Parola

Un ascolto che si fa cammino

III Domenica Tempo Ordinario B (Gio 3,1-5.10, 1Cor 7,29-31; Mc 1,14-20)

L’incontro con Dio è reso possibile dalla parola che ci rivolge. È lui a venirci incontro e a parlare. Tutto nasce da un dono, da un indicativo che muove la storia di ognuno e la rende capace di svolte nuove e inattese. Mettersi in ascolto della parola, infatti, è dare pienezza al tempo e riempire di vita lo spazio. Il Vangelo, lieta notizia, annuncio bello e inatteso, è dono che non possiamo meritare. È rivelazione che smuove la vita e ci rende capaci di scelte radicali. Credere al Vangelo è lasciarci incontrare da Dio per seguirlo, con passi liberi e lieti, sulla strada che egli ha aperto per noi.

Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1,14-15)

Mentre Giovanni si incammina verso l’ultimo tratto, sofferto e doloroso, della sua esistenza, Gesù dà inizio alla sua missione percorrendo la strada che il Battista ha preparato per lui.

Gesù va nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio. Proclama la lieta notizia che Dio ha tenuto in serbo per gli uomini. Ed è vangelo questo suo andare, questo farsi presente lungo le strade della Galilea, perché è lui tutto il vangelo (cf. Mc 1,1), lieto annuncio che Dio ci dona. Gesù che cammina lungo le strade del mondo è la presenza di Dio che viene per essere la gioia degli uomini. 

Il tempo è compiuto. Il tempo che vivi è pieno e colmo, è riempito dalla presenza di Dio, è tempo che ha un senso e una pienezza. Non sei più nella ricerca, nella mancanza, nella tensione… Sei nel tempo della presenza. È questo il tempo giusto, quello opportuno. È tempo di grazia perché, gratuitamente, Dio lo ha reso grembo, spazio ospitale in cui ha scelto di abitare. Questo tuo tempo è riempito di lui, compiuto da Dio senza che tu lo sapessi.

E il compimento del tempo è dato dal fatto che anche lo spazio si è stretto. Il regno di Dio è vicino. Si tratta di una vicinanza che chiama in causa lo spazio. Il regno è vicino perché Gesù cammina lungo le strade della Galilea. È lui il regno perché rende visibile il modo in cui Dio regna nel mondo e afferma la sua signoria. È Gesù il regno, presenza di un Dio che ha a cuore l’umanità, che si fa carico di questa storia e la governa con sapiente amore. 

Il tempo e lo spazio sono visitati da Dio. Il tuo tempo e il tuo spazio sono gravidi di Dio. Non c’è bisogno di tempi ulteriori, di spazi altri, di ricerche straordinarie. È in questo tuo tempo, in questo tuo spazio, ordinario e feriale, che Gesù si fa incontrare, presenza del regno e lieto annuncio. 

Guarda alla tua storia, al tempo che hai vissuto e che vivi, ricorda gli spazi che hai occupato, i luoghi in cui sei stato: è lì che Dio si è fatto vicino, è lì che il tempo ha trovato pienezza. È qui, in questo tempo e nel tuo spazio, che Gesù continua ad andare predicando il vangelo di Dio, rendendo lieta una storia, la nostra, anche quando gronda di dolore e lacrime.

È Dio a farsi presente, colma il tempo dell’attesa e rende sensata la storia. L’indicativo precede sempre l’imperativo. A noi resta solo la gioia di accogliere il dono, di vivere il tempo di grazia, di stare alla presenza di Cristo, che chiede di regnare nei nostri spazi e di dare senso al nostro tempo. Il dono si fa dunque invito: convertitevi e credete al Vangelo.

Convertitevi è invito a rimettere in gioco la vita, a riordinare i nostri criteri, a rivedere il nostro pensiero, a mettere in crisi la nostra mentalità. Convertirsi è rivolgersi a Dio, riorientare il proprio vissuto. È accogliere la lieta notizia fino a farla penetrare nel nostro modo di vedere e giudicare le cose.

Cambiare mentalità non significa, però, rinunciare alla propria identità, ma riscoprire il nostro volto più vero e profondo. Convertirsi è diventare pienamente se stessi accogliendo la presenza di Dio che viene a riempire di senso e di vita la nostra storia.

Credete al vangelo. Credere al vangelo è accogliere la parola che ci genera, che ci fa rinascere e ci fa vivere. Il vangelo è parola creatrice che rimette in moto la nostra esistenza, che restituisce vita ai nostri entusiasmi falliti, che dona vigore al nostro esausto coraggio. Credere è fidarci di un annuncio di gioia, pensare che il bene è possibile, che la vita è un sentiero destinato a fiorire.

Credere al Vangelo non è, però, imparare formule ma affidare la vita. Credere al vangelo è affidarsi a Gesù, alla sua opera e alla sua parola.

Siamo sempre in cerca di una beatitudine che ci renda soddisfatti. E Dio viene incontro alla nostra sete donandoci non precetti e norme, ma facendoci vivere l’incontro che rinnova la vita. Credere, infatti, è questione di relazione, di amore, di fiducia e di affetto. Credere è accogliere Gesù, l’amore che ci viene incontro, e lasciare che penetri in noi per rinnovare la nostra esistenza, per rendere autentiche le nostre scelte, per rendere vivi i nostri pensieri.

Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito lasciarono le reti e lo seguirono (Mc 1,18)

Convertirsi e credere prendono forma quando accogliamo la chiamata di Gesù che ci mette in cammino dietro lui. Credere è restare con lui ovunque egli vada, seguendolo lungo la strada. Conversione e fede non sono cose astratte e mentali ma quotidiana amicizia con Cristo, sequela che si fa storia e vita. 

Credere è decidersi a lasciarsi smuovere per mettere i nostri piedi sulle orme che Gesù ha tracciato per noi. 

E passa ancora a riempire gli spazi vuoti delle nostre lamentele, delle nostre ricerche senza esito, delle nostre nostalgie senza speranza. Gesù passa lungo il mare del nostro lavoro, della quotidianità sempre uguale, del tempo che scorre in una clessidra che non ha via d’uscita.

Passa e vede. È il suo sguardo a vedere vita e a ridare volti. Vede Simone e Andrea, due pescatori, gente di poco studio e di poca fama, gente semplice che conta poco. Li vede e li chiama. Irrompe con la sua parola nella quiete feriale di vite stanche.

Il suo invito è forte e accorato. Li chiama non perché egli abbia bisogno, ma li chiama perché vede il loro bisogno. È singolare il compito che ad essi promette: pescatori di uomini. Saranno loro, cioè, a tirare gli uomini fuori dal mare, a ridare vita e speranza a quelli che incontreranno. Il mare è, nella Scrittura, il luogo del male e della morte, del peccato e dell’insidia. Il mare è forza che, con le sue onde e i suoi flutti, si ribella all’ordine della creazione, alla separazione con cui Dio ha dato origine a tutto. Nel mare non ci può essere vita, eppure sono tanti a restare invischiati nelle onde di un male che non possono vincere, di una morte che non li libera, di un peccato che li fa affogare. 

Gesù promette a Simone e Andrea che sarà lui a renderli pescatori di uomini. Non saranno i loro meriti, la loro preparazione, le loro strategie. Sarà lui a renderli capaci di strappare gli uomini alla morte, salvandoli dal male che toglie loro il respiro. Quella a cui Gesù invita i due discepoli è una missione difficile, a cui tutti siamo chiamati.

Come si possono strappare gli uomini dal male che hanno scelto, dal peccato che li tiene imbrigliati, dalle abitudini che non li fanno respirare? 

Perché ciò avvenga i chiamati devono andare dietro a lui. Andare dietro a Gesù è l’identità del discepolo. Bisogna mettere i piedi sulle orme che egli ha lasciato, fare la strada che egli ha aperto, seguire il cammino che egli ha reso possibile. 

Venite dietro a me ed è così che il Vangelo diventa vita. Andare dietro a lui è fare la sua stessa strada, farla tutta e fino alla fine. E solo così, seguendo lui sulla croce, potremo scoprire che anche il sepolcro è diventato luogo di transito, via da attraversare, spazio da superare. Ed è bello sapere che, mentre Gesù chiama Simone e Andrea, essi stanno ancora pescando. Secondo l’usanza del tempo, erano immersi nell’acqua fino alle ginocchia, pronti per tirare le reti. E allora, i primi chiamati sono anche i primi salvati, i primi pescati. Perché non si può diventare pescatori di uomini se non si vive l’esperienza di essere a nostra volta pescati, tirati fuori dal mare, dal male di vivere, dalla morte che prende in ostaggio la vita, dal peccato che ci toglie il respiro.

E ogni salvato sa che bisogna sempre lasciare qualcosa, diventare un po’ più leggeri, un po’ più liberi, un po’ più vivi.

L’annuncio e la chiamata sconvolgono le nostre esistenze e ci mettono in cammino e in movimento. Perché così è sempre l’amore. Non c’è amore che non sia fatica, cammino e abbandono. Non c’è amore che non ci chieda di uscire fuori da noi stessi e dalle cose che ci appartengono, dalle nostre abitudini e mentalità per diventare capaci di seguire le tracce che l’amore ci indica.

Andando un poco oltre, vide Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, mentre anch’essi nella barca riparavano le reti. E subito li chiamò. Ed essi lasciarono il loro padre Zebedèo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui (Mc 1, 19-20)

E poi un’altra coppia di fratelli. A ricordare che la sequela di Gesù non può essere fatta da soli. Non è strada da fare in solitaria. Seguire Gesù è creare spazi di comunità, è vivere esperienze di fraternità. Il nostro è un Dio che ci mette in relazione, che ci chiede di vivere l’esperienza, assurda e sempre nuova, del vivere da fratelli.

E se ci mettiamo in ascolto, se ci lasciamo incontrare dal Dio che parla, potremo udire anche noi, nella ferialità della nostra esistenza, l’invito rivolto ai discepoli, l’appello che ci mette in cammino per andare con Gesù verso gli altri. E diventeremo anche noi vangelo, lieta notizia che annuncia a tutti quello che Dio ha fatto per noi, quello che Dio vuole fare per tutti.

Fu rivolta a Giona questa parola del Signore: «Àlzati, va’ a Nìnive, la grande città, e annuncia loro quanto ti dico». 

Liturgia della Parola

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