Le sventure si fanno Vangelo

III Domenica di Quaresima C (Es 3,1-8a.13-15; 1Cor 10,1-6.10-12; Lc 13,1-9))

La cronaca di sofferenza, dolore e morte trova ampio spazio in questo tempo. Prima la pandemia e ora la guerra, morte su morte, dolore su dolore, male su male.

Le sventure, di ieri e di oggi, le tragiche morti e il dolore ci stanno sempre davanti agli occhi e chiedono di diventare Vangelo, di non essere sprecate, di farsi segno e annuncio perché il tempo, per ciascuno di noi, non scorra invano.

Il dolore, quello causato dalla violenza umana e quello provocato da ciò che non è in nostro potere, si fa monito e avvertimento, si fa richiamo e invito. Si fa grido che si leva a Dio e diventa grido e presenza di Dio nella storia umana.

Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze» (Es 3,7)

Dio si rivela a Mosè perché ha ascoltato il grido di dolore, il lamento che sale dal mondo, ha udito gli oppressi che urlano e imprecano. È vero, gli uomini che urlano e gridano non sempre pregano, ma Dio sempre li ascolta, ascolta le loro grida e il suo ascolto fa diventare preghiera ogni pianto che sale da questa terra maledetta eppure amata, irrorata di sangue e bagnata di lacrime. Dio ascolta ogni grido e lo trasforma in preghiera. E lì, scende e si fa presente, come fuoco che brucia, passione che arde, presenza che rinnova e crea il futuro.

Mosè non può avvicinarsi al Roveto, perché Dio e il dolore non sono uno spettacolo da ammirare, qualcosa che bisogna studiare, un problema da risolvere. Mosè nel mistero di Dio e del grido umano ci deve entrare. Deve lasciarsi coinvolgere in quelle grida che dicono il male dell’uomo e invocano Dio. E quelle grida umane diventano anche grido di Dio che invoca l’uomo, che lo sveglia e lo mette in cammino.  

«Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subìto tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo» (Lc 13, 2-5)

Vanno da Gesù per riferirgli un fatto violento. Pilato ha ucciso, in un luogo sacro, alcuni fedeli e ha unito il loro sangue a quello dei sacrifici che stavano per compiere. È violenza che conosciamo: il sopruso del più forte, l’abuso del potere, la guerra che si fa strada e usa tutto, persino il tempio, come palcoscenico su cui esibirsi, come teatro in cui narrare le proprie gesta.

È un evento che interroga, che pone problemi, che fa sorgere dubbi e mille domande. 

E, come se non fosse abbastanza, Gesù cita un altro evento che ricorda che la morte odiosa, quella violenta e imprevista, non giunge solo per mano dell’uomo e della sua cattiveria. È come se il mondo avesse mani nascoste, fenomeni naturali e fatti casuali, che provocano morte e violenze. 

Perché questo accade? Perché proprio a loro? E Dio che fa? È forse l’esito del loro peccato, il castigo per la loro colpa?

Sono domande che fanno teoria, che fanno litigare i cristiani e i teologi. Sono domande che non colgono il cuore di ciò che accade, che spingono fuori dalla storia, la sterilizzano e anestetizzano. A volte sembra che queste discussioni sui fatti e su Dio servano solo a volgere lo sguardo altrove, a non sentire lo scotto di quelle morti, a non provare il loro dolore. Ci sembra più facile metterci a discutere per salvare Dio e farlo entrare nella logica umana. Ci sembra facile dividerci e giudicare le vicende e le tragedie come se fossero cose che non ci riguardano, realtà che non ci toccano, eventi che non ci chiamano in causa. 

Gesù, invece, ci spinge oltre. Si sottrae alle domande nascoste, al desiderio di mettere a posto le cose, di fare di Dio una certezza, di scrivere una teologia corretta che ci metta al riparo e nasconda la vita.

Gesù, davanti a quelle vicende, non propone teorie e non risolve la questione di tutte, quella di Dio e del dolore umano, quella del Padre e dei figli innocenti. Anche Gesù su questo, preferisce tacere. Su questo tema ogni parola è solo finzione, è sacrilegio che corrompe la vita e imbratta il volto di Dio e quello dell’uomo.

Gesù non elimina l’ostacolo, non risolve il problema, non offre interpretazioni autentiche. Perché a nulla serve una fede che sappia dire di Dio a tavolino, che salvi tutto senza cambiare e, quindi, salvare il cuore dell’uomo. Gesù, poi, sa che una morte violenta attende anche lui, sa che anche lui farà la fine dei maledetti, di quelli che Dio sembra aver rifiutato. 

E allora davanti alla cronaca che assale la vita, alle domande che pongono i fatti, Gesù ribalta ogni schema.

No, quelli che Pilato ha ucciso, quelli che sono morti sotto la torre, quelli morti nella pandemia, quelli uccisi perché sono in guerra e tutti i morti prima del tempo non sono i più peccatori e i più colpevoli. Non sono morti perché lo meritavano. Non serve indagare, andare indietro nel tempo e nella storia, per cercare il più colpevole.

La cronaca, quella dei fatti raccontati nel vangelo e quella che scorre sotto i nostri occhi, non è fatta per diventare spettacolo, la guerra e la morte non sono palcoscenico che ci consente di restarne fuori. Dobbiamo entrarci dentro, per sentire che anche noi facciamo parte di questa storia.

Gesù non offre, davanti a quelle morti, parole che ci consolano e che ci assolvono, risposte che mettano il cuore in pace, che indichino una ragione che ci faccia sentire migliori. No, non siamo fuori pericolo! Nessuno lo è! Il non subire tragedie, il poter fare da spettatori al massacro degli altri, il fatto che non sia capitato a noi non ci rende migliori, non ci fa sentire più a posto, non ci mette il cuore in pace. Anzi, come dice san Paolo, proprio il fatto che non sia toccato a noi, ci deve mettere in guardia, perché chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere (1Cor 10,12). Non possiamo sentirci a posto, non possiamo ridurre la vita credente a superstizione e a salvagente. Dobbiamo stare attenti!

È inutile andare alla ricerca dei peccati degli altri, delle colpe che giustifichino il male subito, che lo rendano più ragionevole, che normalizzino la violenza di questa vita.

Quegli uomini pensavano al peccato degli altri, Gesù li rimanda al proprio. Avevano gli occhi intenti a scrutare il motivo della sventura, Gesù spinge il loro sguardo a a interrogare il proprio presente, a preparare il proprio futuro.

Gesù riorienta lo sguardo e l’attenzione. E allora queste storie drammatiche si fanno per noi annuncio e avvertimento. E lo sguardo, che prima indugiava sulle colpe di quelli che muoiono in maniera tragica, ora si sposta su di noi e sulle colpe che ci portiamo dentro. 

“Se non vi convertirete…” non è una minaccia nascosta, ma è un invito a prendere sul serio la vita, a colmare la distanza, a ritornare e a guardare all’unico che può rendere vivi. Tra la vita che oggi viviamo e la sventura e la morte, alla quale oggi siamo scampati, si pone in mezzo la scelta della conversione, del ritorno al Dio di ogni vivente. 

Davanti alle tragedie del mondo non serve il giudizio e la teoria, ma soltanto l’inquietudine del non sentirsi a posto, la voglia di ritornare a casa, tra le braccia pietose e accoglienti di colui che sa sanare anche il dolore, sconfiggere ogni paura, redimere persino la morte.

E allora anche la cronaca e le sventure si fanno Vangelo, proposta di vita nuova, annuncio di un cambiamento possibile. 

E, sia chiaro, rimane il mistero del male, il perché di quelle morti. Non riusciamo a capire se nel male, in qualche modo a noi sconosciuto, persino Dio sia implicato. Qui, Gesù non esclude in maniera netta un rapporto tra Dio e la sofferenza, ma piuttosto che consumare lo sguardo a scrutare il mistero di Dio e della sofferenza, ci invita a volgere lo sguardo al male che ci portiamo dentro, al nostro peccato e alla nostra distanza. Ci invita a considerare che abbiamo davanti un tempo che è quello opportuno, un supplemento di vita, una dilazione per la quale passa la nostra salvezza. Ed è proprio questo che egli annuncia con la parabola del fico sterile.

«Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Tàglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”. Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”» (Lc 13,6-9)

La vita viva è quella che sa donare il frutto, che non usa Dio e ogni cosa per curare le proprie apparenze, per coltivare i propri bisogni, per confermare le proprie pretese. Un fico che non dà frutti usurpa la vita e sfrutta il terreno. Una fede che si accontenta di giudicare gli eventi e le persone senza lasciarci interrogare da ciò che accade, senza farsi scuotere da ciò che succede è sterile e anche dannosa. 

Il padrone non trova i frutti e ha finito la sua pazienza perché il fico ha sprecato ogni risorsa, ha impoverito ogni dono che ha ricevuto.

E salvezza è il vignaiolo, quest’uomo che vive di futuro, che riapre la storia quando ormai sembra chiusa, che ferma la lama e rinnova la vita. Il vignaiolo intercede per il fico sterile, lo sente suo, se ne fa carico. Egli è pronto a zapparlo e a dargli il concime. Ancora un anno, ancora un poco, ancora un pezzo di speranza supplementare.

La parabola è chiara. 

Eppure mi sembra sia troppo facile continuare a fare la parte del fico. È facile perché alla fine mi viene concesso più tempo, mi vengono offerte più cure, divento il centro di ogni attenzione. Forse, ogni tanto, è meglio sostare dalla parte del vignaiolo, di quel Cristo con cui essere complici, con cui mettersi a zappare e a concimare il terreno. 

Sono questi i tempi giusti per farsi tramite e mediatore, per intercedere e invocare pazienza, per pregare per la vita del mondo, per dilazionare e allontanare la scure, per preparare un futuro migliore. Sono i tempi in cui lavorare, in cui metterci del nostro e impegnare noi stessi perché quest’umanità così disastrata inizi a portare frutto. Voglio avere speranza, voglio avere fiducia, voglio impegnarmi con quel fico che oggi è sterile, con quelle persone che oggi sembrano solo tirare a campare, rinchiuse in se stesse e nel loro mondo.

“Vedremo se porterà frutto”, vedremo se porterò frutto, vedremo se aiuterò questo mondo a portare frutto.

Qui puoi leggere una riflessione sul tempo della Quaresima

Liturgia della Parola

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