La Pasqua si fa feriale

Ascensione del Signore (At 1,1-11, Ef 1,17-23; Mt 28,16-20)

L’Ascensione di Gesù al “cielo” ci mette alla prova. Sarebbe facile incontrare il Risorto che cammina nelle nostre strade, ma non è questo che ci è stato donato. Sarebbe bello tenere lo sguardo orientato al cielo, restare lì, in attesa che qualcosa avvenga, ma non è al cielo che dobbiamo guardare. Il nostro sguardo è incastrato in questa terra, è orientato a questo mondo, è fissato su questa storia. 

L’Ascensione al cielo ci dona uno sguardo che si immerge nelle cose del mondo per vedere e riaccendere la luce divina. Ci dona mani che toccano il fango per soffiarci dentro una vita nuova. Ascensione non è fissare il cielo, ma guardare la terra, questa terra martoriata e sporca, questo mondo insanguinato e depresso, questa umanità stanca e senza speranza. 

L’Ascensione è l’opposto di ogni evasione, di ogni estasi che non chiami all’impegno, di ogni mistica che non rigetti nel mondo. L’Ascensione è il rifiuto di ogni ritirata, di una salvezza a mio uso e consumo, di un Dio fatto a mia misura. Con l’Ascensione ogni uomo e ogni carne è innalzato all’altezza di Dio e, nei suoi testimoni, Dio ancora si abbassa sulle nostre miserie, si piega sui nostri peccati, si fa vicino nelle nostre cadute. È proprio perché attendiamo dal cielo il ritorno del Cristo glorioso che possiamo, nella fede e nella speranza, restare qui in terra a testimoniare che la Pasqua è passaggio obbligato, che il silenzio di Dio è il suono della sua voce, che la sua assenza nel mondo è il posto in cui ancora incontrarlo.

La festa dell’Ascensione è la Pasqua che si fa feriale, è l’annuncio che si fa vita, è l’evento che si fa storia. Cristo ascende al cielo perché inizi il nostro momento, perché noi e lui, uniti in un solo corpo, rendiamo vivo l’amore del Padre, credibile la sua presenza, concreta e fattiva la sua tenerezza.

Riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra (At 1,8)

Il testimone è colui che rende presente l’assente, colui che pronuncia parole che non hanno altra voce, colui che compie gesti che ha imparato da altri. Il testimone è colui che ha scelto di rinunciare a se stesso per rendere vivo e presente colui che è assente. Il testimone è presenza di chi non si vede, parola di chi ora tace, gesto di chi appare assente. Eppure, il testimone sa di vivere una storia che gli è stata donata. Può essere testimone perché in lui vive lo Spirito che rende vivo e attuale il mistero del Figlio. 

Per essere suoi testimoni, per essere sua presenza nel mondo, dobbiamo prima essere pieni di Spirito Santo, pieni della vita di Dio e del suo amore. Non si è testimoni per sforzo e impegno umano, per decisione e volontà. Si è testimoni per la forza dello Spirito Santo. Perché la fede è, prima di tutto, grazia che opera in noi, dono che viene dall’alto, presenza che ci abita dentro e ci immerge in una nuova realtà. Finché siamo convinti che per testimoniare bastino le strategie umani, le riforme ecclesiali, le norme e i nostri progetti, resteremo sempre a mani vuote. E il mondo resterà a corto di testimoni. 

Mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi (At 1,9)

Mentre i discepoli lo guardano Gesù viene elevato al cielo e la nube, segno di Dio e della sua presenza, lo sottrae ai loro occhi. Viviamo un tempo in cui Dio è sottratto al nostro sguardo, in cui sembra assente dal nostro orizzonte. Dio sembra sottratto agli uomini e alle donne di oggi. 

Il Risorto è sparito dalla nostra vista, anzi, i nostri occhi non lo hanno mai visto. Ed è quest’assenza a rivelarci la sua più viva presenza. 

Egli sparisce dalla vista dei suoi discepoli. Ed è così che ha inizio il tempo di una sua nuova presenza. È il tempo dell’intimità e dell’azione, dell’ascolto e della testimonianza, dell’amore e del servizio.

L’Ascensione segna l’inizio di uno spazio nostro. Il corpo del Risorto è sottratto ai nostri occhi ma ci resta vicino con la sua parola, ci resta dentro con i segni della fede, vive in noi mediante lo Spirito. L’Ascensione è l’affidarsi di Dio, il suo concedersi nella vita dei suoi discepoli e nella testimonianza di chi gli ha creduto. Egli si affida alla storia umana di questa Chiesa perché attraverso noi egli ha scelto di farsi vedere, di farsi parola e farsi dono.

Egli si affida a noi per rendere visibile la sua presenza, rendere carnali i suoi gesti, rendere autentiche le sue parole, rendere nuovo tutto il suo amore. Siamo noi la presenza del Risorto in questo tempo. 

Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?  (At 1,10-11a)

Noi dobbiamo abbassare il nostro sguardo, piegarlo a questa vita. Non ci serve guardare il cielo, ma rintracciare Dio nei segni del suo silenzioso passaggio, nelle tracce che egli ha lasciato, nelle orme disseminate sul nostro terreno. Il suo volto è disseminato nei volti di tanti, i suoi gesti sono matrice di gesti umani.

Ci serve dare a Dio la nostra carne, farci sua voce e sua presenza perché risuoni, in un mondo sordo, la sua parola, perché si veda, in un mondo cieco, che egli ancora è in mezzo a noi, lo è attraverso di noi e la nostra vita, le nostre scelte e i nostri stili.

Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo (At 1,11b)

Egli verrà un giorno, verrà nella sua gloria a rivelare i suoi segni nascosti nel fango, immersi nelle miserie. Resta la tensione, perché questa terra attende ancora di essere riempita di Dio, di diventare tutta redenta e salvata, di essere tutta splendente della sua gloria. Verrà dal cielo il Risorto, verrà ancora una volta, per rendere piena la gioia.

Verrà a rivelare e a ricomporre il suo corpo, a mostrare che la Chiesa è la sua pienezza.

Ascensione è questo e questo soltanto: sapere che i nostri piedi sono piantati e saldi qui in terra, perché questa carne mortale è già seduta nei cieli, è già alla destra di Dio. E di là un giorno il Cristo ritornerà per rendere perfetto e compiuto ciò che, già ora, è promesso e iniziato.

Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo (Mt 28,19-20)

È lui a mandare noi. Noi siamo nel mondo perché mandati, inviati dal suo amore e dalla sua parola. Egli ci manda nel cuore di questa storia che non comprendiamo, di queste tragedie che lasciano il segno, per fare discepoli tutti i popoli. È lui il Maestro, ma è alla nostra vita che egli affida l’arduo compito di fare discepoli. Non si tratta di catechizzare o di spronare, di spingere ad entrare nella Chiesa o a credere. Fare discepoli è possibile solo vivendo lo stile del Maestro. È diventando come lui e mostrando lui che possiamo chiedere agli altri di essere suoi discepoli. La credibilità dell’annuncio passa dall’autorità di colui che ci manda e dalla credibilità di noi che andiamo. Fare discepoli è dare senso, offrire prospettive altre e nuove. Bisogna fare discepoli i popoli immergendoli nella vita nuova, in quell’amore che è Trinità. Non si tratta di immergere gli altri nelle nostre idee, di farli coincidere con ciò che siamo, di farli entrare nei nostri gruppi. Fare discepoli è immergere tutti nella vita di Dio, donare loro il suo amore e la sua presenza, avvolgerli come fa Dio con la premura di chi ama soltanto, di chi ha scelto di donare se stesso per rendere nuova la vita di tutti.

Battezzare non è solo un sacramento o un rito. È prendere il coraggio di riconoscere che la vita dell’altro merita di essere abbracciata da Dio. E nessuno arriverà a comprendere questo se non siamo noi ad abbracciare la sua vita, a donare amore, a dire sì alla sua esistenza. 

E poi bisogna insegnare a osservare tutto ciò che egli ha comandato. L’amore vero incide nella vita degli altri, lascia il segno. Insegnare è mostrare al vivo ciò che bisogna imparare. Osservare ciò che Gesù ha comandato è dare una svolta alla vita, è rendere vivo ed effettivo l’amore che Dio ci dona. L’amore che riceviamo non ci lascia intatti, non ci lascia come ci ha trovato. L’amore di Dio, nel quale siamo immersi, ci invita a cambiare vita e priorità, ci chiede di fidarci di ciò che Gesù ci comanda perché il suo comando nasce dall’amore e ha come garanzia la croce. 

Siamo noi a dover rivelare, con le nostre scelte e le nostre azioni, che Dio è vivo e concreto, che Dio è qui, in questa storia, perché sono qui i credenti, ai quali egli ha affidato l’avventura, stupenda e tremenda, di renderlo vivo e presente.

Tutto infatti egli ha messo sotto i suoi piedi
e lo ha dato alla Chiesa come capo su tutte le cose:
essa è il corpo di lui,
la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose
(Ef 1,22-23)

Chi ci incontra dovrebbe sentire che Cristo è con noi, che noi siamo con lui, che egli è in noi, che noi siamo lui perché è lui ad averci reso simili a lui, ad averci presi e inseriti come membra vive del suo corpo. È questo la Chiesa. Soltanto questo. Quando parla dice Dio, quando vive lo mostra, quando prega lo manifesta, quando ama lo rende presente.

Se Dio sembra assente è perché di noi si fida e a noi si è affidato. È grande gioia sapere che presso il Padre c’è, nel Figlio, la nostra umanità, la nostra terra che è fango e miseria. Ma è grande gioia anche sapere che il Cristo è rimasto qui, nelle nostre vite, per operare e continuare il suo mistero d’amore. 

Egli, nella forza dello Spirito, resta presente nel mondo, continua a camminare sui sentieri della terra e del tempo e ovunque continua a tracciare sentieri di cielo. No! Non è assente o lontano. Si è inoltrato e nascosto fin dentro la storia e la vita, perché è qui che i cristiani possono vivere ora il loro essere presenza di Cristo, sue membra e suo corpo. 

Cristo non ha lasciato la terra, ma ha iniziato ad abitarla e a farla sua casa rendendo suo corpo la Chiesa. Non quella che noi desideriamo e vorremmo, ma proprio questa Chiesa, disastrata e ammaccata, che siamo io e te. 

Egli è asceso al cielo per essere corpo vivo e diffuso, per essere corpo che si fa servo, parola che si fa annuncio, gesto che cura e risana, amore che perdona e rialza. Da quel giorno noi siamo questo, siamo suo corpo e presenza perché egli possa ancora agire nel tempo.

La terra è piena della pienezza di Dio perché egli ha incuneato la sua viva presenza nella carne di questa umanità, carne resa divina dallo Spirito e dal dono d’amore. Solo questo è la Chiesa: splendore e presenza di Dio, suo corpo e suo segno, suo strumento e dimora. Solo questo è la comunità dei credenti: un unico corpo che rinnova il volto dell’umanità perché diventi il volto di Cristo.

L’Ascensione è festa della Chiesa, testimone di un dono che si fa presenza, di un annuncio che si fa storia, di una fede che si fa vita. Un solo corpo è quello del Cristo Risorto: quello che è in cielo e quello che è in terra, e in questo corpo ci siamo anche noi, siamo anche noi questo corpo glorioso. E mentre siamo in cammino siamo anche in attesa che si compia il tempo e che dal cielo ritorni il Cristo Risorto per rendere uno ciò che ora è diviso, per rendere eterno ciò che ora è spezzato, per rendere tutti gloriosi con lui.

Liturgia della Parola

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