Imparare a dirigere il volto

XVIII Domenica Tempo Ordinario C (1 Re 19,16b.19-21; Gal 5,1.13-18; Lc 9,51-62)

Ci sono svolte in cui la fede è messa alla prova, è chiamata a reagire davanti agli eventi, è spinta a decidersi e a fare scelte. Credere, infatti, non è assentire e dire cose, ma muovere i passi su un cammino nuovo, restare per via e senza dimora, incontrare ostacoli e ostilità. Ed è allora che bisogna fermare lo sguardo sul volto del Cristo, per scoprire che è un volto orientato, che guarda fisso verso una meta, che indica, con fermezza e ostinazione, che la sequela sconvolge la vita, che ogni invio è congedo urgente, è decisione che spezza legami perché guarda avanti e guarda oltre. 

Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé.
Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme
(Lc 9,51-54)

Siamo ad una svolta del Vangelo secondo Luca. Gesù ha preso una decisione ferma e solenne, che per noi resta sempre un po’ oscura. Non sono più giorni qualsiasi. Stanno per compiersi i giorni della sua elevazione (rapimento, elevazione, salita, passione). Sono giorni che preparano il mistero centrale, quello in cui il Cristo verrà elevato in alto, perché in alto, a Gerusalemme, sarà innalzato sulla croce, per essere esaltato nella risurrezione e ascendere in alto nel cielo. Stanno per compiersi, quindi, i giorni dell’offerta suprema e Gesù, letteralmente, indurì il volto (in traduzione: prese la ferma decisione). 

È una questione di volto. Perché il volto è sempre rivolto, è sempre orientato verso qualcosa, è sempre proteso verso una meta. È il volto ad orientare il passo, a decidere il cammino, a rendere percorribile la strada. È l’avere il volto rivolto che permette ai piedi di mettersi in cammino. E Gesù indurisce il suo volto per mettersi in cammino verso Gerusalemme. Decide con fermezza il suo destino e la meta. Decide con forza la sua elevazione, ama e sceglie il suo esito. È un uomo determinato ad affrontare ciò che lo attende, perché è un uomo fedele a chi lo ha mandato, perché è un uomo fedele a coloro per i quali egli sarà innalzato. 

E allora egli manda messaggeri davanti al suo volto (“davanti a sé”). Manda cioè alcuni discepoli in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Il suo volto è preceduto da gente che prepara l’arrivo, che sonda il terreno, che verifica che nulla sia d’intralcio alla meta, che nulla rallenti il suo essere rivolto.

Ma i Samaritani non lo vogliono ricevere perché, letteralmente, il suo volto era in cammino verso Gerusalemme.

In greco leggiamo un tripudio del volto! Perché è l’essere rivolti il segreto di ogni cammino ed è la sfida lanciata a tutti. Restare con il volto rivolto per non perdere di vista la meta. I Samaritani non sono cattivi. Sono un po’ come noi e come tanti. Non possono accogliere Gesù perché non possono tollerare che il suo cammino sia rivolto a Gerusalemme, che Dio abbia proprio quello come disegno. Essi pensano di sapere dove debba essere rivolto il volto del Messia e anche a noi fa problema un Messia sofferente, che va a morire fuori dalle mura della Città Santa. 

Luca intesse questa storia con elementi che ci fanno intendere che non si può accogliere il Cristo senza accogliere il piano di Dio, senza accettare che sia un Messia che si offre, che non ha casa o rifugio, potenze e domini, ma solo una morte che suggella il potere, solo l’oltraggio che conferma il suo nome, solo una condanna a rivelare il suo volto.

E noi discepoli, se vogliamo preparare l’ingresso del Cristo nei nostri villaggi a lui chiusi e ostili, non possiamo fare altro che ricordare a tutti che il Cristo ha il volto rivolto a Gerusalemme, perché per questo egli è venuto, per servire e dare la vita, per amarci e donare se stesso. 

Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò. E si misero in cammino verso un altro villaggio (Lc 9, 54-56)

La reazione di Giacomo e di Giovanni è seria e sincera. È la reazione di quelli che hanno forza e zelo, perché sentono di avere un compito che nessuno ha loro dato: difendere Dio. E in questo modo, però, nascondono il volto del Figlio dell’uomo, lo sostituiscono con i propri volti.

Certo, già Elia aveva fatto piovere fuoco dal cielo per rivelare la forza di Dio. Ma ora è tempo di un fuoco diverso. Ora è tempo di una strada nuova. Gesù, quindi, si volta verso i discepoli e li rimprovera. La via sulla quale cammina, la meta verso la quale è rivolto, il progetto che sta per compiersi non si attua per forza e dominio, non si impone con violenza e costrizione. Dio ha scelto la via della debolezza, ha deciso di camminare nel mondo rendendo viva la via del fallimento, rendendo salvifica la via della finitezza, rendendo feconda la via della sofferenza.

Ed è così che il cammino può riprendere. Restare per via è il senso del nostro credere, l’instabilità del nostro fidarci, la costante del nostro affidarci.

Si mettono in cammino per un altro villaggio perché, se è vero che Gesù tollera il rifiuto degli uomini e soffre per la loro chiusura, è anche vero che nessuna chiusura e nessun rifiuto può impedire a lui di continuare il cammino, di restare su quella strada, di continuare su quella via che conduce lì dove il suo volto è rivolto. Perché proprio lì, dove tutto sembra finire, il suo volto guarda ancora al futuro, riapre sentieri che sembravano chiusi, apre strade che attraversano notti, perché quel volto, reso indurito, spacca la morte e ogni sepolcro e fa vedere che Dio ha la forza della debolezza, ha la potenza di un amore ferito, ha la vita di una morte subita.

Ed è singolare che i due discepoli e i Samaritani siano coinvolti allo stesso modo. Non capiscono il perché di quel volto rivolto, di quella decisione di andare a Gerusalemme e di farlo senza zelo e violenza, di farlo senza forza e potere. 

Bisogna quindi apprendere l’arte di restare aperti ad un Maestro che conosce la strada ed è proprio quella che più rifiutiamo, è quella che ci provoca ripulsa e sdegno. Bisogna apprendere anche l’arte di accettare di essere respinti, di essere derisi e trattati male, conservando nel cuore il coraggio e l’amore, la voglia di non cedere al l’odio e al rancore.Ed il cammino continua perché la via è l’unica casa.

Mentre camminavano per la strada, un tale gli disse: «Ti seguirò dovunque tu vada». E Gesù gli rispose: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (Lc 9,57-58)

Ritornano tutti in cammino. Perché i messaggeri che corrono avanti, devono poi rimettersi dietro, continuare a seguire il Maestro, lasciare che sia lui a indicare la via. Ci sono momenti in cui la corsa in avanti serve a preparare l’ingresso, ma poi la rinuncia alla forza e al potere impone di riprendere il proprio posto, l’unico che ci è consentito, quello dietro al Maestro, lungo la via tortuosa e difficile. 

Ed è mentre sono in cammino che nascono incontri e nuove attese, domande e slanci improvvisi, problemi e incertezze.

C’è lo slancio di mettersi in gioco, di seguire il Maestro ovunque egli vada. È un’iniziativa che parte da dentro, un’urgenza che smuove la vita. Ma non bisogna farsi illusioni, non si può avanzare pretese: se tutto nel mondo ha una tana e un nido, il Figlio dell’uomo, invece, non ha dove posare il capo. È un viandante senza sosta e riparo, senza un nido accogliente che lo sostenga nella fatica, senza una tana in cui rifugiarsi quando il pericolo e il dolore si fanno sentire. La sua è vita vissuta per strada, è una sorte che non è sicura. Credere è restare in cammino, senza illudersi di essere a casa, senza commerciare un posto cu cui posare il capo, senza agitarsi e andare in crisi quando il mondo si fa ostile e inospitale.

Credere è sapere di non avere sicurezze e certezze mondane, è accogliere, con amore e perdono, di non avere accoglienza e riparo proprio perché si è in cammino dietro colui a cui il mondo non offre accoglienza. E il capo del Figlio dell’uomo avrà un solo luogo su cui posarsi, sarà la croce e il sepolcro, sarà l’odio e il rifiuto, sarà la morte e la condanna. E a noi, che ne seguiamo le orme, resta solo il suo petto su cui riposare, su cui riprendere fiato quando ci manca il respiro e la speranza sembra mancare.

È inutile, allora, cercare alleanze, strategie di sopravvivenza, espedienti per mascherare la cosa: seguirlo è un viaggio duro e quando ci sembra che tutto sia semplice e reso accogliente è solo perché, forse, abbiamo sbagliato la strada.

A un altro disse: «Seguimi». E costui rispose: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». Gli replicò: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio» (Lc 9, 59-60)

Per restare in cammino dietro a quel volto rivolto a Gerusalemme, ci vogliono rotture e rinunce, ci vuole una scelta che sia decisa, che sappia, cioè, lasciarsi la morte alle spalle, per inseguire la vita che, paradosso tremendo, nasce quando si è decisi ad affrontare la salita dura e difficile a Gerusalemme.

È inutile seppellire i morti, tentare di sistemare le cose, di lasciare a posto ciò che rimane. Bisogna quindi rompere con tutti gli ordini che ci siamo dati per sostenere il peso di tutte le morti, bisogna rompere anche con quei doveri che sono il segno di rassegnate finzioni, di dolcezze che non reggono il peso con l’urto del vivere e del morire. Bisogna, invece, andare oltre e sempre più altrove per annunciare il regno di Dio. Bisogna annunciare il regno e imparare a danzare la vita vera che va oltre le morti, che cancella i nostri sepolcri, che trasforma le tombe in aurore di vita. Bisogna andare altrove per annunciare che questo mondo può andare oltre se stesso e uscire dalle sue morti.

Lasciare che i morti seppelliscano i morti, allora, significa annunciare ovunque e sempre che il regno di vita spalanca i sepolcri, rompe le pietre che ci siamo inventati per tutelare le nostre morti. E se vogliamo che la realtà tutta esca fuori dalla sua dimensione di morte, dobbiamo essere noi ad andare oltre per annunciare che il regno è per sempre e per tutti perché è annuncio di vita nuova.

Un altro disse: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio» (Lc 9,61-62)

Seguire il Signore non è una cosa tra le altre cose, è dare un indirizzo radicale al proprio cammino, è prendere congedo dal proprio mondo per abitarlo in maniera radicalmente nuova. Non si può seguire il Signore, essere credenti e cristiani, portandosi appresso il proprio mondo, conservandolo intatto. Bisogna mettere mano all’aratro e lasciare che scavi solchi profondi nella nostra vita, che prepari il tempo della fioritura. Ma non si può arare la terra con lo sguardo rivolto all’indietro, non si può fermarsi a rimirare il cammino e il lavoro già fatto. Senza rimpianti, bisogna guardare avanti, al lavoro che resta da compiere, alla strada che resta da fare.

Luca ripropone in maniera radicale e diversa le esperienze che furono già di Elia ed Eliseo. Ma con Gesù tutto è diverso, perché è giunto al compimento. E non ci resta che volgere il nostro volto al suo, guardare con lui a Gerusalemme, a quel monte e a quella croce su cui il volto di Cristo, elevato sul mondo, rivela ai nostri volti la sua bellezza. Solo se i nostri volti rimangano fissi e rivolti a lui sapremo vivere su questa terra senza invocare castighi e giudizi, senza rifugiarci in tane e nidi, senza cercare compromessi e finzioni, senza indugiare in ricordi e rimpianti.

Seguire il Maestro è preparare il suo arrivo, è testimoniarlo lì dove incontriamo il rifiuto, è lavorare per lui e il suo regno guardando ancora al lavoro che resta da fare. Solo così, restando nel mondo, resteremo col volto rivolto al suo e scopriremo che la via del cristiano è via tortuosa e difficile, ma è l’unica che offre un riposo sicuro, il petto del Figlio dell’uomo, quel petto che ha vinto la morte e che fa germogliare, in ogni solco arato, la vita bella e nuova del Vangelo. 

Liturgia della Parola

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