Immersi nel mondo per dire Dio

V Domenica del Tempo ordinario A (Is 58,7-10; 1Cor 2,1-5;Mt 5,13-16)

La luce è la prima delle creature che Dio ha fatto, la prima parola che Dio ha pronunciato. E luce e parola si fondono insieme. Tutto esiste per la sua parola e la sua parola è luce alla quale vedere ogni cosa. E tutto ciò che Dio ha fatto è cosa buona.

Ogni opera, fatta da Dio, è cosa buona perché è fatta dalla sua parola, è impregnata della sua luce. E Dio ci dona ancora la sua parola, luce che vince le nostre tenebre. Essere discepoli, quindi, è accogliere in noi la sua parola, vivere della sua luce e compiere, insieme a lui, le opere buone che rinnovano il prodigio della creazione, la preservano dalla corruzione, la rendono bella e sempre più buona perché diffondono, in questo mondo, la sua parola, luce divina che Dio ha messo in noi.

Voi siete il sale della terra… Voi siete la luce del mondo… Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini…

Quelli che prendono sul serio la portata delle beatitudini sono distinti e contrapposti alla terra, al mondo, agli uomini. 

C’è un “voi” che deve emergere e uscire fuori dalla massa indistinta del mondo. Un “voi” che non può confondersi e nemmeno nascondersi, perché non può rinunciare al compito per il quale esiste. 

Il discepolo, che è chiamato ad immergersi nella vita della terra, del mondo e degli uomini, deve tuttavia essere consapevole che questa immersione ha origine da una distanza. Per essere sale ed essere luce bisogna essere diversi, bisogna vantare una differenza reale che renda la propria presenza significativa rispetto al resto. 

La contrapposizione, che le parole di Gesù manifestano, è anche una relazione. Il discepolo è tale se si relaziona alla terra, al mondo e agli uomini. Perché la sua missione si compia, deve relazionarsi a queste realtà restando, però, pienamente se stesso.

Il sale diventa inutile se non dà sapore ai cibi che incontra, la luce non serve se si lascia contagiare e vincere dalle tenebre che è chiamata a squarciare. E tuttavia il sale e la luce non servono se non in relazione a ciò che non è sale e non è luce. Il sale e la luce, presi in se stessi, non hanno valore e servono a poco. A che serve il sale se non si immerge in ciò che deve essere salato?  A che serve la luce se resta nascosta, senza donarsi a ciò che è nel buio? 

Il discepolo serve perché gli altri, che sono lontani dal discepolato, gustino un po’ di quel sapore che tutto conserva, a cui tutto dà gusto, che tutto preserva. Il discepolo è il “sale dell’alleanza” (Cf Lv 2,13) perché, con la sua vita, rende sacro ciò che è profano e rende visibile e concreto il patto d’amore che Dio ha stretto con l’umanità.

Il discepolo serve a portare la luce, l’unica luce che è la parola divina, negli anfratti nascosti della storia, nelle tenebre mortali in cui annaspa la vita. 

Essere sale è possibile se il sapore è ricevuto e custodito. Il discepolo, contro ogni evidenza naturale, può diventare insipido, può perdere la sua rilevanza, la sua specifica diversità, può diventare inutile come un sale che avesse perso il sapore. 

Essere luce del mondo e risplendere davanti agli uomini è possibile solo se ci si lascia contagiare da Dio, luce in cui non ci sono tenebre, dalla sua parola che è luce sul nostro cammino. È solo accogliendo Dio in noi che possiamo emanare, al di fuori di noi, un po’ della sua luce e della sua presenza.

Restare nel mondo è necessario. Anzi entrare fin dentro le pieghe della terra e del mondo, fin dentro le vicende nascoste e buie della storia umana è la missione del discepolo. Non ci si può sottrarre! 

Eppure, nel farlo, bisogna ricordare la distanza e la differenza che ci separa dagli altri. Non per vantarci o sentirci migliori, ma per ricordarci che è per loro che abbiamo ricevuto la luce, è per loro che siamo chiamati a diffondere sapore, a far sentire il sale dell’alleanza, la saporita bellezza di un Dio che resta fedele.

Non si è cristiani per coltivare una propria interiorità, per gestire in modo sereno le proprie faccende, per garantirsi un premio, una grazia o la salvezza. 

Essere cristiani è immergersi nelle tenebre del mondo per risplendere lì, come luce che fa vedere, come appello che chiama, come sale che ridona sapore e preserva la terra dal marciume perché immette, in ogni cosa, il gusto nuovo di un amore fedele, di un’alleanza di cui la terra ha bisogno. 

Non si è cristiani battendo in ritirata, ma non si è cristiani nemmeno rinunciando alla propria luce e diventando insipidi. Non si è cristiani se si rinuncia al compito che Gesù ci affida e nemmeno se, per una falsa solidale intesa, si smette di essere diversi, di essere altri, di essere oltre. 

Risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli

E nulla è più luminoso di una vita che è stata amata e, proprio per questo, irradia e diffonde amore. Non deve risplendere l’uomo, non deve risplendere il singolo, ma la luce che in esso abita, la luce che in lui ha preso casa, il divino che in lui ha vinto le tenebre. 

E la luce risplende davanti agli uomini, davanti a chi ancora è nel buio, a chi è in cerca di una stella che guidi il cammino, di una luce che faccia sperare e credere ancora. La luce che risplende si fa vedere nelle opere buone, nelle scelte e nelle azioni di colui che ha conosciuto Dio e da lui si è fatto illuminare.

Non è ostentazione o narcisismo, non è protagonismo o palcoscenico. Perché chi compie le opere buone sa che solo Dio è buono, lui solo è il creatore di ogni cosa buona e ogni bene viene da lui. Solo da lui può venire la luce che trasforma e rinnova la vita.

E quando gli uomini vedono un’opera veramente buona devono poter vedere la luce che si diffonde, la parola che in essa risuona. Ed è a Dio che rendono gloria, al Padre di tutti che è nei cieli.

E oggi, quando il mondo e gli uomini vedono le opere dei credenti possono riconoscerle buone, possono sentire in esse l’eco della parola divina, possono rendere gloria a Dio? Possono riconoscere in noi la sua presenza, vedere in noi la sua luce, assaporare in noi il suo sapore? 

A volte, riescono, al limite, a vedere qualcuno che si differenzia dagli altri, dalla massa informe e confusa di quelli che si ostinano a dirsi credenti. E capita che si esalti il singolo, che lo si innalzi e gli si renda gloria. Eppure, Gesù lo ricorda, quando le opere sono buone davvero, gli altri narrano e cantano la gloria di Dio e la sua soltanto.

C’è bisogno di fermarsi a queste parole, di lasciarsi inquietare e mettere in crisi.

Se il mondo non ha più sapore, se non sa preservarsi dal male e dalla corruzione, se non sa ricordare la fedeltà divina, se non sa superare le tenebre in cui vive, la responsabilità è solo nostra, perché è a noi credenti che Dio ha chiesto di essere sale ed essere luce. 

E invece di lamentarci della terra, del mondo e degli uomini, dovremmo tentar di capire quando e perché abbiamo perso il sapore e siamo diventati insipidi, quando abbiamo smesso di diffondere luce, di mostrare e narrare Dio, di raccontare la sua parola, la sua vita che è luminosa presenza che vince le tenebre e sconfigge il buio.

Quando ci è accaduto?

Forse, per alcuni, quando, per l’ansia di servire e donarci al mondo, abbiamo dimenticato di donare un sapore perduto, di illuminare le tenebre, di far vedere un senso e una differenza, di offrire un sapore nuovo e la luce che fa vedere.

O, forse, ci è successo perché abbiamo disperato del mondo e degli uomini. Per paura di perdere sapore, di spegnere la nostra luce, abbiamo preferito proteggere noi e la nostra fede, noi e i nostri piccoli gruppi. Abbiamo rinchiuso la luce e abbiamo preso possesso di Dio dimenticandoci di raccontare, nelle tenebre di questa storia, le scintille di luce che Dio continua a donare, i sapori gustosi che Dio offre alla nostra insipida vita. 

O, ancora, perché abbiamo preferito far risuonare le nostre parole e mettere in mostra noi stessi. Ci siamo messi al posto di Dio e le nostre opere, invece di essere trasparenza di Dio e del suo amore, sono diventate il racconto della nostra grandezza, l’esaltazione della nostra gloria.

Abbiamo smarrito il dovere di insaporire di Dio la vita degli altri, di far sentire un gusto altro e diverso, il gusto nuovo di un amore che solo Dio può offrire al mondo.

Certo, immergersi nella terra e nel mondo, per essere sale e luce, è rischioso. Bisogna entrare nella storia degli altri portando in dono l’unica conoscenza che abbiamo. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso (1Cor 2,2).

È questo l’amore che dobbiamo vivere, svelare e mostrare.  È questo il vangelo che illumina il mondo, il sapore e la luce da donare e far conoscere. Siamo trasparenza di Dio, suo corpo e sua presenza, suo segno e continuo rimando. 

Credere è lasciare un segno, offrire agli altri un gusto nuovo, rendere il mondo un po’ più sacro, donare al mondo un po’ di luce perché tutto diventi un po’ più divino. 

Credere è lasciare che Dio penetri in fondo alle tenebre umane, a quelle che ognuno si porta dentro, al punto che la luce, parola divina, ci abiti e risplenda ovunque in opere buone, quelle che Dio sa compiere.

Quando i credenti, gettati e immersi nel mondo imparano a fare le opere buone di Dio, diventano annuncio della sua luce, eco della sua parola, segno della sua presenza. Credere è vivere narrando, con la propria vita, l’amore di Dio e la sua premura perché gli uomini, vedendo le opere buone che l’amore sa compiere, sappiano riconoscere l’impronta divina e al Padre rendano gloria, perché è sua la parola, è sua la luce, è suo il sapore che preserva ogni cosa dalla corruzione e tutto consacra e rende santo. 

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