lo spirito impuro, il male che c’è in noi e che si oppone a Gesù, sembra parlare per noi, si identifica con la nostra persona e crea confusione. Lo spirito impuro sembra conoscere tutto di Gesù, sa chi è e sa anche il motivo per cui egli è venuto. È venuto a rovinarci, a rovinare il male e noi con lui.

Non siamo mai il male che ci portiamo dentro. Quando la parola, ascoltata con fede autentica, ci fa sentire dentro un moto di rifiuto e ribellione, dobbiamo esporci con grande coraggio all’unico che può mettere a tacere il male che è in noi. Dobbiamo restare esposti a quella parola, dobbiamo restare davanti a Gesù che, con la sua autorità, non è venuto a rovinarci, ma per servirci e dare la sua vita per noi (cf Mc 10,45). È venuto a liberare l’uomo dal male con il quale rischia di identificarsi, dal male nel quale rischiamo di affogare.

Lo spirito dice il vero, ma non dice tutta la verità, ha troppa fretta di arrivare alla fine, di confessare ciò che pensa di sapere. Tu sei il santo di Dio, dice, ma intanto si oppone a lui, lo riconosce come nemico, come rovina e tormento. È il rischio anche nostro. Quando ci fermiamo alle definizioni, a parole piene che dicono il vero ma non sanno raccontare la verità. È vero che Gesù è il Santo di Dio, ma lo spirito impuro vuole anticipare e fondare questa verità su illusioni e convinzioni. Sarà anche il rischio di Pietro che mentre confessa Gesù come Figlio di Dio sarà poi da questi appellato come Satana. Anche Pietro conosce le parole giuste, ma le ha riempite delle sue idee, le ha pensate a partire dal suo sentire, le ha concepite in maniera umana.

La scoperta di Gesù, invece, è cammino che si fa dietro a lui, lento e difficile, turbato e incostante. È cammino fatte di salite e ripide discese, di cadute e tentennamenti. Eppure non c’è altra via per apprendere, da colui che ha autorità, il segreto della sua persona, il mistero della sua presenza.

E Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!». E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui (Mc 1,25-26)

Gesù mette a tacere ogni presunzione di sapere chi egli sia, di sapere il motivo per cui egli è venuto. Conoscere lui non è teoria o questione di mente, ma esperienza di vita, da fare dietro di lui. Conoscere Gesù è lasciarsi invischiare nella sua storia, compromettere dalle sue scelte, coinvolgere dalle sue parole, inchiodare dai suoi stessi chiodi.

Lo spirito impuro esce dall’uomo straziandolo e gridando forte. È lo strazio della morte e del parto, della rinascita e della scoperta. Bisogna lasciar morire in noi ciò che è presunzione e certezza per iniziare, con fiducia e stupore, la scoperta di un Dio vicino, che ci consegna parole da scoprire, da accogliere come mistero. 

Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!» (Mc 1,27)

Che è mai questo? È la domanda di chi non sa, è il dubbio di chi lascia incontrare dalla novità, è la meraviglia di chi non dà per scontato ciò che già pensa di sapere.L’insegnamento è nuovo non perché dica cose nuove. L’aggettivo, in greco, indica ciò che è nuovo nella qualità, nello spessore, nella profondità. Non è nuovo perché sostituisce ciò che lo precede, ma è nuovo per l’intensità e la profondità di ciò che dice. Per l’autorevolezza che non viene da tradizioni e conoscenze umane, ma dalla relazione intima e filiale con il Padre. 

E dovremmo iniziare anche a noi a meravigliarci, a chiederci con stupore che cosa sia questo. Dovremmo riscoprire questo insegnamento di Gesù che è tutto nella sua vita e nella sua morte, nello stile del suo vivere e del suo morire. Dovremmo scoprire che è davvero nuova questa persona, Gesù, che comanda anche agli spiriti impuri e gli obbediscono. 

Pensiamo di conoscere già Dio e la sua parola e dimentichiamo di scoprirlo, di cercarlo, di mostrarlo. Viviamo in un tempo ecclesiale in cui tra mille proposte e idee, slanci e conversioni, progetti e proiezioni, questioni e discussioni, rischiamo di dimenticare che è di lui che dobbiamo parlare, è su di lui che dobbiamo scambiarci domande meravigliate e stupite. No, non è qualcuno che già possediamo, perché non si conosce mai interamente nessuno e, tanto meno, si può conoscere pienamente Dio. 

Dovremmo chiederci l’un l’altro di lui, annunciarci il suo insegnamento, far vedere la sua autorità che non nasce dal nostro consenso, non viene da coloro che lo hanno preceduto, ma è autorità che risiede in lui, provata dalla sua persona, garantita dalla sua vita, confermata dalla sua morte.

La sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea (Mc 1,28)

La fama di Gesù è ora alta, come alta è oggi quella di tanti, ma questo non dice ancora la verità, non coglie il senso della sua persona, il valore della sua missione, l’identità della sua vita. Sarà quando, lasciato solo, nelle tenebre a mezzogiorno, urlerà il suo essere figlio, mentre il Padre lo ha abbandonato, sarà allora che la fede potrà guardarlo in viso e acclamarlo e gridare il suo nome, confessare la sua identità, glorificare la sua missione, lodare la sua persona divina. E sarà allora che potremo anche noi scoprire che la rovina di quanto è in noi è stata la nostra salvezza, è stata la nostra nascita.

Liturgia della Parola

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