La Pasqua non è conclusa

Pentecoste A (At 2,1-11, 1Cor 12,3b-7.12-13; Gv 20,19-23)

Per cinquanta giorni abbiamo celebrato la Pasqua. Abbiamo raccolto i frutti di questa storia, lasciando che la vita del Cristo risorto smuovesse le morti che ci portiamo dentro, aprisse i sepolcri che teniamo chiusi, ridestasse il coraggio e la voglia di amare. 

Si conclude il tempo pasquale, ma non si conclude la Pasqua, non si chiude e rinserra la storia nuova che, da quel giorno, ha investito la vita del mondo. 

La Pentecoste, infatti, più che chiudere il periodo pasquale, compie e rende perenne il tempo nuovo della Pasqua di Cristo. 

È l’inizio di un mondo e di una storia della quale noi siamo resi partecipi. Il dono dello Spirito, che irrompe il giorno di Pentecoste, continua a irrompere vivo e gagliardo nel cuore della Chiesa e in ciascuno di noi perché sia resa pasquale la vita e la storia del mondo, perché sia ancora vivo e presente l’annuncio che l’Amore non muore, che Cristo ha sconfitto la morte.

La Pentecoste ci proietta in avanti, ci spinge fuori e ci porta altrove. 

Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste (At 2,1)

È così che Luca introduce la discesa dello Spirito. Il giorno di Pentecoste sta per compiersi ma sono solo le nove del mattino. Sta per giungere, cioè, a compimento ciò che il popolo ebraico festeggia in quel giorno: la fine del tempo del raccolto e la festa del dono della Legge. 

Mietere è ricevere in dono la vita del corpo che nel grano trova il suo segno e il suo alimento. E allora, dopo sette settimane dal primo covone, si festeggiava il tempo della pienezza, il raccolto già pieno, la pienezza del dono che permette la vita. Si festeggiava il futuro che il raccolto rendeva possibile e la vita che poteva avanzare. Questa festa contadina celebrava la ricchezza del raccolto e una vita che è sempre davanti, una vita che si riceve solo sprecando e rischiando, solo mettendo a morire quei chicchi di grano che, invece di diventare cibo, sono affidati e affondati in terra. Ogni semina è rischio e scommessa, è sfida lanciata alla morte, è fiducia e speranza, nascoste nel nudo terreno, è palpito e attesa, è privazione che si arrischia ad essere dono. Per questo, sette settimane dopo il primo covone, la fine della mietitura è festa: la sfida è stata vinta, ogni chicco è diventato centinaia, ogni rinuncia è diventata ricchezza, il futuro è diventato possibile. 

Questa festa divenne, poi, celebrazione del dono della Legge e dei Comandamenti dati al Sinai. Sette settimane dopo la Pasqua, che è liberazione e uscita dall’Egitto, il popolo riceve da Dio ciò che permette di restare libero, ciò che consente di restare in vita, ciò che abilita a diventare popolo. L’Alleanza al Sinai fa nascere il popolo, la Legge permette a ciascuno di vivere insieme, di guardarsi come fratelli, di riconoscersi come liberi perché liberati. La Legge diventa il segno e l’indicazione di una vita e di un futuro possibile. Poiché Dio ha donato la legge, la storia può avere un futuro, la liberazione può diventare perenne, la vita può essere viva. 

Il pio israelita, celebrando la fine del raccolto e il dono della Legge, celebra la vita che Dio rende possibile, il futuro che viene offerto, la libertà che viene donata, lo spazio aperto della comunione che Dio rende possibile. È un giorno, quindi, che rende possibile il resto dei giorni.

Ed è per questo che Luca dice che, cinquanta giorni dopo la Pasqua, proprio in quel mattino la Pentecoste giunge a compimento: sta per raggiungere una nuova e definitiva pienezza. 

Con la venuta dello Spirito, vivere la vita, essere liberi, sperimentare l’unità, sentirsi fratelli, avere un futuro e rinnovare la storia è davvero possibile.

Una presenza che libera e unisce, il futuro che diventa possibile, la storia che racconta un incontro, il dono che rende piena la vita, il dialogo che crea e libera un popolo non è più nei covoni raccolti, non è in una legge da ricevere e amare. 

La Pasqua ha inaugurato il tempo e lo spazio nuovo e ora, raccolti i suoi frutti, possiamo incamminarci nel mondo perché, per il dono dello Spirito, il giorno di Pasqua è strappato all’oblio e alle leggi del tempo e diventa l’anima e la vita di tutti i giorni.

un vento che si abbatte impetuoso… lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro… (cf At 1,2-3)

Nel racconto degli Atti, sono tre i modi in cui la venuta dello Spirito si manifesta. Sono tre segni e richiami che ci permettono di dire qualcosa su Colui che è indicibile. 

Il vento, il fuoco e le lingue. Sono i segni di un nuovo inizio, sono elementi di una nuova creazione.

Lo Spirito aleggiava nella creazione, come il vento che modella le cose, che smuove e dà forma alla vita, che feconda e muove la storia. Il vento è mistero che non si afferra, è soffio che scompiglia le cose, è vita che non ha origine, è apertura su ogni orizzonte. Il vento cambia continuamente, soffia da una parte e dall’altra, nasce nel segreto e si rivela nel fragore e nel trambusto. 

È soffio leggero che sussurra alle cose, è turbine e impeto che sferza la vita. Il vento è movimento che non si arresta, è vita che non si può trattenere, è fermento che smuove tutto, è seme che diffonde la vita. 

È lo Spirito che, come vento gagliardo, mette a subbuglio le nostre certezze, squinterna le nostre precisioni, rovescia le nostre sicurezze. Lo Spirito è come vento che si abbatte gagliardo per fecondare e far germinare la vita, per modellare e rendere visibile, nel volto diverso che noi tutti abbiamo, quell’unico volto, quello del Cristo, che libera e ama. 

E poi il fuoco, mistero che ricorda il divino, tocco che arde e che brucia, fiamma che si leva in alto, che il vento alimenta e diffonde. Il fuoco è miracolo di ciò che ti tocca e non puoi afferrare. È forza di ciò che si fa vedere e sentire e che, tuttavia, non si fa possedere. È luce che scalda e rincuora, è fiamma che modella e piega, è calore che purifica e dà nuova forma. La fiamma è una e si divide e ogni fiamma è lingua di fuoco che si comunica e diffonde, guizza lontano a infiammare altre cose. 

E poi le lingue. Quel fuoco uno che diventa fiammelle, lingue diffuse di un unico fuoco, perché è l’uno che si fa molteplice e il molteplice che resta uno. E sono lingue che dicono amore, che narrano amori che non finiscono, che raccontano storie che fecondano il mondo, che celebrano un Dio che ha riscattato la vita.

e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi… li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio (cf At 2,4-11)

E quel miracolo sempre più strano, in cui i diversi si sentono uguali, in cui i lontani si fanno vicini, in cui molti hanno un’unica voce che dice a tutti, in lingue diverse, che Dio è Amore e vive in noi. 

Pentecoste è la moltiplicazione delle lingue perché tutti, ciascuno a suo modo, possano diventare capaci dell’unica Parola. Dio rende dicibile l’unica sua Parola in tutte le lingue e gli accenti del mondo, in tutte le vite e i modi possibili, in tutti i luoghi e le situazioni diverse.

E da quel giorno si fa incontrare nella carne viva di tanta gente che sa ancora come narrarlo, che sa ancora far vivere Dio nelle parole e in ogni gesto. 

Non si ascolteranno più tuoni e fragori che indicano la presenza di Dio, perché Dio si fa presente in ciascuno come fuoco che fa ardere il cuore, come lingua che dice la vita e la dice nel pieno del nostro vissuto. 

E allora si moltiplichino pure le lingue, i toni e gli accenti diversi. Ciò che conta è dire insieme, con il fuoco che ci brucia dentro, l’unica Parola che resta vera in eterno. 

Le lingue sono tante perché ognuno possa comprendere e dire, secondo la sua storia, la sua personale adesione, il suo unico e singolare vissuto, la Parola che resta la stessa. Ed è la stessa Parola che prende corpo in ciascuno di noi, e in ciascuno diventa storia, secondo la creativa bellezza di ciò che non può essere pensato, non può essere previsto, non può essere programmato. 

Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito… A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune.
Come infatti il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo. Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito
(1Cor 12,4.7-13)

Lo Spirito non è un dono di Dio ma Dio stesso che si fa dono e presenza in mezzo a noi e in ciascuno di noi. Lo Spirito è Dio che si fa intimo a noi per renderci suoi e rendere vivo in noi l’evento pasquale che si è compiuto nel Figlio. Lo Spirito è Dio che viene in noi per modellarci e renderci simili al Figlio, per modellare in noi un’esistenza risorta e redenta.

È lo Spirito che crea e modella in ciascuno quel modo unico e originale perché sia ancora donata la Pasqua, il Cristo sia reso presente, il dono sia accolto e donato. Siamo membra, molte e diverse, dell’unico Cristo.

Solo così lo Spirito crea unità e forma comunità: moltiplica i carismi e dona le differenze per scolpire, nella vita di ognuno, in maniera sempre nuova e diversa, l’unica Parola che conta, resa dicibile in mille modi e vite diverse.  

Lo Spirito di Dio è la presenza dinamica e viva di Dio in noi, è la vita di Dio che muove la nostra. Lo Spirito è Dio che ci guida da dentro, ci smuove e modella, ci rende fecondi e dona un linguaggio e uno stile nuovo perché nelle scelte e nel nostro vissuto siano annunciate le grandi opere di Dio.

Abbiamo bisogno dello Spirito per diventare dimora di Dio, per essere tempio della sua presenza, per essere, insieme, corpo di Cristo e sue membra.

E sia lo Spirito a segnarci dentro perché il Figlio, Parola del Padre, si dica ancora nelle nostre vite, si mostri oggi nei nostri volti. E lo Spirito ci ricordi che tutto ciò che il Figlio ci ha detto è ancora da dire nella nostra vita, nelle lingue del nostro tempo perché ovunque risuoni, con fiducia e amore, il grido che in noi grida: Abbà! Padre!

Liturgia della Parola

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