Sedersi dalla parte giusta della storia

XXVI Domenica Tempo Ordinario C (Am 6,1a.4-7; 1Tm 6,11-16; Lc 16,19-31)

È, forse, inevitabile, che ci siano differenze, che restino i ricchi e i poveri. E non è giusto chiamare i ricchi peccatori e i poveri giusti. È vero, però, che tutto si complica quando, con le nostre scelte, costruiamo abissi tenendo chiuse le porte, che servono a difendere i nostri beni acquisiti, ma soprattutto a difendere il nostro sguardo. 

Costruiamo fossati per tenere i poveri alla giusta distanza, quella utile per non vederli, per non sapere che ancora ci sono, che restano seduti ai margini della vita, trattenuti lì perché siano più ricchi i nostri banchetti. E, ingenuamente, siamo contenti perché siamo seduti dalla parte “giusta” della storia.

C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe (Lc 16,19-21)

Gesù racconta una storia. Ci sono due uomini e due modi diversi di stare al mondo. Ci sono anzi due mondi diversi, ma talmente vicini che solo una porta li separa e tiene lontani. 

C’è un ricco, uno di quelli che la gente ricorda e chiama beato. È pieno di bellezza e di ogni ricchezza. È chiuso nella sua fortezza e nei suoi abiti. Ogni giorno per lui è una festa, occasione per banchettare e fare incetta di cibo e di vita. Non sappiamo, almeno per ora, se sia un ricco giusto e fedele. 

E poi c’è un povero. È uno dei tanti. È uno di quelli che, in genere, non hanno un nome. I poveri non hanno mai un nome da ricordare, non hanno imprese da raccontare. I poveri e i rifiutati sono tutti uguali, confusi alla loro miseria. Come i profughi, gli stranieri e i malati sono numeri che non hanno voce, sono casi che non hanno storie, sono problemi che non hanno un nome. 

Egli ha fame ed è malato. Sta alla porta del ricco, davanti a quel limite che sancisce la distanza da lui. Quella porta oppone la loro esistenza, separa la loro storia, è il confine da rispettare. Sta lì, in attesa che cada qualcosa dalla tavola del ricco. Non chiede e non pretende, attende soltanto ciò che cade dalla tavola. È solo e sono i cani a fargli compagnia, animali impuri, che rendono più atroce il suo dolore e la sua solitudine. 

Questa è storia di sempre. È storia di porte e di muri che allargano la distanza, che chiudono i ricchi nel loro mondo, perché non vedano il povero e non ne siano turbati. È storia di ogni tempo, perché ci sono sempre i ricchi epuloni dentro e i poveri fuori, in attesa che qualcuno si degni di gettargli gli scarti, di usarli per smaltire i rifiuti. 

Ma questa storia che Gesù racconta è già diversa. Solo del povero egli ricorda il nome: si chiama Lazzaro. È un nome che porta e rivela Dio. Lazzaro, infatti, significa: Dio aiuta, Dio soccorre. Ed è un nome che sembra un inganno o, forse, un’ardita promessa. 

Questo nome scandisce tutta la storia, è ripetuto e conosciuto. Per questo dobbiamo ancora interrogarci e porre in questione il suo significato. Forse sta a noi svelare il mistero racchiuso, sta a noi aprire quella parola e renderla vera. Se il povero ha impressa nella sua identità la certezza che Dio aiuta e soccorre, siamo noi, credenti, a dover rendere vero quel Dio che nel nome è creduto, siamo noi a doverlo rivelare e manifestare. Se crediamo che Dio aiuta e soccorre il povero, ogni povero si chiama Lazzaro perché ad ogni povero dobbiamo mostrare, con la nostra cura e il nostro amore, che davvero Dio aiuta e soccorre.

Il ricco, invece, al contrario di ciò che avviene nel mondo e nelle cronache, non ha un nome, non ha un volto che lo distingua. Possiede tutto ma non ha ciò che lo rende unico e lo identifica, non ha ciò che lo rende umano.

Il racconto che Gesù fa delle vicende umane segue logiche altre e diverse dalle nostre. Il ricco non ha nome perché il nome ci rivela che siamo chiamati alla relazione e all’incontro con l’altro. Non serve un nome a chi resta chiuso nel suo patrimonio. Il ricco, quando resta rinchiuso dietro la porta, quando resta avvolto nelle vesti preziose che rendono impossibile ogni servizio, ha un nome che cade nel vuoto perché fa la fine delle sue ricchezze.

Lazzaro non ha una casa, resta lì, al confine, alla porta del ricco, davanti a quella barriera eretta a dividere la scena, a contrapporre le storie.

Lazzaro è lì, invisibile all’uomo ricco. Se l’occhio non vede il cuore può restare in pace, può ignorare la povertà che egli ha lasciato fuori, la fame che invoca le briciole, il dolore che invoca cura e consolazione.

Il ricco non è la causa diretta della povertà di Lazzaro, ma egli tiene chiusa la porta, si difende dalla sua presenza, ignora il suo volto e il suo nome.

Lazzaro non chiede di prendere il posto del ricco, non vuole livellare le storie, non vuole ribaltare la scena. Vuole soltanto partecipare, almeno un po’, degli avanzi di quella ricchezza, degli sprechi di quella vita, delle briciole di quel dispendio. Non è una scena di lotta di classe, di violente rivalse e rivendicazioni. È scena di ordinaria umanità. Quella che ogni giorno potremmo vedere se aprissimo le porte della nostra indifferenza, se abbassassimo i muri delle nostre difese, se smettessimo le vesti della nostra superiore superbia.

Siamo, anche noi, seduti dalla parte “giusta” della storia. E non è questo il problema. Il problema sono i Lazzaro che abbiamo lasciato fuori, ai quali abbiamo chiuso la porta, ai quali chiediamo ogni giorno di sedere ai piedi della nostra presunzione, alla porta della nostra superiorità, ai margini della nostra ricchezza, ai bordi del nostro potere.  

Quella del ricco e di Lazzaro sono due storie diverse, senza nessun legame. Senza parole o sguardi possibili che possano dar vita all’evento, che diano inizio a qualcosa di nuovo. 

C’è la porta a segnare la loro distanza, abisso e frattura che non sono colmati, lontananza eretta e sistema.

Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto (Lc 16, 22)

Un giorno è la morte ad aprire la porta. È la morte l’unico evento ad unire, per un solo istante, la sorte diversa del ricco e del povero Lazzaro. Verrà la morte e sarà la fine, verrà ad abbattere muri, a scardinare cancelli, ad aprire le porte restate chiuse. Verrà senza riguardo. E per un attimo il destino del ricco e di Lazzaro sono uniti dallo stesso evento, abbracciati dalla stessa sorte.

Eppure dura solo un istante, solo il tempo del respiro che chiude la vita. Perché quell’evento, che per un attimo ha eliminato ogni distanza, sancirà per sempre il profondo distacco, il fossato scavato a difesa, la distanza vissuta in vita.

Il ricco muore insieme al povero. È l’ingiustizia del comune morire, del fare tutti la stessa fine.

E poi la storia riprende. Il povero, recato in alto dagli angeli, è condotto nel seno di Abramo. Il ricco invece è sepolto in terra. 

La distanza vissuta in vita, quella che una porta aperta avrebbe annullato, la morte ora consacra e rende stabile come abisso invalicabile e frattura insanabile. 

Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”.
Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”
(Lc 16,23-26)

Il ricco solo ora vede Lazzaro per la prima volta. Solo ora lo vede, dopo averlo ignorato per tutta la vita. Lo vede ora che la morte ha ribaltato le cose, ha sovvertito le scelte, ha rovesciato le posizioni. 

Il ricco, però, non ha un Magnificat da cantare, perché Dio, che rovescia i potenti dai troni, disperde i superbi nei pensieri del loro cuore e rimanda i ricchi a mani vuote, lo ha trovato seduto dalla parte sbagliata della storia. E lo ha trovato seduto da solo mentre Lazzaro era fuori, gettato alla sua porta.

Il ricco, però, ha qualcosa da chiedere. Si rivolge ad Abramo chiamandolo padre, anche se di Abramo egli non ha compreso la fede, non ne ha imparato l’accoglienza ospitale, lo stile di pellegrino. Chiede poco, egli che ha avuto tanto. Chiede solo qualche goccia d’acqua. Ma la chiede dal suo cuore superbo, guardando a Lazzaro come a un servo. Il ricco vede Lazzaro ma come uno del quale servirsi. Nessuna parola a colmare la loro distanza, nessun segno che riapra la porta, che riduca l’abisso che egli in vita ha creato.

E, anche quella che sembra una preghiera è conferma di uno sguardo malato e disumano, che pensa al povero come a qualcuno di cui servirsi.

Abramo ricorda e invita il ricco a ricordare il passato e ricorda che Dio è rimasto fedele alle sue parole, al suo modo di ribaltare la storia, di capovolgere gli esiti umani. 

Sarebbe bastato, in vita, tenere aperta la porta, accogliere Lazzaro e la sua povertà, guardarlo in volto e chiamarlo per nome, farlo sedere alla stessa tavola. Ma ormai l’abisso è fissato, la distanza, creata in vita, è confermata.

E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”.  Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti” (Lc 16,31) 

Il ricco si preoccupa ora, per la prima volta, di qualcuno che non sia se stesso. Resta, però, chiuso, nella sua cerchia, quella dei ricchi suoi familiari. Non si preoccupa dei poveri Lazzaro che sono in vita, anzi chiede, ancora una volta, che sia usato Lazzaro, che sia mandato in quella casa nella quale prima non ha avuto accesso, perché la porta è restata chiusa. 

Bastano Mosè e i Profeti, basta la Scrittura per abbattere i muri, per scardinare le porte, per aprire lo sguardo e vedere il volto dei poveri, per accoglierli e farli sedere alla propria tavola. Basta Amos e gli altri con lui: “Canterellano al suono dell’arpa, come Davide improvvisano su strumenti musicali; bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati, ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano” (Am6,5-6).

La storia di Lazzaro, però, non è oppio per consolare i poveri e tenerli buoni. È invito rivolto a tutti a sedersi dalla parte giusta della storia, quella che non ha porte e non ha chiusure, ma accoglie e offre la propria presenza, il proprio servizio a chi è nel bisogno e non ha voce, a chi non ha vesti che attirano lo sguardo, a chi non ha un volto e una storia che susciti ammirazione. 

Ci vuole un ascolto che smuova il cuore. Ci vuole la conversione per credere alle parole che Dio ha pronunciato sulla storia umana. Ci vogliono non segni e prodigi, ma una fede sincera che veda nel volto del Crocifisso Risorto la parte giusta della storia, quella del servizio e dell’accoglienza, della condivisione e della cura, della compassione e della bontà. Bisogna scegliere di sedersi con lui dalla parte giusta della storia!

Liturgia della Parola

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