Un dito che incide la pietra

V Domenica di Quaresima C (Is 43,16-21; Fil 3,8-14; Gv 8,1-11)

La vita è fatta di storie, di legami e di tradimenti, di perdite e di ricerche. E la storia della salvezza, cioè la nostra vita amata e abbracciata da Dio, ci costringe a fermarci per capire a che punto siamo. E, alla fine, siamo sempre lì, fermi su quel lastricato, un po’ adulteri e un po’ giudici, un po’ peccatori e un po’ giustizieri. Ed è lì che si trova anche il Maestro, all’incrocio imprevisto di storie diverse. È lì che il suo dito segna e ridisegna la storia.

Il Maestro siede a terra, si china e risolleva, si abbassa e si rialza perché l’adultera e i suoi giustizieri abbiano in sorte lo stesso perdono, lo stesso futuro che egli ha aperto per tutti. Perché, sebbene a noi piaccia sempre schierarci e prendere le parti, la donna da un lato e gli scribi e i farisei dall’altro fanno qui la stessa esperienza. Vedono il dito di Dio che ha donato la legge per custodire la vita, che dona il perdono per donare il futuro.

Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro (Gv 8,1-2)

Siamo nella festa delle capanne che celebra la presenza di Dio nel deserto, nel tempo in cui tutto è precario. Nel deserto viene donata la legge ed è qui che nasce anche il peccato, la trasgressione di quella legge incisa dal dito di Dio sulla pietra. La festa ricorda che il cammino è sempre incerto e messo alla prova.

Gesù si avvia verso il monte degli Ulivi. È un monte che nella Scrittura ha un ruolo centrale. Da lì parte e ritorna la Gloria, da lì Dio abbandona la città e da lì ha inizio il suo ritorno. È luogo di frontiera e di abbandono, di incontro e di passione. E anche Gesù è da quel monte che inizia il suo esodo, la sua uscita da questo mondo, prima nell’agonia dell’orto e poi nell’ascensione gloriosa al cielo. 

La notazione appare inutile, perché i fatti narrati sono accaduti nel tempio, ma serve ad inquadrare le cose. Rimanda alla passione, al tradimento, alla fuga dei discepoli e all’esilio. Su quel monte Gesù resta solo, l’unico senza peccato che consegna se stesso e la sua vita nelle mani dei peccatori. Il tempo si è fatto breve. Tutto corre verso la Pasqua. Ed è per questo che diventa più forte il tormento, le domande si fanno pesanti e le scelte sempre più audaci. 

Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo (Gv 8,3-6a)

È una scena forte e senza pudore. La donna è tratta via da un amore peccaminoso ed è posta proprio nel mezzo. È chiusa ogni via di fuga, perché ogni occhio veda il suo peccato, la trasgressione di ogni legge e norma morale. Sembra che al centro sia posto il male, che la morale debba avere il primo posto, che gli occhi di tutto debbano essere puntati sull’adultera e sul suo peccato. È una scelta che facciamo fatica a cambiare. 

Si crea un tribunale, una corte pronta a giudicare, a condannare e uccidere colei che ha commesso il male. Non è forse per questo che esiste la fede? Non è forse questo il compito della Legge? Non è forse questo che continuiamo a fare?

Eppure, mi sembra umano e sacrilego porre al centro il peccatore, porre al centro la trasgressione. Mettere a nudo il proprio fratello, mostrarne la debolezza, provocare con forza la sua vergogna. Ed è sacrilego farlo per conto della Legge che Dio ha inciso con il proprio dito. 

La domanda posta a Gesù è senza uscita. Hanno bisogno di accusarlo, non può uscirne illeso. Le opzioni sono semplici e immediate: o ha ragione la legge o ha ragione il perdono. O ha ragione il Dio di Mosè o il Dio che Gesù continua a svelare. O ha ragione la norma morale o ha ragione il peccatore. O si pronuncia contro la legge che accusa il peccatore o contro la donna smentendo e negando il Dio del perdono. O Gesù rifiuta la legge che suo Padre ha inciso col suo dito su pietra o rifiuta la vita alla misera per la quale il Padre lo ha mandato nel mondo.

È una scelta a cui facciamo ancora fatica a sfuggire. È la scelta che anche oggi rischiamo di fare! Quella di costruirci un Dio che, di volta in volta, sia quello della legge o del perdono, quello del peccato o dell’amore. Anche noi tentati di usare Dio per sentirci pronti a condannare o per giustificare il nostro peccato.

La soluzione alla questione non è semplice. E quella proposta da Gesù, forse, dobbiamo ancora comprenderla. Facciamo fatica ad entrare nella sua logica e sembra anche a noi che la scelta sia tra il rifiutare la legge negando il peccato o affermare la legge condannando la donna.

È la causa di ogni fraintendimento. E siamo ancora lì, su quel lastricato, a dibattere e a dividerci. Scegliamo la misericordia negando il peccato, scegliamo la legge negando il perdono. 

Eppure la legge è lì, scritta da Dio con il suo dito. Ed è ancora lì, nel mezzo, la peccatrice, quella carne che sa di peccato e di trasgressione. Ed è lì anche il Maestro, all’incrocio di storie che sembrano opposte, di idoli che si fanno la guerra, di stili che non si possono conciliare.

Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra (Gv 8, 6b)

È insolito questo atteggiamento. Lo sappiamo, l’unica cosa che Gesù scrive la segna col dito sul lastricato del tempio. Sembra ignorare ciò che sta succedendo e volge altrove lo sguardo e il suo cuore. Tanto è stato scritto su questo gesto, ma credo che molto sia stato anche frainteso. 

Gesù è lì, davanti alla vergogna della donna che vede esposto il suo peccato, e si china, sottrae il suo sguardo. E quel suo piegarsi ricorda il suo abbassarsi, il suo umiliarsi fino alla morte. Sembra che sia la vergogna di quella donna a piegarlo. Egli sa che quella colpa è vera. E si china davanti alla peccatrice e scrive col dito per terra. È scena che crea attesa. Si sottrae alla scelta che gli stanno imponendo. È un gesto di pudore e di rimando. 

Egli rimanda al dito che ha scritto la legge e l’ha incisa su tavole di pietra. Mentre i farisei e gli scribi restano fermi e sono interessati solo a ciò che è stato scritto, egli continua a scrivere col suo dito divino. Ma ciò che ora scrive non lo sappiamo e non ha valore. Questo gesto serve però a ricordare che il dito che ha scritto la legge continua a scrivere, continua a incidere cuori che sono di pietra. La legge è vera e ha valore se, insieme a ciò che è scritto, si guarda anche al dito che l’ha scritta, al volere di Dio che l’ha consegnata. È truffa e inganno portare con sé la legge e ignorare colui che l’ha scritta, ignorare la sua volontà, dimenticare il motivo per cui l’ha consegnata. La legge serve a orientare gli uomini nella vita, a sottrarli al male, a preservarli dalla morte. Non può diventare strumento che dà la morte, mezzo che provoca il male. Il dito di Gesù su quel lastricato mostra che Dio, che ha scritto la legge, continua a scrivere ancora per rendere visibile il suo volere.

Il gesto di Gesù è quindi chiaro. Egli sottrae la peccatrice allo sguardo che giudica e mette nudo, perché ella è ormai esposta nel suo dolore, esibita nel suo peccato. Egli sceglie di chinarsi e di abbassarsi, come curvato da quel dolore, come caricato di quell’angoscia, vinto e sopraffatto da quella vergogna. Si china per porsi alla stessa altezza di chi, trasgredendo la legge, ha piegato la propria vita, l’ha resa infedele e quasi spezzata. E proprio allora, con il suo dito, ricorda a tutti che non si possono tenere le tavole della legge ignorando il dito che le ha scritte. E quel dito scrive e incide ancora vita e salvezza su cuori che sono di pietra.

Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei» (Gv 8,7)

Davanti all’insistenza, Gesù si alza, si rimette dritto. Accetta di farsi giudice, di tenere insieme la legge e la misericordia, il peccato e il peccatore. Pronuncia parole forti. Sono parole usate e abusate, delle quali facciamo però fatica a penetrarne il senso e rischiamo di renderle innocue.

Quella donna ha trasgredito la legge e ha peccato. Gesù non rifiuta la legge, non nega il suo valore, non mette in dubbio la sua importanza. Semmai rincara la dose. Poiché la trasgressione della legge prevede è peccato, chi è senza peccato inizi a lapidare. Inizi a fare giustizia colui che si ritiene giusto. Chi ha osservato la legge scritta su pietra può usarla come arma da lanciare addosso. 

La scelta di Gesù è tesa e drammatica. Ed è anche da noi spesso fraintesa. Perché ci immaginiamo che Gesù, con queste parole, accusi di ipocrisia e di menzogna gli scribi e i farisei. Ci schieriamo dalla parte della donna contro i suoi accusatori. Ci sembrano malvagi. E invece Gesù compie un nuovo atto di amore. Con le sue parole, egli non condanna la donna e non condanna i suoi accusatori, ma apre i loro occhi, permette loro di vedere che se la donna è condannata, nemmeno loro possono sfuggire alla sentenza e al castigo. E anche questa volta egli si china.

E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani (Gv 8, 8-9a)

Gesù si china di nuovo e scrive per terra. Questa volta lo fa per gli scribi e i farisei. Egli dà loro il tempo di riconoscere la loro colpa, di comprendere che quella legge scritta su pietra è macigno anche per loro, è pietra che li colpisce e condanna. Si china piegato dalle loro colpe, si china per pudore verso il conto dei loro peccati, si china perché la vergogna degli altri per la propria miseria non è un trofeo di cui fare bottino. 

Se ne andarono uno per uno, consapevoli della loro colpa. Gesù, con le sue parole, ha donato loro il tempo per riconoscere le colpe nascoste, per toccare il proprio male, per lasciare che il dito di Dio continui a mostrare il suo volere. Anche per loro Gesù ha compassione, anche per loro egli si china. Non indaga col suo sguardo ciò che essi vivono, non li denuda e non li mette in mostra nelle loro debolezze. Anche per loro egli ha il pudore di non guardare il conflitto che emerge. E scrive ancora per terra. Porta a termine la scrittura di quella legge, che è data per indicare la vita, per mostrare la giusta strada. Scrive anche sui loro cuori di pietra.

Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8,9b-11)

Gli scribi e i farisei se ne vanno. Le pietre cadono dalle loro mani. Sono lasciate lì, segni di un cammino che anche per loro si è fatto possibile. Avevano interrogato Gesù per costringerlo a prendere posizione ed ora essi sono intenti a scegliere da che parte stare. La risposta che Gesù ha loro rivolto è parola che scava il cuore, è assillo che graffia e incide la vita, è apertura di un varco perché anche per loro il dito divino continui a tracciare un futuro. 

Lasciano solo Gesù con la donna e il suo peccato. La misera e la misericordia, dice Agostino. E ancora Gesù si alza, si mette ritto dopo essersi abbassato. Interroga la donna, ma non sulla sua colpa e sul suo peccato. La interroga sulla sua fine, su quello a cui ella è scampata. 

Dove sono gli accusatori? Si spera siano altrove ad accusarsi, a riconoscere le proprie colpe. Sono altrove, eppure è come se fossero tutti in lei. Perché lei e loro conoscono ora di essere peccatori, sanno di essere tutti distanti dalla stessa legge. La donna si guarda attorno, nessuno l’ha condannata. Perché nessuno potrà mai farlo in nome di Dio. Nessuno può prendere le parole divine e usarle come pietre da scaraventare addosso ai colpevoli. 

Ella è lì, con l’unico giusto, con l’unico che è senza peccato, con l’unico che può essere giudice. Ella è lì con il dito con cui Dio ha scritto la legge. E ora quella mano invita ad andare, a passare oltre, a non fermarsi alla propria colpa, a non trattenersi ancora presso il luogo della propria vergogna. 

Ed è così che si riapre la vita, che ha inizio il futuro, che si inaugura un nuovo cammino. Il perdono non cancella la legge, ma ricrea la vita, è atto creatore che segna il cuore dell’uomo perché viva una vita nuova. Il perdono rinnova la vita, la fa risorgere. Ora quella donna può vivere perché ha conosciuto il vero amore, quello che sana e cura la vita, quello che riveste la storia di nuovo e la rende degna di essere amata. 

E quella donna infedele si fa adesso sposa. È chiamata donna come Maria, come la Samaritana, come la Maddalena. Figure che sono messaggi, che sono segni di un Dio appassionato, di un Dio innamorato.

Gesù perdona l’adultera e ogni peccatore. E davanti a lui anche il peccato diventa il luogo del riscatto, l’occasione dell’incontro, la possibilità della salvezza. Lo è per la donna, può esserlo per gli scribi e i farisei.

A noi, sempre tentati di giustificare il nostro peccato e di condannare i peccatori, Gesù propone una scelta diversa. Egli perdona il peccatore e gli apre davanti un nuovo futuro ma mostra la serietà del nostro peccato. Non è un caso che, proprio alla fine di questo capitolo, i suoi accusatori prendano delle pietre per lapidarlo. È il segnale chiaro che la scelta di Dio non è a buon mercato. Non è buonismo ingenuo. Il peccato resta una cosa seria, è un male che turba e pone in questione e a rischio la vita. E lui, davanti alla colpa degli uomini, si china e scrive ancora, incide con la sua carne, con il dono della sua vita, con l’assunzione del nostro male, il cuore che si è fatto di pietra perché riviva e diventi tempio e custodia di un nuovo futuro. Perché solo lui può fare nuove le cose!

«Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? (Is 43,18-19)

Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù (Fil 3,12-14)

Liturgia della Parola

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