Un puledro per scendere

Domenica delle Palme, Passione del Signore C (Lc 19,28-40; Is 50,4-7; Fil 2,6-11; Lc 22,14-23,56)

Siamo giunti alla Domenica delle Palme, il portale che ci introduce nella Grande Settimana, nei giorni della creazione del mondo nuovo, in cui celebriamo la nostra nascita. Essere credenti, infatti, è sentire e sapere che ogni storia e vicenda ha inizio da qui e qui conduce, perché essere cristiani è vivere, sulla propria carne, l’assurdo e l’indicibile che in questi giorni si è fatto spettacolo. Luca, infatti, così definisce ciò che avviene sulla croce: “Così pure tutta la folla che era venuta a vedere questo spettacolo…” (Lc 23,48).

Dio si è fatto spettacolo!  Ma per vederlo ci vogliono occhi che sappiano sopportare la notte, orecchie che sappiano accogliere il pianto e le grida. 

Sono i giorni in cui il sole si eclissa e il buio ha la meglio. Sono le ore in cui le tenebre si affermano con il loro potere. Sono giorni indicibili e difficili. E sono giorni sempre attuali.

In questi giorni, che sono santi, dobbiamo entrare come fosse la prima volta. Per restare meravigliati e incerti davanti allo spettacolo del Figlio di Dio che affronta l’esilio, che soffre la lontananza e l’abbandono del Padre, che penetra fin dentro la morte abbracciandola e facendola sua. 

Eppure, nonostante l’abitudine, restare in questi giorni santi ci costa fatica. Ci è chiesta fede e coraggio per assistere alla rottura di ogni idolo e proiezione umana. Ci è chiesta forza per credere ad un Dio che svuota se stesso e assume l’aspetto e la vita del servo.

È difficile per noi, che invochiamo salvezza e futuro, che imploriamo vita e ristoro, contemplare il volto del Figlio di Dio che non salva se stesso e non salva gli uomini inchiodati alle tante croci diffuse nel mondo. E nemmeno il Padre salva quell’uomo inchiodato alla croce, non pronuncia parole in suo favore, non dispiega le sue forze celesti per schiodare suo Figlio e fare giustizia.  

Ci vuole coraggio per smetterla di vivere i giorni pasquali come fossero una favola a lieto fine, come fosse un passaggio veloce in attesa della risurrezione. La passione di Cristo e la vita cristiana non sono una semplice storia a lieto fine. La croce non è una fase di transizione, non è semplice scena che prepara la parte migliore.

I giorni pasquali sono il dramma di un Dio che ama e sono anche il dramma e la lotta di tutti i credenti che si trovano davanti, come loro unico Dio, il volto ferito e sfregiato di un condannato a morte. In questi giorni, si pone, davanti al nostro sguardo, il volto di un Dio compromesso, un Dio che si sporca con il fango umano, che si lascia invischiare nel male e nella morte.

Ed è in questi giorni che bisogna sostare, fermi e in silenzio davanti al mistero. 

E sebbene giungerà l’alba della Pasqua, dobbiamo tenere a mente che la risurrezione non cancella tutto questo, semmai, lo rende vero e perenne, certo ed eterno. 

La passione di Cristo non è semplice passaggio, ma dono totale e irreversibile, che brucia sulla faccia di ogni credente, perché ci impedisce di voltarci dall’altra parte, di sfuggire a quello spettacolo in cui Dio soffre e muore solo tra due condannati, tra due ladroni presi tra i tanti.

La passione è scena sofferta e non possiamo affrontarla con piglio di chi sa già la fine, di chi sa andare oltre.

E anche quest’anno, ancora di più, è proprio nella passione che dobbiamo restare. Alla croce ci siamo abituati, l’abbiamo resa comoda e quasi attraente. L’abbiamo svuotata di tutto il suo dramma, resa inerme e quasi indolore. Eppure è ancora lì che dobbiamo fermarci, a quel trono che gronda di sangue. Lo sappiamo, tutti i troni sono sporchi di sangue, tutti i poteri si alimentano del sangue di gente oppressa ed estenuata. Ma il trono del nostro Re è imporporato di sangue diverso, perché il nostro è un Re che non chiede il sangue ma lo versa, non chiede la vita ma la dona, non dà la morte ma la riceve. 

Siamo discepoli di un condannato a morte, di un uomo abbandonato, trattato come un criminale. Ed è in quest’uomo che vediamo il volto di Dio, che leggiamo il suo volere, che scopriamo il suo potere. 

Che Dio è quello che scende nel nostro male, si sporca con il nostro dolore, resta sconfitto dalle nostre giustizie, si fa inchiodare dalle nostre paure, si fa uccidere dal nostro potere? 

Che Dio è quello che sceglie la via dell’umiliazione, del servizio fino al dono supremo, della spoliazione che fa vedere che Dio è un corpo nudo come quello di un verme, esposto e offerto alla vista di tutti?

È questo lo spettacolo di questi giorni. 

Di questi giorni pasquali e di questi giorni di guerra. Ma questa terra non ha mai conosciuto giorni che non siano di guerra, di oppressione di innocenti, di dolore ingiusto, di fame e di morte. È dalla creazione dell’uomo che la terra è ricoperta e impregnata di sangue. E quel sangue, oggi, a volte non grida più. Ha perso persino la voce. Solo il silenzio rimane. E il sussulto di un respiro che ancora resiste, che ancora grida non il proprio dolore, ma il dolore per ogni uomo che continua a ferire e a moltiplicare il dolore. Perdona loro, dice il Crocifisso, perdona loro sembra che dica la stessa terra. Perdona noi, perché ancora non sappiamo cosa dobbiamo fare, perché non capiamo cosa facciamo. 

L’entrata trionfale di Gesù a Gerusalemme, l’ingresso regale nella Città santa, per Luca, è un ingresso che si celebra alla periferia, fuori dalla città, lontano dal trambusto dove i poteri, opposti e simili, giocano a darsi supporto. L’ingresso è regale e messianico, è quello atteso da secoli. Il Re Messia avanza per prendere possesso del regno e dare inizio ad un tempo nuovo.

«Andate nel villaggio di fronte; entrando, troverete un puledro legato, sul quale non è mai salito nessuno. Slegatelo e conducetelo qui. E se qualcuno vi domanda: “Perché lo slegate?”, risponderete così: “Il Signore ne ha bisogno”».

Tutto ha inizio con questa richiesta. Il Signore ha bisogno di un puledro slegato sul quale nessuno sia mai salito. È un puledro giovane che non conosce il peso di chi si sente padrone, il giogo di chi è sempre al comando. È un puledro che non conosce quanto pesi il potere, quanto pesino gli apparati e le forze di chi ha bisogno di ostentare potenza per coprire la propria debolezza.

È un puledro in attesa da sempre che qualcuno lo richieda e lo sleghi. È lì che aspetta che qualcuno ne abbia bisogno.

Bisogna slegare un modo nuovo di essere re, un modo nuovo di essere Dio, un modo nuovo di esercitare il potere, un modo nuovo di essere uomini. Bisogna slegare un modo nuovo, che nessuno vorrebbe mai, di far avanzare il Messia, di farlo conoscere e acclamare. Ed egli ha bisogno di vite slegate che permettano a lui di scendere ancora nella storia umana. 

Quel puledro siamo io e te, siamo la Chiesa, siamo ogni uomo e ogni donna che si lascia invischiare in questa storia. Egli ne ha bisogno per avanzare tra le nostre case, per scendere lì dove noi fatichiamo a rialzarci, per farsi presente lì dove il sole sembra eclissarsi. 

Era ormai vicino alla discesa del monte degli Ulivi, quando tutta la folla dei discepoli, pieni di gioia, cominciò a lodare Dio a gran voce per tutti i prodigi che avevano veduto, dicendo:
«Benedetto colui che viene,
il re, nel nome del Signore.
Pace in cielo
e gloria nel più alto dei cieli!».
Alcuni farisei tra la folla gli dissero: «Maestro, rimprovera i tuoi discepoli». Ma egli rispose: «Io vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre»
(Lc 19,37-40)

L’ingresso trionfale, quello solenne con palme e ulivi, è in realtà una profonda discesa, un calarsi nella storia e nel dramma. Luca, infatti, pone la scena lungo la discesa dal monte degli ulivi. Non siamo in città. 

E l’immagine fa pensare alla Gloria divina che entra ed esce da Gerusalemme da quel monte, che è luogo di sosta e di ripartenza. Da quel luogo che raccoglierà il sudore di sangue di Colui che lì, nelle tenebre dell’ultima notte, farà i conti con il volere del Padre, con l’asprezza di un calice che raccoglie il dolore del mondo. Sarà lì, su quel monte, prima ancora del Calvario, che la vita del Cristo sarà stretta e macinata, sarà frantumata per farsi olio che cura ferite, balsamo che profuma la vita, sangue che feconda la terra.

La discesa a Gerusalemme è segno e cifra del suo discendere nella morte, del suo farsi strada fra gli inferi, del suo strisciare dentro le nostre strade, nelle nostre trincee, nei nostri rifugi. 

I giorni pasquali sono giorni attuali, sono quotidiana avventura di un Dio che ha bisogno di noi, che ci chiede di slegarci da ogni compromesso, da ogni possesso, da ogni dominio che non sia scendere, inabissarci con lui negli abissi delle storie e del cuore umano. Egli ne ha bisogno perché il suo avanzare faccia conoscere modi nuovi di relazionarsi, renda evidenti nuove possibilità di essere grandi.

“Grideranno le pietre” e ancora gridano pietre imbrattate di sangue, cumuli di rovine a invocare salvezza e perdono. A ricordare che la pace resta un dono possibile, che serve diventare puledri da nessuno mai cavalcati, che serve slegare possibilità di servizio umile, di dono coraggioso e imprudente. La pace avanza se prestiamo il dorso e la vita al Re della pace, perché scenda tra le nostre rovine, perché si faccia sangue e lacrime nei quali si riveli il perdono.

E a gridare saranno le pietre, uomini e donne improbabili, come il cireneo e il ladrone, il centurione e le donne. E anche Pietro che non potrà gridare la sua fedeltà, ma soltanto piangere il suo essere pietra franata e crollata.

E mentre i re del mondo continuano a far morire e a mandare a morte, Dio è l’unico che ha voluto morire perché nessuno morisse invano, perché nessuno restasse solo nella sua morte. E davanti alle morti di oggi e di ogni giorno, si intravvede lo spettacolo della croce, la presenza silente e in agonia di un Dio che muore, sporcandosi con il male del mondo.

E fuori dalla Città santa, il Re continua a scendere, lui che si era messo davanti a tutti per guidare quel corteo improbabile che, alla fine, lo lascerà da solo a sfidare i potenti di turno, le logiche umane di tutti i tempi.

Non si può stravolgere il racconto di Luca. La festa e la gloria dura il tempo di una veloce discesa. Gesù non entra in corteo festoso a Gerusalemme e alla vista della Città non si odono più inni di gloria e cessa il fruscio dei rami in festa. 

Si ode soltanto il sussulto di un pianto divino. Il Re piange sulla città perché vede che essa non sa conoscere il tempo in cui è visitata, la pace che le è stata donata. E quel pianto divino è pianto di ogni bambino, di tutte le madri e di ogni padre. È pianto di donne e di uomini, è pianto di tutta la terra.

Piange su Gerusalemme e continua a piangere sulle città distrutte e assediate, sulle città preda di deliri folli e di poteri che non sanno servire. Piange per noi perché non sappiamo riconoscere la via che porta alla pace, ciò che la rende fattibile, ciò che la dona e la fa familiare.

Tu scendi nella Città Santa
per rendere santa tutta la terra
per dare inizio al tuo regno di pace.
E chiedi ancora, oggi anche a noi,
di slegare un puledro,
un asino giovane che porti il peso del Regno.
Donaci di slegare il nostro essere Chiesa,
che reca nel mondo la tua presenza.
Ricordaci di essere asino
utile solo perché buono a servire.
Ricordaci di essere umili:
fieri soltanto di essere servi.
Donaci di scalciare con forza 
quando altri tentano di salirci in groppa.
Fa’ che quest’asino 
di nessun altro sia servo 
e a nessun altro offra il suo dorso.
Donaci di prendere il dolce tuo peso
perché tu prenda possesso del regno
e il mondo e la storia ricevano pace.
E allora aiutaci in questi giorni santi
a conoscere i luoghi delle nostre passioni,
a vivere i gesti del nostro spezzarci,
ad essere con te profumo inebriante
che rende vivo, nel tempo del mondo,
il tuo ineffabile spreco d’amore.
Solo così potremo anche noi
rendere sante le settimane del mondo,
spezzare la vita perché abbia senso la morte,
inondare la terra del profumo di Pasqua.

Liturgia della Parola

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