Moltiplicare la vita

Santissimo Corpo e Sangue di Cristo (Gen 14,18-20; 1Cor 11,23-26; Lc 9,11b-17)

(Per approfondire la prima lettura e la figura di Melchisedek puoi consultare qui alcune pagine del mio libro)

Celebrare la festa del Corpo e Sangue di Cristo è fermarsi ancora nel cuore della Pasqua per lasciare che l’evento che ha segnato la storia tocchi e risani il tempo ordinario del vivere.

Il pane e il vino, segni di vita e di lavoro, di ciò che serve ed essenziale, segni di festa e di condivisione, di amore e di gioia, diventano, nell’Ultima Cena, il segno grande di un amore supremo, di un amore totale, di un amore divino che si spezza e si spende nelle nostre storie umane.

E non c’è più opposizione tra il rito e la vita. 

Perché l’Eucaristia è rito nel quale è la vita ad essere in gioco, in uno scambio di offerta ed accoglienza. 

La nostra vita è messa nelle mani divine perché avvenga un prodigio nuovo e il nostro poco che sa di niente accolga il tutto e sia reso divino. Non c’è rito se non c’è il sangue e la vita, se non si diventa parte di questo mistero, di questo gesto che innerva e arricchisce la storia di nuovi sensi e nuovi futuri, di nuova presenza e di nuovo stile. 

L’Eucaristia prende in mano la vita e le dà forma, le dà un senso e una direzione, la orienta verso vette d’amore. Prende la vita umana e la fa diventare vita cristiana, resa viva dalla vita del Cristo, animata dal suo stesso sangue, alimentata dal suo corpo glorioso.

È per questo che l’Eucaristia non è un gesto posto accanto e ai margini della vita, ma è un rito che è posto nel cuore e nel centro di ogni vita perché si compia la sua moltiplicazione, perché sia possibile la condivisione, l’offerta di un dono che è senza misura.

Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta» (Lc 9,12)

Il Vangelo ci presenta la scena di una folla immensa che, in zona deserta, ha seguito il Maestro per ascoltarne la voce e accogliere i suoi gesti di cura. È nel deserto che avviene ciò che è essenziale. Alla proposta dei Dodici, di lasciar andare la gente, perché il deserto non è luogo in cui vivere, non è posto in cui mangiare e alloggiare, Gesù risponde con convinzione. 

«Voi stessi date loro da mangiare» (Lc9,13a)

È gioco facile vedere i bisogni degli altri, intuirne le voglie e le aspirazioni. È facile fare i sociologi, prevedere l’andazzo e la fame crescente. Gesù, però, impone uno stile diverso, un modo nuovo di leggere i segni che il tempo presenta, uno sguardo nuovo per rispondere a ciò che vediamo. La gente ha bisogno di cibo, ha bisogno cioè di qualcosa che la renda viva, che la mantenga in piedi. E sono i discepoli a dover dar da mangiare. Gesù segna qui l’inizio di un tempo diverso, quello della comunità, di una Chiesa che sa di famiglia, che ha a cuore la sorte di tutti. Non possiamo abbandonare gli altri quando hanno fame, quando hanno esigenze che sono vitali. Non possiamo rimandarli a se stessi, lasciarli soli nella loro inquieta fame.

Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente». C’erano infatti circa cinquemila uomini (Lc 9,13b-14)

La risposta dei discepoli è semplice e ingenua. Essi sanno di avere poco, di contare soltanto su cinque pani e due pesci. Non hanno forze per soddisfare la fame, non hanno risorse per provvedere alla vita. Hanno nulla rispetto ai bisogni, rispetto alla fame di vita che incalza. E pensano che, se proprio tocca a loro sfamare la folla, l’unica cosa che possono fare è andare a comprare viveri. E sembra ancora di sentire oggi la loro voce, in tanti che davanti alla fame che stringe la vita hanno come sola risposta la voglia di commerciare. Ci illudiamo ancora di fare baratti, di cedere qualcosa per sembrare buoni, di risolvere tutto con tecniche e strategie mondane. E, a volte, annunciamo un Dio che si è fatto commercio, un Dio tecnico che, usando saperi e metodi umani, si mette a servizio della fame dell’uomo, come fosse un consulente qualsiasi, che, al massimo, può indicarci il miglior offerente, il modo migliore per scambiare beni.

E invece no! La scena e la storia sono diversi. Non si tratta di fare commercio di ciò che serve per vivere, di procurare il pane cedendo qualcosa, di avere vita e certezza progettando espedienti e astuzie umane. 

È Gesù che prende l’iniziativa. Lo fa a suo modo e a sua misura. Perché se è vero che sono i discepoli che devono dar da mangiare alla folla, è solo lui che può moltiplicare la poca vita che sappiamo offrirli, il poco bene che sappiamo condividere. E in quel gesto l’umano è reso divino e il divino si dona all’umano. E bastano pochi pani e pochi pesci perché sia saziata la fame di tutti, perché avanzi e sopravanzi la vita. 

Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla.
Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste
(Lc 9, 16-17)

Sono gesti che conosciamo. In quei gesti Gesù ha suggellato la sua missione, ha reso esplicita la sua passione, ha dato parola e forma alla sua morte. Sono gesti che legano la vita al rito e il rito alla vita. Perché in quei gesti rituali è la sua vita che viene presa e viene spezzata. 

E i discepoli sono lì, come la Chiesa, come noi, ad affidare a lui quel poco che siamo, ad essere con lui in quel gesto che è suo ed è nostro, perché da lui abbiamo imparato che la vita si moltiplica solo quando è spezzata e condivisa, perché il nostro poco diventa tutto solo quando sappiamo metterlo nelle sue mani per il bene e la vita di tutti. E da lui potremo riprenderlo per donarlo e saziare la fame di ognuno.

Fratelli, io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me».
Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me»
(1Cor 11,23-25)

E anche noi continuiamo a ricevere, in quei gesti della notte del tradimento, un pane e un vino, il corpo e il sangue, il dono di tutta una vita. Ed è di quel gesto che occorre fare memoria perché facendo ciò che egli ha fatto, ripetendolo ancora oggi nel rito, sia possibile fare nella nostra vita ciò che egli ha fatto nella sua morte. Il suo corpo è per noi, il suo sangue è la Nuova Alleanza, perché tra noi e Dio c’è ora un patto suggellato dal sangue, dalla vita di Dio che riempie la nostra, dal suo stile divino che è reso possibile. 

L’Eucaristia è accogliere Dio nella nostra vita, accoglierlo con il suo stile e il suo desiderio, con il suo amore e il suo gesto supremo, accoglierlo perché sia lui ad assimilarci, a rendere la nostra vita simile alla sua, perché tutto in noi diventi memoria sua, annuncio e ricordo della sua presenza, testimonianza e visione del suo dono e del suo amore.

Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga (1Cor 11,26)

Mangiare il pane e bere al calice è annunciare la morte del Signore! Annunciarla come l’inizio di un tempo nuovo, come quel dono che non ha eguali. Ed è per questo che non serve commerciare la vita e il consenso, commerciare i bisogni e i desideri. È la morte del Signore che va annunciata, perché è lì che la nostra fame trova il cibo del quale saziarsi. E questa vita, che è sempre un esodo, un sostare in mezzo al deserto, non ha altro bene e non ha altro cibo. Non ha altri amori da condividere, non ha altre ricchezze da contrabbandare. Abbiamo soltanto un poco di vita che ci è rimasta, ed è proprio quella che, messa in mani divine, può essere spezzata e condivisa, perché la nostra vita, resa eucaristica, compia l’opera che il Cristo ha iniziato. 

E nel culto non c’è contrapposizione tra Dio e l’uomo, perché ogni Eucaristia è sempre benedizione dell’uomo e di Dio (cf. prima lettura). Nell’Eucaristia, infatti, la vita, messa e offerta nelle mani di Dio, è moltiplicata e resa viva, è ridonata e resa divina, è pane spezzato che sovrabbonda, è cibo spezzato perché ogni uomo sia amato e sfamato. In ogni Eucaristia, quindi, la nostra piccola vita, messa nelle mani divine, ci viene restituita per diventare offerta agli uomini perché in noi egli ha scelto di donare agli altri se stesso.

E anche oggi, davanti alle folle che hanno fame di vita e di senso, di pane e di parole, di bene e di calore, egli continua a dirci: date voi stessi da mangiare. E dando noi stessi impareremo a dare lui, a consegnare nella nostra la sua vita, nel nostro il suo amore. E tutti potranno mangiare e ci saranno ceste da condividere, vita in sovrabbondanza da spezzare e donare ancora. 

Per un approfondimento sulla figura di Melchisedek, protagonista, insieme ad Abramo, nella prima lettura, puoi consultare qui alcune pagine del mio libro

Per ulteriori riflessioni sul Corpus Domini, è disponibile il commento dell’anno B

Liturgia della Parola

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