“Signore, pietà per le nostre preghiere!”

XXXII Domenica Tempo Ordinario Anno B (1Re 17,10-16; Eb 9,24-28; Mc 12,38-44)

A volte ci attrae un modo di credere che sappia metterci in pace, accarezzare i nostri bisogni, esaltarci e farci sentire un po’ migliori, a posto con le nostre aspirazioni. E ci illudiamo di credere riservando le briciole del nostro vivere a pratiche, preghiere, tradizioni e parole che servono solo ad ostentare chi siamo e a mostrare quanto valiamo. Bisogna guardarsi dal pensare che la fede e le preghiere siano semplici giochi con i quali intrattenerci, sperando di godere dell’applauso di un pubblico che riconosca il nostro valore.

Credere non mette il cuore in pace, non mette in salvo la vita. Credere è provare il fondo dell’ultimo abisso, è non trattenere più oltre la vita, è lasciare che tutto sia rimesso per sempre e gettato nel fondo dell’unico grande tesoro. 

Credere è prendere quei pochi brandelli di vita che ancora ci restano e gettarli nelle mani divine, restando nudi ed esposti, rischiando persino la morte, fidandoci solo di quella mano a cui doniamo tutto quello che siamo.

«Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa» (Mc 12,38-40)

Sono dure queste parole che Gesù rivolge alla folla. Bisogna guardarsi dagli scribi di sempre. Bisogna guardarsi da coloro che sanno le cose di Dio e con queste si intrattengono come in un gioco, in uno sterile esercizio mentale. Gli scribi, da cui Gesù invita a guardarsi, sono immagine di coloro che conoscono la Scrittura, la sanno leggere e commentare. Sono esperti delle cose di Dio, sono pratici di ogni teoria, sanno ostentare preghiere, sono capaci di allestire spettacoli della loro fede. Eppure per loro credere in Dio è solo un gioco, un passatempo che rende migliore la loro vita, che li fa sentire e diventare importanti. Usano le cose di Dio per diventare qualcuno nel mondo degli uomini. 

È un’immagine forte quella che qui Gesù tratteggia, che rimanda e richiama alla mente i tanti modi in cui ancora ci serviamo di Dio per poterci servire meglio degli uomini. È un modo di credere che, per esaltare se stessi, divora la vita degli altri, la rende arida, la umilia e la rende succube. È la fede ostentata, l’esibizione di un teatrante, di uno che sa di essere sulla scena per accarezzare e sfruttare il bisogno, che in molti hanno, di trovare qualcuno da elogiare, da riconoscere come modello. 

E so che è facile additare gli scribi di oggi, pensare a quello o a quell’altro che usano gli stessi metodi. È facile prendere queste parole e scaraventarle addosso a tanti che conosciamo. Eppure so anche che è un il rischio e una trappola in cui è facile per tutti cadere.

Perché questa è una “fede” che migliora la vita, la rende serena, la fa sembrare apprezzabile. È la fede rasserenante, quella che finalmente ci permette di sentirci migliori, di migliorare la nostra autostima, di esaltarci e riscattarci da ogni sensazione che ci fa sentire piccoli e inferiori.

È la fede che diventa terapia psicologia o, peggio, leva sociale che ci innalza e ci fa sentire un po’ esaltati, un po’ più avanti e migliori, capaci, finalmente, di avere uno sguardo che dall’alto si volga in basso, al di sotto di noi, verso quella tanta gente che consideriamo incapace e inferiore. 

Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte (Mc 12,41)

Gesù, sulla spianata del tempio, è seduto ad osservare come la folla getta monete nel tesoro del tempio. Si tratta di offerte per i diversi bisogni. È un segno che ricorda che la fede chiede di fare i conti con la concretezza, con la vita e le proprie ricchezze. Tanti ricchi gettavano molte monete.

I ricchi possono permettersi il lusso di essere generosi, di esagerare nelle cifre che gettano. I ricchi sanno essere prodighi, è a loro che ci si rivolge quando si ha bisogno di offerte che facciano la differenza. 

E poi, si sa, gettare le monete produce quel suono forte che attira l’attenzione, che crea ammirazione, che fa esaltare tutti i ricchi che, ancora oggi, lodiamo per le loro offerte così generose. Tante opere di beneficienza, e ringraziamo il cielo che ci siano, sembrano ancora oggi un modo perché il ricco si senta esaltato, sia riconosciuto come un benefattore, sia guardato come uno verso il quale sentirsi in debito ed essere grati. Ben inteso, ben vengano i ricchi che donano, che mettano un po’ delle loro ricchezze a servizio dei poveri e delle opere di carità. Ma il discorso qui è molto diverso! In questione non è tanto il donare, ma cosa significhi avere fede. Il problema non è quanto donare, ma come vivere e come credere. 

Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo (Mc 12, 42)

Dopo la sfilata dei ricchi che donano molto, compare una povera vedova. Appartiene al gruppo di coloro che sono inutili, che non possono fornire aiuto, che non possono contribuire. È una donna alla quale è inutile chiedere perché, si sa, non ha nulla che possa dare. Ella stessa, forse, vive solo di ciò che riceve, ha una vita sospesa, che non può trattenere e stringere nulla. Anche la povera vedova si avvicina al tesoro e getta due monetine, due spiccioli che non hanno valore.

Sono senza valore i gesti e le parole di quelli che non hanno ricchezze e saperi, che non vantano teorie e pensieri profondi. Sono senza valore le offerte che sono spiccioli. Sono senza valore tante vite che non si espongono, che non si fanno vedere, che restano nascoste nell’ombra perché non avrebbero nulla da mostrare ed esibire. Sono solo due monetine quelle gettate nel tesoro, in genere passano inosservate, come passa inosservata la vita di tanti, uomini e donne, la cui fede e la cui storia fa persino sorridere. Ci sembrano ingenui, un po’ creduloni, incapaci a comprendere che le loro offerte non servono a nulla e non hanno valore. Dall’alto del nostro essere esperti, è facile per noi criticare la fede ingenua di tanti, le loro preghiere affrettate e spesso nemmeno comprese. È facile sorridere dell’ingenua e infantile fede, che non conosce le nostre profonde dottrine teologiche, che non sa leggere i veri sensi delle Scritture, che non conosce gli autori di grido della teologia. 

Eppure, anche noi dovremmo imparare ad avere uno sguardo che coglie nel segno, che va nel profondo di ogni vissuto, che sa intravvedere che cosa davvero significhi credere. Se vogliamo scoprire una fede vera non serve fissare lo sguardo e le orecchie su coloro che sanno usare bei paroloni, che sanno ostentare la loro sapienza, che sanno correggere ogni errore o svista teologica. Dobbiamo fissare anche noi lo sguardo e le orecchie su quella povera vedova, su quei tanti poveri che ancora oggi, nel silenzio e nascondimento, mentre noi siamo impegnati a discutere di teologie, di rinnovamenti e di preghiere più giuste e corrette, portano avanti con la loro vita il mistero del regno, portano avanti il peso di questa Chiesa, rendono vivo quel seme nascosto che è dotato di forza divina. 

Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere» (Mc 12,43-44)

Gesù lo sa bene, quella vedova povera ha gettato nel tesoro più di ogni altro. Ella, nella sua indigenza, ha donato a Dio tutto quello che aveva, tutta la sua stessa vita. 

Ed è questa vedova a ricordare al ricco che non ha il coraggio di lasciare tutto, a Giacomo e Giovanni che vogliono i primi posti, a Pietro che vuole l’esaltazione del suo Messia, e a noi e a tutti gli altri, che cosa significhi smetterla di giocare a credere, di giocare con le cose di Dio, di intrattenersi con le cose sacre. È lei, e con lei il cieco di Gerico, a metterci in guardia sul rischio che bisogna accogliere, sulla sfida che bisogna vincere, sulla scommessa che non si può perdere. Credere è giocarsi la vita, non è un semplice tirare a campare!

Perché credere non è giocare a sembrare i più buoni, non è pregare con parole che siano alte e corrette, credere è gettare tutta la vita nelle mani di Dio, è spogliarsi di tutto per restare sospesi sull’orlo dell’abisso. Credere è rischiare di perdere, di restare nudi e senza futuro. Credere è provare il brivido di rinunciare al mantello, agli spiccioli e alla stessa vita. Credere è restare nudi e sospesi, come il Figlio sulla croce, affidandosi ad un Padre che non sembra ascoltarci. Credere è disporsi, come la vedova di Sarepta (cf Prima lettura), a condividere la vita fino agli ultimi sgoccioli, fino alle ultime briciole, perché solo donando ogni cosa di noi potremo ricevere una vita che è nuova. 

Credere non è un passatempo, non è un calmante del cuore, è spaccare e stracciare con forza ogni corazza che ci protegge, ogni apparenza che ci mette al riparo, ogni veste che ci dà dignità. Credere è pregare sul serio, rimettendo la vita e la storia nelle mani di Dio. 

E allora ogni tanto, guardando agli scribi e guardando alla vedova, è bene per noi dire, insieme a Turoldo:

“Signore, pietà per le nostre preghiere!”

Liturgia della Parola

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