Guarire la vita

V Domenica Tempo Ordinario B (Gb 7,1-4.6-7; 1Cor 9,16-19.22-23; Mc 1,29-39)

Se guardiamo alla vita di ognuno, ciò che resta è solo un sospiro, un desiderio inespresso e inevaso. Sembra che il dramma di vivere non abbia altra via d’uscita se non quella in cui il dramma sopprime la vita. Sì, al di là di tante parole, vivere non è affatto facile e ciò che sembra darci sollievo è come l’ombra che dà conforto allo schiavo, come il salario che rasserena il mercenario, solo illusione e soffio che passa. Eppure c’è un modo per guarire la vita.

Giobbe parlò e disse: 
«Come lo schiavo sospira l’ombra 
e come il mercenario aspetta il suo salario,
così a me sono toccati mesi d’illusione 
e notti di affanno mi sono state assegnate.
I miei giorni scorrono più veloci d’una spola,
svaniscono senza un filo di speranza»
(Gb 7,2-3.6)

Gli occhi si chiudono mentre guardano attorno, perché non riescono a scorgere speranza alcuna, non si vede la luce e il bene non c’è.  Facciamo a pugni con questa verità, la nascondiamo e la ignoriamo, ma poi ci sono notti in cui riemerge, in cui diventa tormento che toglie il sonno e con esso la vita.

E allora, solo un grido può resistere ancora: 

«Ricòrdati che un soffio è la mia vita: 
il mio occhio non rivedrà più il bene»
(Gb 7,7)

È grido di fede che non conosce speranza se non quella riposta nel grido stesso. È grido rivolto ad un Dio nascosto ed è grido rivolto contro ogni ambizione, contro ogni attesa che resterà delusa. È grido che l’uomo grida a se stesso e lo innalza a Dio perché almeno lui conservi nel cuore ciò che a noi sfugge, i nostri attimi che ci appaiono eterni e che sono soltanto il soffio passato.

E Giobbe parla e dice il vero, lo dice con forza che non ha più speranza, lo dice in preghiera che sa di bestemmia, di urlo eccitato verso un cielo silente.

E sofferenti e malati, moribondi e già morti, gente piagata nel corpo e nell’anima, gente piegata che non può rialzarsi ancora cerca e grida attenzione, vuole cura e guarigione, vuole presenza che sia cortese, vuole premura che rimetta in piedi.

E, davanti a Dio, ogni dolore può diventare preghiera e ricerca confusa. E, quando non si ha più fiato né voce, anche una lacrima può dire la fede, questo gettarsi in un Dio che ricorda, che tiene sul cuore le lacrime umane, che le fa sue e le rende preziose.

Il Dio in cui crediamo non è impassibile, non è chiuso nelle sue cose. È un Dio che passa di casa in casa.

Gesù, uscito dalla sinagoga, andò subito nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e di Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva (Mc 1,29-31)

E Gesù passa dalla casa di Dio a quella dell’uomo. Esce dalla sinagoga e subito entra in una casa feriale, una di quelle in cui custode è il dolore. La malata è una donna qualunque, non ha nome perché ha il nome di ognuno. Certo, è la suocera di Pietro, uno di quelli che il maestro ha chiamato, perché sia chiaro che nessun appello a cui si è risposto mette al riparo dal dolore. 

E tutti, subito, le parlano di lei. Quando il dolore è in una casa non c’è altro di cui parlare, non c’è altro che si può fare. 

E bisogna parlare a Dio dei dolori degli altri, metterli al centro dei nostri pensieri, ricordarli noi per chiedere a Dio che sia lui a ricordarli. O, forse, è lui che li ricorda per primo e fa dono a noi della grazia di ricordare.

Gesù si accosta a chi è nel dolore, prende per mano e fa rialzare. È vicinanza che solleva e innalza, rimette in piedi e restituisce in vita. Gesù non si tiene alla larga dal dolore dell’uomo, ma lo tocca e lo condivide. Prende per mano e fa risorgere. Ci fa rialzare dal nostro male. 

Quando Gesù risolleva la donna, il male scompare e inizia la guarigione e la donna inizia a servirli. Segno della guarigione non è stare bene, ma impiegare la vita in un servizio. Non è guarito chi non ha più dolore, ma chi sa mettere se stesso al servizio degli altri, chi sa servire oltre ogni ferita perché è servendo che si risana. 

La guarigione è confermata dal servizio o, forse, è il servizio a farci guarire. Il servizio, però, si fa cura e sollievo solo perché è Dio a risollevarci, a prendersi cura e a farsi servo. È Dio a servire l’uomo, mentre lo incontra nel suo dolore, ed è questo incontro che ci rialza e ci rende capaci di seguire l’esempio, di servire quelli che ci sono accanto.

Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano (Mc 1,32-34)

C’è una città che è tutta in ansia, in ricerca di sollievo, di cura, di attenzione. C’è un’umanità, e basta aprire le orecchi e gli occhi per rendersene conto, che è in cerca di qualcuno che si faccia carico del suo male, che scacci i demoni che insidiano la vita, occupano i pensieri e feriscono il cuore. C’è sofferenza e dolore che si riunisce davanti alla porta di uno dei discepoli. Quando uno accoglie nella sua casa il Maestro, alla sua porta si raduna il dolore. Accogliere Gesù nella propria storia significa rendere agibile l’ingresso della propria vita a quelli che hanno bisogno di qualcuno che condivida il peso della vita, che sappia servirli, che sappia amarli.

Accogliere Dio è aprire la porta della propria storia perché sia invasa dal dolore degli altri, dai bisogni di chi è senza voce, dal male di chi spera la liberazione.

Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava (Mc 1,35)

È questo il segreto di tanto amore. Uscire al buio, in un luogo deserto e lì pregare. L’amore non ha radici umane, non sorge spontaneo sulla terra dell’uomo. L’amore vero lo si riceve e solo per questo lo si può donare. Nel silenzio e nella notte, la preghiera si fa comunione, si fa incontro e diventa rinnovata missione. È delle ore notturne e silenziose che si nutre la vita e la forza di amare, è della preghiera che ha bisogno il dolore di quest’umanità. Non si tratta di una preghiera magica, ma di una sorgente che ci scava dentro e ci modella per renderci capaci di amare oltre ogni dolore, di servire oltre ogni ferita, di condividere oltre ogni difesa.

Ma Simone e quelli che erano con lui, si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!» (Mc 1, 36-37)

Il guaio, però, è sbagliare mira. Il pericolo è cercare miracoli invece di cercare colui che li compie. Cercare Gesù è, spesso, ricerca vana. In Marco, ogni volta che qualcuno cerca Gesù egli è assente e non si fa trovare, non si fa prendere. Perché non basta cercarlo, bisogna sapere perché lo cerchiamo. Possiamo cercarlo per il suo potere, per la sua forza miracolosa, per la sua azione consolatrice, perché ci aiuta a rassegnarci, perché ci sembra che ci faccia evadere… Ed è allora che non lo troviamo, ed è allora che egli è già altrove.

Egli non è possesso sicuro e nostro, egli è viandante che attraversa la storia lasciando i segni del suo passaggio. Egli è annuncio di un futuro possibile, di umanità tutta guarita, tutta sanata dal male di vivere. E questo male si sana soltanto seguendo il cammino che egli ha tracciato. Si sana imparando a servire e ad amare, si sana donando la vita con lui.

Non possiamo pensare ad un Dio da conquistare e da trattenere. Non è un Signore con cui contrattare, con cui barattare un po’ di salute per un po’ di preghiere. Egli è un Dio che ci lascia il segno che guarire è ancora possibile, che il dolore è parola penultima. L’ultima sarà soltanto l’amore e la presenza di un Uomo che è Dio e che soffre perché ha scelto di farsi servo.

Egli disse loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!».
E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni
(Mc 1,38)

Andiamocene, altrove, dice Gesù. Egli per questo infatti è venuto: per predicare. E la sua predica non sono parole, sua predica è la sua vita. “Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10,45).

Egli è venuto per servire e darci la sua vita che ci rende capaci di diventare servi, degni di trasformare in dono il dolore, sollevando chi ci è accanto, offrendo silenzio e sguardi d’intesa. Perché a chi soffre non serve altro, forse solo una mano che ridoni calore, un sorriso che ridesti lo sguardo, una carezza che scuota il torpore.

Ed è questo il modo di annunciare e predicare il Vangelo! Farsi servi di ogni fratello, condividendo il dolore del vivere, donandosi a tutti per essere degni del Vangelo che ci è stato dato. Non è vanto ma necessità. È un guaio per noi non annunciare il Vangelo, è un guaio per noi non imparare a servire, è un guaio per noi non saper amare. Perché solo il Vangelo è risposta al dolore che grida al cielo. Ed è risposta che si ascolta soltanto imparando a servire, imparando ad amare.

Fratelli, annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo! 
Qual è dunque la mia ricompensa? Quella di annunciare gratuitamente il Vangelo senza usare il diritto conferitomi dal Vangelo. 
Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero. Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno. Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io
(1Cor 9,16.18.22-23)

Liturgia della Parola

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