Vivere è affrontare una prova

I Domenica di Quaresima C (Dt 26,4-10; Rm 10,8-13; Lc 4,1-13)

La prima tappa della Quaresima ci propone, come ogni anno, la scena delle tentazioni. È una prima sosta che mette le cose in chiaro. Vivere è affrontare una prova, perché la fede ci inchioda alla storia, ci provoca nelle scelte, ci rimanda a ciò che viviamo. La fede si dice con tutta la vita della quale bisogna imparare ad affrontarne le prove e le tentazioni. 

Non credo a chi si bea di un Dio che ha già dentro, di un Dio che non scomoda e “non fa problemi”. Non mi fido di chi racchiude la fede in una pace che sa di narcotico, di chi, sentendosi figlio, pensa di essere già dentro casa. Non credo a chi ha paura di sporcare Dio con le parole che dicono prova e tentazione. E so che non si sporca l’uomo se riconosco che vivere è la tentazione più grande, che credere è la prova più difficile.

Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo (Lc 4,1)

E allora provo ad accostarmi a quell’uomo tentato e non posso girarci attorno: Dio è complice di quelle prove. Dio lascia che Gesù sia tentato e lo Spirito quasi lo spinge in mani nemiche.

Prima il popolo d’Israele e ora Gesù e nello sfondo sempre il deserto che fa da cornice. Può accadere di non capire perché ciò avvenga. E allora il rischio è di immaginare un Dio superbo, un Dio despota, rinchiuso nel suo cinismo e a questo Dio diamo il volto del peggiore degli uomini. 

No, non è così. Eppure credo sia necessaria la prova, credo davvero che Gesù fu tentato. Fu tentato per tutta la vita, fino a quando, con l’ultimo respiro, consegnando la sua vita, vinse per sempre ogni tentazione.

Non mangiò nulla in quei giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame. Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane». Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo”» (Lc 4, 2b-4)

Guardo allora a quei deserti, guardo quell’uomo che ha fame. Dopo il digiuno di quaranta giorni è lecito pretendere cibo. È lecito aspettarsi del pane. 

E lì, quando vivere diventa un problema, quando la fame restringe lo sguardo, si insinua la prova e la tentazione. “Se tu sei Figlio di Dio”. Gesù sa di essere il Figlio, il Padre, al Giordano, lo ha confermato. Ma cosa farsene di essere figlio se oggi tu hai solo fame? A cosa serve avere un Padre se non hai da mangiare? A cosa ti serve avere Dio se la tua vita non è appagata?

No, non è Dio ad essere arcigno, a godere delle tue prove. È che la fede è vita da vivere. E non conosco vite che non abbiano prove, che non abbiano bivi e tentazione. Vivere è scegliere da che parte stare, è situarsi in mezzo alla storia e decidere da quali mani ricevere il proprio futuro. Credere non è prendere Dio in ostaggio, non è osare di lui per prendersi ciò che si vuole, per ottenere ciò a cui si ha diritto, per garantirsi il proprio futuro. La fame è sempre un problema. Dal racconto di Adamo ed Eva al popolo di Israele nel deserto a tutta la storia di sempre, la fame è voglia di afferrare il mondo, di farlo proprio, di modificarlo per soddisfare le proprie esigenze. Eppure la fede ci impone di guardare la pietra e di lasciare che resti tale.

Non si vive afferrando la vita, rubando e trattenendo, perché a vivere non basta il pane. Serve la parola, serve un dialogo che mantenga in vita, serve una relazione che soddisfi le ansie che nel cibo noi proiettiamo. L’uomo non vive di solo pane, perché il pane ci basta a stento a sopravvivere e quando, illudendoci, pensiamo che basti il cibo per mantenerci vivi allora nasce il bisogno di possedere e accumulare, di rubare e arraffare tesori.

Essere credente non ti offre vantaggi sulla gestione delle cose del mondo, non ti libera dai problemi che gravano sulla tua vita. Credere, però, ti offre una Parola, la sola capace di mantenerti vivo, di richiamarti in vita anche quando la fame rischia di farti perdere i sensi. Non vivere di solo pane, non rinchiudere Dio tra le cose che hai, non immaginarlo come qualcosa da usare a tuo piacimento. A vivere non basta il pane, ci vuole l’incontro, ci vuole il dono, ci vuole qualcuno che ti metta in vita. Non vieni al mondo da solo, non puoi darti da solo la vita. Puoi solo imparare a riceverla, ad accoglierla e a donarla di nuovo. E più che rendere pane la pietra, bisogna imparare a rendere di carne il proprio cuore di pietra e a donarlo come pane fragrante. 

Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo». Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”» (Lc 45-8)

C’è poi un’altra prova, un po’ più esplicita e vorticosa. Il potere fa sempre gola, attira sempre il possedere, avere la gloria e l’impero su tutto. Ci piace dominare sugli altri, sentirli ai nostri piedi. E quell’uomo nel deserto sa di essere il Figlio, sa che il potere sarà suo per sempre, sa che davvero lo attende la gloria. Ma non accetta le scorciatoie, non cede alle lusinghe di chi prospetta vie troppo brevi, di chi propone di saltare le tappe. Basterebbe piegare la vita, scendere a compromessi, accettare criteri umani, ridurre Dio a nostro fantoccio. Ma Gesù sa ciò che sta scritto, sa che solo Dio bisogna adorare. Sa che non si può piegare la vita per ottenere la gloria e il potere. Sa che egli di tutto sarà il Signore, ma solo accettando di farsi servo, di prostrarsi nel servizio più vero. Gesù non si prostra davanti a Satana, ma si piegherà davanti ai fratelli, per lavare i piedi e donare il suo amore. Si piegherà sotto il peso della sua croce perché anche il potere si faccia servizio, anche il dominio si trasformi in amore. Non puoi accettare scorciatoie. Se vuoi contare qualcosa, adora l’unico Dio e poi piegati a servire i fratelli, ad amarli come il Padre ti ama. Il mondo non è fatto perché tu lo stringa in mano, ma puoi sempre mettere la tua mano a servizio del mondo. Non c’è potere più vero, non c’è possesso più duraturo.

Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù di qui; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano”; e anche: “Essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”». Gesù gli rispose: «È stato detto: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”» (Lc 4,9-12)

E di nuovo il diavolo insiste. Se tu sei Figlio di Dio, devi uscire allo scoperto, devi costringere Dio a farsi vedere, devi imporgli la tua salvezza. È la tentazione più sacra e devota. Ed è anche la più delicata. Perché Satana parla da Dio, prende e usa le sue parole, cita la Scrittura che diventa bestemmia. Propone a Gesù di buttarsi dall’alto del tempio, di dichiararsi salvato da Dio, di fare in modo che Dio intervenga perché suo Figlio sia preservato. 

La sfida è sottile e duratura. Gesù è spinto ad affrontare una prova che costringa Dio a salvarlo, a mostrarsi come Padre affidabile. E Dio diventa ostaggio, qualcuno che serve per farmi valere. Ma non è salvando il Figlio che Dio si mostrerà Dio.

E qui Gesù ricorda che l’uomo non può provare Dio, non può misurarlo e verificarlo. Non posso verificare Dio con criteri e misure umane. Non posso decidere prima in quale Dio la mia fede si incunea. 

Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato (Lc 4,13)

Gesù sceglie di fare altrimenti. Ed è per questo che la prova continua, che Satana ritorna al tempo opportuno.

Quando la prova avrà il sapore di un calice amaro e poi avrà il tono di urla ruffiane che gridano a Dio di salvare se stesso, che negano Dio perché non compare, che sfottono Dio perché è indifeso. Gesù non mette alla prova il Padre, non ne ha bisogno. Egli crede nel Padre che non lo salva dal calice amaro, non gli evita lo scandalo e la caduta. E arriva il giorno in cui il Figlio inciampa e muore, ed è lì che inciampa ogni uomo, quando sceglie di non salvare se stesso, di fidarsi di un Dio che sembra scomparso. Ed è solo allora che quella pietra si trasforma in vero pane.

Nel deserto e sulla croce, la tentazione è tutta nostra. Quella di credere ad un Dio diverso, ad un Dio che salva se stesso, ad un Dio potente che piega tutti. 

E invece credere è seguire un Dio che non ci dà pane ma parole per nutrire la vita, che ci insegna che il vero potere è farsi servi e donare la vita, che salvarsi è possibile solo a chi sa donare la vita, a chi sa perderla per offrirla a qualcuno.

Siamo tentati ogni volta che dubitiamo dell’amore di Dio, che mettiamo in dubbio la sua fedeltà, che vorremmo accorciare i tempi e le distanze per evitare lo sforzo di vivere la fede nel quotidiano.

«Vicino a te è la Parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore», cioè la parola della fede che noi predichiamo (Rm 10,8)

Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza (Rm 10,10)

Credere è avere il cuore e la bocca impastati di fede. Ci vuole un cuore che creda e servono labbra che sappiano dire e far diventare storia la fede. Non basta credere, bisogna che la fede informi e dia forma alla vita, al nostro modo di restare e guardare al mondo. 

Il sacerdote prenderà la cesta dalle tue mani e la deporrà davanti all’altare del Signore, tuo Dio, e tu pronuncerai queste parole davanti al Signore, tuo Dio: “Mio padre era un Araméo errante…(Dt 26,4-5)

Credere non è sapere formule, ma raccontare la propria storia e vedere in essa la presenza di Dio, riconoscerne i tratti e leggerne i segni. Per questo dobbiamo imparare a fare memoria, della storia di Dio e della nostra. Perché è nelle concrete vicende che Dio si mostra e fa conoscere. Il popolo, nella festa delle primizie, può ringraziare perché sa volgere lo sguardo al suo passato. Davanti alle primizie del raccolto, ringrazia Dio, perché quel nutrimento è il frutto di una parola a cui Dio è rimasto fedele. La terra è stata promessa e donata e nessuno può possederne i frutti, ciascuno può solo accoglierli ricordando che anche essi sono parola con cui Dio racconta la storia, con cui egli rincuora e cura i suoi figli.

Non bastano, però, le parole a dire la fiducia, ad affermare la voglia di non possedere, il bisogno di restare figli che non prendono il cibo ma lo ricevono. Per questo ogni famiglia offre a Dio le primizie di tutto. Oggi a noi suona strana ogni cosa che richiami l’offerta e il sacrificio. Ci ripetiamo all’infinito che Dio non ha bisogno di offerte o sacrifici. È vero ed ovvio! 

Dio non ne ha bisogno, ma ne ha bisogno ogni credente perché quell’offerta è il segno ed è la prova che la fede mette in gioco la vita, ha a che fare con la sopravvivenza. L’offerta delle primizie ricorda che la vita si vive donandola, che il cibo è mio se so di riceverlo, se so vedere nel mio passato la mano di Dio che mi mostra e mi dona il futuro. Il dono del primo raccolto è privarmi di ciò che possiedo perché mi fido di ciò che Dio sta per donarmi, so che sarà lui a prendersi cura della mia fame, sa che sarà lui a donarmi altri raccolti. L’offerta diventa fede che si fa concreta, affidamento che non si risparmia, attesa che chiede a Dio di essere lui a donare il pane, perché io scelgo di non arraffarlo.

E quel dono, il testo della liturgia si ferma prima, non è destinato a marcire lì, in attesa che Dio lo faccia suo. Il dono fatto a Dio è dono fatto al levita e al forestiero, all’orfano e quindi alla vedova.

La fede è piena e vissuta se accolgo da Dio la mia vita futura e dono a lui il mio presente perché da lui sia oggi donato a chi ne è privo, ha fame e ha bisogno. Ed è così che la privazione e il sacrificio diventano vita che si moltiplica, pane spezzato che non va perduto.

Qui puoi leggere una riflessione sul tempo della Quaresima

Qui, invece, un estratto dal mio libro, Una storia di fede. Abramo, per riflettere sul valore della prova e della tentazione nel percorso di fede

Condividi