Perché le reti non restino vuote

V Domenica Tempo Ordinario C (Is 6, 1-2a.3-8; 1Cor 15,1-11; Lc 5,1-11)

Aumenta ogni giorno l’elenco dei “fallimenti” dei credenti e delle chiese. E aumentano le diagnosi e le terapie, i tentativi di riscossa e di ripresa. Si ragiona e fatica tanto, si prospettano soluzioni e strategie, riorganizzazioni e cambiamenti. E, invece, la notte si fa sempre più lunga, le fatiche restano vane e le reti vuote. E dimentichiamo che non siamo noi a faticare, che non sono le nostre strategie umane a pescare viva la vita. A noi è chiesto di avere fede, di affidarci alla Parola per non sprecare tempo ed energie a lavare e a riassettate reti che restano vuote.

Mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret, vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedette e insegnava alle folle dalla barca (Lc 5,1-3)

C’è ressa attorno a Gesù, c’è ansia di ascoltare la parola che Dio può offrire. C’è un’attesa che non può aspettare. La folla fa ressa perché ha bisogno di sentire parole nuove, di uscire dal già saputo per incontrare l’ebbrezza di parole nuove. E quello che sembra un successo si affianca ad un fallimento, ad un tempo che è passato invano, ad una fatica che è stata sprecata. Quel giorno la folla non era lì per accaparrarsi il pesce più buono.

Gesù parla alla folla, ma volge lo sguardo a due barche vuote. I pescatori sono scesi a fare un lavoro inutile. Lavano reti che non sono servite, preparano strumenti che non hanno aiutato. Quel giorno, su quella riva, la folla non spinge per comprare i pesci, ma per ascoltare parole divine. 

E Gesù sale sulla barca di Simone. Quella barca, rimasta vuota, testimone di un insuccesso, protagonista di una notte insonne, complice di un fallimento, diventa ora uno spazio nuovo. È il luogo su cui Gesù si siede. Simone si scosta un po’ da terra, quanto basta perché la voce arrivi, perché lo sguardo continui a vedere. 

Dopo il fallimento e il tempo sprecato, dopo un viaggio inconcludente, dopo una notte che si è fatta incubo, Gesù propone qualcosa di nuovo. Chiede di ritornare al proprio posto, ma di cambiare la prospettiva. E quella barca diventa luogo da cui la Parola si dona e si fa udire. Diventa il pulpito di una nuova stagione, diventa cattedra di parole nuove. Il fallimento non è la fine, può essere inizio di annuncio e rivelazione.

Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti» (Lc 5,4-5). 

Gesù si rivolge finalmente a Pietro. Si conoscevano. Parla a lui solo, dopo aver parlato a tutta la folla. È ora solo per lui la parola che scende dritta nella sua storia, che coglie in pieno il suo fallimento, che centra in petto la sua delusione.

L’invito è semplice quanto impossibile. Prendere il largo e gettare le reti. Si tratta di ritornare al lavoro. Ma prendere il largo, quando è mattina, è solo svago e perdita di tempo, è solo fatica che non porta a nulla, è solo lavoro che viene sprecato. Eppure la barca di Pietro, che prima era attaccata alla terra, già si era scostata un poco e ora gli è chiesto di allontanarsi da tutto e ritornare in mare aperto. Non è una semplice gita, Gesù invita a gettare le reti. Quelle reti che erano state risistemate, lavate e messe a posto. Reti inutili per una notte e ancora più inutili in pieno giorno. Non si pesca in pieno giorno ed è assurdo, dopo una notte di fatica inutile, sprecare tempo e altre energie. È inutile tentare ancora.

E Simone questo lo sa! Ma sa anche che davanti ha un maestro, uno che sta in alto, uno che è superiore. E Pietro dichiara ciò che è già stato. Una fatica durata tutta la notte e reti vuote e cuore stanco. Ci sono notti che non passano mai, che restano vuote e senza appigli, ci sono notti che sono fatica e senza la gioia di aver generato. Ci sono notti in cui stringi il nulla e sembra persa la tua stessa vita. Perché a nulla serve un pescatore se non porta a riva ciò che ha pescato. A nulla serve tanta fatica se le reti restano vuote. E Pietro è sincero e schietto. Non nasconde il fallimento, non fa finta che quella notte gli sia servita, non si illude che alla fine basta provarci. No, ad un pescatore come lui, non basta provarci, non basta faticare per una notte intera. Serve portare a casa il proprio carico, il bottino rubato al mare. 

Ma Pietro aggiunge qualcosa che è assurdo, che lo rende ridicolo davanti ad ogni esperto. Getterò le reti perché tu hai parlato, perché mi metti alla prova, perché mi fido e voglio vedere. Gettare le reti diventa per Pietro gettare ogni convinzione, andare contro il senso comune, contraddire la sua stessa esperienza, rinnegare il suo stesso pensiero. È sulla parola di Gesù che getta le reti e rinuncia a parole e pensieri suoi, rinuncia a ribattere che è tutto inutile, che il fallimento resta tale per sempre, che non serve la luce del giorno se le tenebre della notte ti sono entrate dentro. E Pietro è lì, come ognuno di noi, credente a metà, spaccato tra il suo sapere e il suo affidarsi, tra il suo passato che parla per lui e quel futuro che gli è detto da un altro. E Pietro e noi siamo sempre lì, sospesi tra un fallimento e una promessa, tra una fatica e una nuova richiesta. Tra il sapere che abbiamo fallito e una proposta che ci pare assurda.

Eppure Pietro fa un ultimo sforzo, punta tutto su quella parola, scommette contro quello che sa. Se la smettessimo di fare i saputi, di continuare a proporre le nostre proposte, di gridare le nostre soluzioni, di applicare le nostre ricette e puntassimo tutto su quella parola forse avremmo reti un po’ più piene e meno smania di protagonismo, di esibire le nostre cose, di far vedere che noi siamo bravi. Forse saremmo meno sdegnati, meno pronti a puntare il dito, meno propensi a dichiarare i falliti, perché sappiamo che ognuno di noi accumula notti e fatiche inutili, reti vuote e fallimenti. Pietro sa che la sua notte si è chiusa in un fallimento eppure riparte e getta le reti. 

Tutti i programmi e le strategie sono ribaltati da un atto di fiducia suprema, da un affidamento e da un’obbedienza che a noi oggi suonano strani. A noi, che sappiamo tutto, che sappiamo dove deve andare la Chiesa, che sappiamo chi ha sbagliato e ha fallito, che stiliamo progetti e strategie, che facciamo fatiche enormi e, alla fine, ci riduciamo ancora a lavare reti che non hanno preso nessun pesce vivo. 

Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano […] Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore». […] Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini».
E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono
(Lc 5,6-11)

«Ohimè! Io sono perduto,
perché un uomo dalle labbra impure io sono
e in mezzo a un popolo
dalle labbra impure io abito;
eppure i miei occhi hanno visto
il re, il Signore degli eserciti»
(Is 6,5)

Quella fu invece pesca abbondante. Fu l’anticipo della missione. E Pietro si getta davanti al Signore e si riconosce peccatore, perché chi si espone alla luce vede se stesso e si riconosce. Oggi ci piace dire che di noi va tutto bene, che Dio non vuole cambiarci, che, alla fine, non c’è indegnità, non c’è peccato o miseria umana. Abbiamo bisogno di sentirci a posto. Eppure Pietro e anche Isaia, davanti a Dio che si rivela, si trovano nudi e si scoprono indegni. Davanti al divino che si manifesta, l’uomo scopre la sua debolezza. E se oggi ci manca il senso dell’indegnità e del peccato, della distanza da Dio e della nostra miseria è solo perché a mancarci è il senso di Dio. Abbiamo messo a tacere la sua grandezza perché non vogliamo scoprirci fragili, non vogliamo che sia scoperto il nostro peccato e la nostra miseria. 

Pietro chiede a Gesù di allontanarsi e Isaia teme di essere perduto. Ma non puoi temere la tua fragilità, non puoi temere la tua indegnità e il tuo peccato. È per quello che Dio ti si è fatto vicino ed è per quello che tu puoi fidarti. 

E nasce ora il vero incontro, germoglia così la loro missione. Gesù invita Pietro a non temere. Se il suo passato è chiuso dal fallimento, il suo futuro è riaperto perché si è fidato, perché ha creduto alla parola sulla quale ha gettato le reti. Egli sarà in grado di “prendere vivi gli uomini”. È questo il compito a cui Pietro è chiamato, prendere gli uomini e tirarli fuori dalle loro morti, riscattare quelli che attendono di essere richiamati in vita ed essere tirati fuori dai loro mali. Egli può farlo perché ora sa che non può affidarsi a sé e alle sue forze. Può farlo perché sa di essere un peccatore. È dalla consapevolezza del peccato che nasce la sua missione. E Isaia potrà essere mandato e andare perché uomo dalle labbra impure, toccato infine dal fuoco divino. E Isaia e Pietro sono lì a ricordarci che non siamo mandati per provare sdegno, per accusare o condannare, ma per donare quella sola parola alla quale ogni “morto” e ogni fallito possono aggrapparsi per avere una vita nuova, per ricevere una vita divina.

Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi, ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me (1Cor 15,10)

E se le reti dei nostri annunci e dei nostri programmi, se le reti della nostra Chiesa e della nostra vita continuano ad essere vuote, è perché forse siamo ancora noi a faticare. Siamo troppo impegnati a sdegnarci contro chi non ci sembra degno, a puntare il dito contro le cause e i problemi dei fallimenti, a escogitare ricette e strategie umane, a immaginarci protagonisti e iniziatori di nuovi tempi e nuove conquiste.

E, invece, continuiamo a faticare invano! Lasciamo che non sia vana la grazia di Dio, lasciamo a lei lo spazio e il tempo per faticare in noi e in tutti quelli a cui siamo mandati.

“Signore, tu non sai nulla
dei mille nostri falsi apostolati,
tu non sai dei nostri calcoli e delle nostre paure,
delle notti che abbiamo faticato inutilmente:
tu non sai quanto è difficile crederti, Signore:
ci consumiamo in attivismi senza risparmi
e non prendiamo mai niente,
mai una retata che ci ripaghi.
Signore, liberaci dalle infinite pastorali,
dalle divoranti organizzazioni,
da tutte le nostre inutili strategie,
e donaci solo fede, tanta da osare tutto,
e solo nella tua parola.
Amen”.
(David Maria Turoldo)

Liturgia della Parola

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