Che cosa cercate?

II Domenica Tempo Ordinario B (1Sam 3,1-10.19-20; 1Cor 6,13c-15a.17-20; Gv 1,35-42)

Nel tempo di Natale abbiamo vissuto l’incarnazione di Dio che ha mischiato la sua vita a quella dell’umanità. Il tempo ordinario ci immette, in maniera graduale, nel mistero della storia in cui Dio si manifesta e fa conoscere. È nell’ordinarietà della vita, infatti, che siamo chiamati a cercare il Dio che ci chiama, è tra le voci confuse che possiamo scoprire l’appello, unico e inatteso, di colui che ci ama. Qui, nei contesti usuali e feriali, egli ci chiama per nome, fa vedere il suo volto e ci fa vedere chi siamo. Entra nella nostra personalissima storia per rivolgerci parole che ci mettono in cammino e in ricerca.

Samuèle dormiva nel tempio del Signore, dove si trovava l’arca di Dio.
Allora il Signore chiamò: «Samuèle!» ed egli rispose: «Eccomi». […] Eli disse a Samuèle: «Vattene a dormire e, se ti chiamerà, dirai: “Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta”» 
(1Sam 3,3b-4.8b)

La situazione del giovane Samuele ricorda da vicino la nostra. Ci sembra rara la parola del Signore ed è difficile incontrarlo. Nel mondo, Dio ci appare silente e anche la poca luce, che di lui è rimasta, sembra destinata a spegnersi. Nonostante ogni apparenza, però, è proprio ora che egli ci chiama e fa appello alla nostra storia. Ci desta dal sonno in cui siamo immersi, dal torpore in cui ci siamo adagiati. 

“Eccomi”, risponde Samuele, ad una voce che non sa riconoscere. E sarà Eli, dopo un po’ di fatica, ad aprirgli le orecchie. 

“Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta”. È invocazione che dobbiamo fare nostra. È invito a Dio perché, almeno lui, non si rassegni a questo silenzio, non si arrenda alla sordità che ci rinchiude in un mondo ormai muto, in cui ogni chiacchiera ha il sopravvento e mette a tacere le parole autentiche. 

Dobbiamo invocare la parola di Dio, chiedere a Dio che continui a parlare, a farci vedere, nella notte in cui siamo immersi, la lampada che illumina le notti più oscure. È la sua parola a squarciare il silenzio, ad aprire un varco nella coltre in cui è immersa la nostra esistenza. 

Abbiamo bisogno che lui ci chiami, che ci rimetta in cammino, che ci faccia sentire l’ansia di non essere a posto, di non essere al sicuro, di non essere mai al posto giusto. Abbiamo bisogno di sentire il bisbiglio di Dio che, di notte e in silenzio, ci chiama per nome perché ancora ci ama e ancora, almeno lui, crede nell’uomo.

Giovanni stava con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio!». E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù (Gv 1,35-37)

L’esperienza di Samuele che, grazie ad Eli, impara a riconoscere la voce di Dio, prende corpo e volto nell’esperienza dei primi discepoli e in quella a cui ciascuno di noi è ancora chiamato.

Giovanni, mentre sta con due dei suoi discepoli, è sguardo e voce, è indice e segno. Tutto in lui è rimando e indicazione. Fissa lo sguardo su Gesù che passa. È sguardo che si incastona sul corpo di quell’uomo, è occhio che penetra nel mistero di ciò che appare. È visione che vede oltre ogni apparenza. E ancora oggi, quante volte al passaggio di Dio ci vorrebbe uno sguardo che lo sappia riconoscere, una voce che lo sappia chiamare, un amore che lo sappia indicare. E il rischio è che Dio passi ancora e nessuno alzi lo sguardo a vederlo, nessuno lo chiami a mostrarlo. E Dio passa, ignoto viandante della storia, sconosciuto passeggero nel nostro stare, incognita a cui nessuno sa dare un nome.

Giovanni, invece, senza timore di restare solo, parla e indica: “Ecco l’agnello di Dio!” Smuove ogni sguardo perché possa vedere, rivolge l’attenzione verso quell’uomo, accarezza ogni orecchio perché possa udire. 

“Ecco l’Agnello di Dio”. E si apre la storia di un popolo. Si riapre il libro della propria esistenza. È l’Agnello a salvare il futuro, a rendere vivi i primogeniti. È l’Agnello a rendere possibile la Pasqua, il passaggio alla libertà. Ed è l’Agnello, servo obbediente, a restare muto nella sua condanna, a farsi carico del male di tutti, a restare piagato e sconfitto perché in lui il male sia vinto per sempre. 

Parole ambigue eppure chiare. C’è bisogno di qualcuno che si faccia carico del male di questo mondo, delle brutture della storia, delle schiavitù in cui siamo costretti, della violenza che abbiamo prodotto. C’è bisogno di un Agnello, creatura innocente, che prenda su di sé il peso del male e restituisca mitezza e dolcezza. 

“Ecco l’Agnello di Dio”, dice Giovanni, ecco il Dio che non conoscete, colui che è venuto a liberarci, a sanare le nostre ferite, a fare suo il nostro male. E Giovanni intravvede il mistero di tutto, della vita e della morte, di Dio e dell’uomo, del male e del bene, della schiavitù e della libertà. “Ecco l’Agnello di Dio”, ecco il Dio che si è fatto debole, che si è fatto cibo e nutrimento.

E i due discepoli, sentendo le parole di Giovanni, si misero a seguirlo. L’ascolto precede la sequela. Fanno in fretta, spronati dallo sguardo e dalla voce di Giovanni, ad abbandonare il loro “stare” per affidarsi al “seguire”. Credere è seguire, vivere in movimento dietro i passi di chi ci precede. Credere è vincere l’inerzia e la comodità per mettersi in cammino.

Andrea e l’altro discepolo non hanno paura a lasciare Giovanni ed egli non fa nulla per trattenerli. È solo voce che indica la Parola, è solo sguardo che fa vedere la Luce, è solo dito che mostra il Verbo, è strada che prepara e conduce.

Ci vogliono uomini e donne che, come Eli e Giovanni, sappiano soltanto farsi da parte dopo che, con sguardo profetico e parole audaci, hanno indicato lo Sposo che passa, hanno aperto ricerche nuove, hanno destato desideri nascosti. Ci vogliono testimoni che non vadano in cerca di seguaci, ma sappiano rinviare e indicare oltre se stessi. Ci vogliono profeti che sappiano riaprire ricerche già chiuse, che sappiano rinnovare desideri inespressi e attese incompiute. Ci vuole gente che non si rassegni a orecchie chiuse e occhi ciechi. Ci vuole, insomma, una Chiesa che sappia, nella storia del mondo, indicare e mostrare l’Agnello. 

Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: «Che cosa cercate?» (Gv 1,38a)

Eppure, non basta seguire, non basta credere, non basta nemmeno dirsi cristiani. Bisogna ogni giorno lasciarsi chiedere ancora: “Che cosa cercate?”

Che cosa cerchi seguendo il Signore, che cosa cerchi diventando cristiano, che cosa cerchi in questa Chiesa? Che cosa vuoi e cosa ti manca? Quella di Gesù è domanda che scava dentro, che scende in fondo come spada affilata. Perché a furia di credere e dirci cristiani, possiamo aver perso il motivo. 

E si è cristiani perché si cerca consenso o alternative. Si è cristiani per sentirsi a posto o per prendersi il lusso di sentirsi migliori. Si è cristiani per mettere in pace la propria coscienza o per darsi un’identità. Si è cristiani per paura del nuovo o per affermare le proprie idee. Si è cristiani perché fa comodo o per rendere comodo il cristianesimo. Si è cristiani per paura e per poco coraggio e, a volte, si è credenti per nulla. Si è cristiani, anche, perché, alla fine, sembra che esserlo non significhi niente.

E allora risuoni con forza e dolcezza la stessa domanda che inquieta e spaventa. Che cosa cercate? Che cosa cerchi nella tua fede? Qual è il desiderio che ti abita il cuore? Tu sei domanda e non hai la risposta, tu sei richiesta e non sai esaudirla, tu sei ricerca e non sai che trovare. 

Gli risposero: «Rabbì – che, tradotto, significa maestro – dove dimori?» (Gv 1, 38b)

La risposta è breve e dice tutto: dove dimori? Vogliono conoscere dove è di casa, dove ha la tenda il Dio che hanno visto. Vogliono conoscere la sua dimora, comprendere bene la sua stessa vita. Dimorare è, per Giovanni, il verbo dell’amore e dell’incontro, dell’intimità e della sequela. Dove dimori? Come a dire: vogliamo conoscerti e quindi amarti. Vogliamo essere tra quelli tuoi. Vogliamo essere dove tu sei. Vogliamo sapere dove hai la tua sede, dov’è la fonte di questo tuo andare, dov’è la sorgente di questo tuo amore. Vogliono sapere dov’è la sua casa perché già sanno che egli è per loro dimora in cui restare. E lo scopriranno, strada facendo.

Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio (Gv 1, 39)

Non si può credere per sentito dire, non si può seguire per interposta persona. Credere è fare l’esperienza di mettersi in cammino. Gesù invita i due a fare esperienza, li chiama, all’imperativo, perché, l’iniziativa è sempre sua. Ed è così che nasce la promessa: vedrete! Andare dietro a lui, venire a lui è la condizione per vedere.

E i due vanno e, per questo, vedono dove egli dimora, dove è di casa. Seguire Gesù è questione di cuore e di intimità, è comunione di vita e di dimora. Non puoi sapere prima ciò che vedrai, non puoi sapere dove egli ti conduce. Ciò che conta è andare con lui, fare l’esperienza, unica e personale, di rimanere con lui.

In Giovanni dimorare è il verbo dell’amore e il Figlio dimora nel Padre e nel suo amore. La dimora del Figlio è il cuore del Padre e il discepolo è invitato a dimorare nel Figlio e nella sua parola. È quella la nuova casa, il nuovo luogo in cui sostare, in cui dare forma alla propria vita. Rimanere con lui è trasformazione di tutta la vita, perché il vero amore modella e dà forma, rende nuovi e rende simili. 

Giovanni annota l’ora: ci sono incontri che sono svolte e lasciano il segno per tutta la vita. Per i due discepoli è l’ora del compimento, della pienezza di un tempo nuovo, scandito dal cuore di colui che li ama. 

Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia» – che si traduce Cristo – e lo condusse da Gesù (Gv 1,40-42a)

Quando si trova ciò che si cerca, la vita è segnata per sempre e ogni incontro si fa annuncio e missione. Basta uno sguardo e poche parole per invitare a nuove sequele. “Abbiamo trovato il Messia”. Andrea non offre prove e altri elementi, non fa discorsi e non fa preamboli. Non prende il posto di colui che ha trovato. Conduce il fratello all’incontro. E sogno cristiani facilitatori d’incontri, che sappiano condurre e accompagnare a colui che ama e cerca ogni uomo. Sogno gente che sappia indicare il luogo dove il Messia ha preso casa. Vorrei essere colui che conduce e poi con coraggio si fa da parte perché ogni cuore, ancora in ricerca, possa incontrare colui che lo cerca.

Fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa» – che significa Pietro (Gv 1,42b)

Il vero incontro dona un nome e una missione. L’identità di ciascuno è fatta dagli incontri che abbiamo avuto, dalle persone che abbiamo incontrato, dai dialoghi che abbiamo fatto, dagli sguardi che abbiamo ricevuto. Eppure, solo lo sguardo di Gesù ci rivela chi siamo davvero, fa emergere il volto nascosto, ci dona un futuro e una missione. La relazione con Dio è scambio di sguardi, è intesa di ricerche e rivelazione di volti.

Ed è così che si manifesta il Dio presente nella carne umana. Volto e parola, sguardo e invito, cammino e dimora. Ed è così che si diventa cristiani: lasciandoci incontrare da domande difficili e lasciandoci smuovere su vie a noi ignote. Restare con lui dove egli dimora, per essere oggi, in questo tempo, segno che ancora sa indicare la strada, voce che ancora sa dire il mistero, spazio e incontro che sa rivelare che Dio ancora parla e si fa vedere se abbiamo orecchi per ascoltarlo, se abbiamo occhi per riconoscerlo, se abbiamo una vita che lo sappia ospitare.

Liturgia della Parola

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