Un Dio che non ci appartiene

IV Domenica Tempo Ordinario C (Ger 1,4-5.17-19; 1Cor 12,31 – 13,13; Lc 4,21-30)

Presi dall’ansia di piacere a tutti, di sentirci accettati, dimentichiamo che il compimento di ogni annuncio è scritto sulla carne dell’Uomo di Nazareth. E quella carne non ha avuto vita facile, non ha accolto applausi e consensi. È carne impastata di cielo che ci invita ad uscire allo scoperto. Spesso, davanti al rischio di non essere apprezzati, di non essere alla moda e al passo coi tempi, ci viene voglia di sistemare le cose, di riadattare tutto secondo il consenso, di ammodernare secondo i sondaggi. Preferiamo non urtare nessuno e sembra che, alla fine, siamo noi i primi a non prendere troppo sul serio che in Gesù è Dio che si è rivelato, un Dio che si è fatto vicino e che, per questo, continua a restare Mistero. 

Gesù cominciò a dire nella sinagoga: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».
Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca 
(Lc 4,21-22a)

Dopo che Gesù ha letto le pagine di Isaia che annunciano la lieta notizia, la liberazione e la visione, la libertà e la grazia, gli occhi di tutti si fissano su Gesù ed egli fa vedere che quella Scrittura si è ora compiuta e può essere vista nella sua carne.

Tutti, quindi, gli danno testimonianza, si meravigliano e sono felici perché quelle parole escono da una bocca che essi conoscono. Sono entusiasti che l’annuncio profetico si sia realizzato proprio lì a loro portata, a disposizione della loro città, nel ristretto della loro cerchia. 

E dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?» (Lc 4,22b)

Sono contenti che tutto si sia compiuto tra la loro gente. Non è in questione, come a volte si interpreta, l’umiltà di Gesù o il suo essere un semplice uomo. In realtà, non li sconvolge quell’uomo ordinario, anzi li riempie di orgoglio e soddisfazione.

Se il figlio di Giuseppe è il Profeta e il Messia, sono loro quelli a lui più vicini, i destinatari dei suoi favori. La parola che in Gesù si è compiuta diventa per loro riscatto e promozione, soddisfazione di umane pretese. Hanno dei diritti e dei vantaggi, lo conoscono e sanno chi è, hanno contribuito alla sua crescita. 

Immaginano un consacrato del tutto umano, vicino di casa, che si interessi delle loro faccende, che risolva i loro problemi, che renda più facile la loro vita. 

Essi lo pensano, infatti, come figlio di Giuseppe, quindi quel figlio ha una patria, un luogo che può vantarne i natali, un sangue che può rivendicarne l’appartenenza, una comunità che può esigerne i benefici. 

Ma ciò che dicevano e che li rende entusiasti non corrisponde al vero. Essi non sanno chi sia quell’uomo, non conoscono la sua vera origine, non sanno da dove provenga, non conoscono il vero suo padre, non hanno il suo sangue nelle loro vene.

Luca sottolinea ciò che tutti si dicevano e si chiedevano per esserne certi e averne conferma: è il figlio di Giuseppe. Eppure l’Evangelista, pochi versetti prima, aveva già precisato, nel presentare le origini di Gesù che: “Gesù, quando cominciò il suo ministero, aveva circa trent’anni ed era figlio, come si riteneva, di Giuseppe” (Lc 3,23).

È proprio qui che salta tutto. Essi si dicono ciò che non sanno, si affidano a ciò che pensano ma ignorano la sua vera origine. Nella sinagoga tutti pensano di conoscere chi sia Gesù e invece non sanno nulla della sua identità, non conoscono chi sia suo padre. 

Tutti fraintendono la storia. Gesù è il consacrato che compie ogni parola ma, poiché la sua origine ha sede altrove, anche il compimento che essi si aspettano non avviene secondo le loro attese, non soddisfa i loro desideri. 

Quell’Unto che Dio ha mandato non può essere racchiuso nel loro mondo, in ciò che pensano e sperano.

È rischioso pensare di conoscere Dio e di poterlo usare, di prendere cose divine e piegarle a scopi umani, di usare la Parola e dire parole, di usare Dio e sistemare gli uomini. Gesù non è lì per realizzare i loro sogni di gloria, risolvere i loro problemi, assecondare le loro pretese. 

Anzi, a dirla tutta, egli è lì per iniziare lo scontro e creare subito una rottura. Gesù mette fine ad ogni tutela e mostra, con estrema chiarezza, che egli è figlio di Colui che è altrove e che essi non vogliono conoscere. Egli non ha una patria che di lui possa vantarsi, non ha dimora in cui sia di casa, non ha qui padri che lo tutelino.

Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”». (Lc 4,23)

Gesù, allora, li sfida e li provoca. Vuole che escano allo scoperto. 

Egli sa che, per loro, l’ideale sarebbe un profeta che si prenda cura di sé e di quelli della sua casa, che si interessi dei loro interessi, che privilegi le loro esigenze. Sarebbe anche giusto! Ma questa è solo una tentazione. Il proverbio che Gesù cita, infatti, risuona come la prima tentazione, quella che egli ha già vinto, “dì a questa pietra che diventi pane” (Lc 4,3), e come l’ultima che ancora lo attende, “salva te stesso e noi” (Lc 23,39). 

È il fraintendimento di tutto. È la tentazione di usare Dio per ciò che ci serve, di tenerlo come amuleto, di immaginarlo come rimedio ai problemi, come soluzione alle ansie, come sollievo alle stanchezze, come custode degli interessi, come realizzazione dei ragionamenti. 

In fin dei conti, forse anche a noi capita di tentare Dio, di usare lui e la sua parola, di volerne disporre come una cosa che ci appartiene, sulla quale vantare diritti. 

I suoi concittadini non cercano segni per credere, non ne hanno bisogno. Conoscono già le cose che egli ha compiuto a Cafarnao. Vogliono però dei benefici, vogliono godere dei vantaggi a cui hanno diritto, in fin dei conti hanno un Messia vicino di casa. 

Ma Gesù sfugge a questa logica. Non ha paura si suscitare il malcontento e lo sdegno. Non può piegare la sua missione a soddisfare le loro questioni, ad accontentare interessi umani. 

Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro» (Lc 4,24-27)

E Gesù propone ad esempio due stranieri, la vedova di Sarèpta e Naamàn il Siro. A loro, due stranieri senza diritti e che non possono vantare nessuna esclusiva, Dio si fece vicino attraverso Elia ed Eliseo. Ma non si tratta solo di questo. Dio può accoglierlo solo chi, piuttosto che pretendere qualcosa, è disposto a mettere ogni cosa in gioco.

La vedova non ebbe paura di mettere a rischio la sua sopravvivenza, donando quel poco che le restava per vivere. Nel dono dell’ultima farina e dell’ultimo olio ella si affida al Dio della vita. E Naamàn il Siro non si preoccupò di salvare la fama, le sue idee e le sue teorie. Con molta fatica, accettò di fare ciò che a lui sembrava ridicolo, del tutto insensato e privo di ogni ragione.

In loro non c’è pretesa e non c’è privilegio, c’è solo il coraggio di mettersi in gioco, di accogliere una parola che non è compresa, di mettere a rischio la vita e la fama per obbedire alle parole dei due profeti. 

All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino (Lc 4,28-30)

E la meraviglia si trasforma in sdegno. Ed è sempre facile provare sdegno quando si scopre che Dio non è “nostro” e non ci appartiene. Egli ci supera e ci invita ad andare oltre, a superare i nostri cortili, ad abbattere le nostre chiusure. Credere in Dio non è possederlo, non è rinchiuderlo nei nostri forzieri. Dio non ha patria e stana tutti quelli che pensano di possederlo e di essere già arrivati, li provoca e li costringe ad uscire fuori, a decidersi se mettersi in cammino con lui o se lasciare che sia lui, passando in mezzo, ad andare oltre lasciandoli soli. 

In fondo, forse, è per questo che proviamo ancora un po’ di sdegno per un Dio che non si adatta, che non segue il sondaggio e la moda, che non si adegua a ciò che vuole la gente, che non si piega ai nostri interessi. E anche noi siamo tentati di abbassare il tiro, di evitare problemi, di annunciare un Dio che si è accasato, che non ci provoca e non ci urta, che non ci scomoda e non ci stupisce. E dovremmo, invece, avere il coraggio di non arrossire del Vangelo, di non temere l’inimicizia del mondo.

Tu, dunque, stringi la veste ai fianchi,
àlzati e di’ loro tutto ciò che ti ordinerò;
non spaventarti di fronte a loro,
altrimenti sarò io a farti paura davanti a loro.

Bisogna, con ogni profeta, vincere ogni paura, abbandonare ogni umano timore e avere il coraggio e la schiena dritta per accogliere Dio e la sua Parola. Anche quando questo ci costa e ci spaventa, quando ci lascia soli e ci fa sentire in minoranza. Non possiamo tacere ciò che ascoltiamo, non possiamo ignorare ciò che ci viene donato. Bisogna resistere alla tentazione di salvare se stessi, la propria fama e il proprio consenso, l’entusiasmo e l’approvazione.

E c’è un modo giusto per iniziare:

La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta (1Cor 13,4-7)

Liturgia della Parola

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