Uno alla destra e uno alla sinistra… ma della Croce

XXIX Domenica Tempo Ordinario Anno B (Is 53,10-11; Eb 4,14-16; Mc 10,35-45)

Quando le parole diventano scomode si cerca sempre un diversivo. Quando ci sentiamo coinvolti in qualcosa che non ci piace, con la mente divaghiamo altrove, in cerca di conferme e consolazioni che ci rendano certi del nostro pensiero. Ci sono discorsi che facciamo fatica a comprendere perché non sono adatti a ciò che vogliamo. Ed è da qui che occorre ripartire. È scrutando i desideri nascosti, i pensieri più raffinati, quelli che sembrano ingenui e quasi innocenti che incontriamo le nostre vere domande. Cosa vogliamo davvero? Cosa cerchiamo, restando cristiani? Cosa vogliamo da questo Dio? A cosa ci serve e perché lo seguiamo?

Sono domande che quasi mai ci facciamo, eppure è qui che dobbiamo indagare, per cogliere il senso del nostro credere, il cuore del nostro andare. È qui che dobbiamo ancora far risuonare parole che sono altre e diverse, parole che inchiodano e ci mettono in crisi. Non per il gusto di farci star male, ma per la grazia di pensare una vita diversa, una vita che sia senza ansie, senza inutili corse e gare che finiscono sempre con il farci o fare del male.

E capita ancora che, mentre parliamo e guardiamo al Crocifisso, sentiamo che in noi sono altre le voglie, sono altri i desideri. E pretendiamo che sia persino Dio a prenderli sul serio, a farci ciò che chiediamo.

Si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?» (Mc 10,35-36)

Per la terza volta Gesù ha appena annunciato il suo futuro, ha fatto intravvedere il suo dolore e la croce. Ha messo in guardia i suoi discepoli: il suo cammino lo porta al rifiuto, al disprezzo e alla morte. Eppure ora due, tra i primi discepoli, si accostano a lui. La loro richiesta ci pone in guardia: essi sanno che cosa vogliono. Vogliono un Dio che faccia per loro ciò che essi hanno deciso. Sono certi di ciò che vogliono, vogliono un Dio che faccia soltanto ciò essi hanno intenzione di chiedere. Sono due fratelli pieni di forza, un po’ scontrosi ed esigenti. Il loro cammino dietro al Maestro deve avere un senso, deve avere un approdo. Non possono perdere tempo in queste cose senza avere certezze, senza sapere se ne valga la pena. 

E Gesù chiede loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gesù si espone e chiede ai suoi amici di esporsi, di uscire allo scoperto, di dichiarare ciò che hanno in cuore. Poco dopo sarà Gesù a porre la stessa domanda al cieco di Gerico. Il Maestro è attento al volere dell’uomo, sa che sono tanti i desideri che si contendono il cuore. Ma questa volta è diverso. I due discepoli hanno introdotto il discorso chiarendo subito che cosa vogliono. Hanno messo le mani avanti. Vogliono che lui sia disposto a fare ciò che essi stanno per chiedergli. 

Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra» (Mc 10,37)
Quello che i discepoli chiedono, in verità, non è poi così strano. La loro richiesta è legittima. Essi stanno seguendo e spendendo la vita per stare dietro al Messia, è ovvio che si aspettino, almeno, di condividere con lui la sua gloria. Vogliono essere i primi, vogliono avere i posti migliori.

La loro richiesta, fatta subito dopo il terzo annuncio della passione, un po’ ci spiazza. Eppure è richiesta che ci è familiare. La capiamo e la comprendiamo. E se ci urta, forse è solo perché, come gli altri dieci che si indigneranno, avvertiamo il rischio di non essere noi ad avere quei posti.

Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo» (Mc 10,38)

La risposta di Gesù è netta e tagliente. Non sanno quello che chiedono. Non si rendono conto della gravità di ciò che hanno chiesto. Non sanno che quella loro richiesta comporta scelte ardue e difficili. Non sanno dove la loro voglia sta per condurli. Non hanno capito che sedere con lui nella gloria non è qualcosa che possa umanamente piacergli. Gesù non è retorico. Davvero i discepoli non sanno che la loro richiesta li compromette. E il discorso si svolge ormai su piani diversi.

I discepoli sono fermi al nostro piano. Chi non vorrebbe un po’ di gloria? Chi non vorrebbe condividere il potere con il Messia? Chi non vorrebbe un riconoscimento che attesti e certifichi che siamo veri cristiani e che questo ci dia un po’ di considerazione, di rispetto e di stima? Piace a tutti stare al fianco di persone importanti, ci fa sentire potenti e necessari.

Ma Gesù li invita a collocarsi sul suo stesso piano. Essi non sanno e non capiscono che cosa stanno chiedendo. “Voi non sapete”. Il mondo, infatti, ha altre logiche, ha altri criteri. Non sapete perché non immaginate che possa esistere un Dio che per amore rinuncia al potere e si fa servo per donare la vita. Voi non sapete perché conoscete solo le cose del mondo, sapete il potere e sapete il dominio. Sapete il modo in cui gli uomini si mettono a capo per avere vantaggi e dominare, per avere la meglio e sfruttare ogni uomo.

E invece Gesù ha già annunciato il suo programma di gloria, il modo in cui Dio ha deciso di far sentire il suo peso sul mondo. Chi vuole condividere la sua gloria deve poter bere il suo stesso calice, essere battezzato nel suo stesso battesimo. 

Il calice che egli beve non è quello della festa e della gioia, dell’ubriachezza e del trionfo. È il calice amaro del dolore e del rifiuto. È un calice che porta in sé un sapore di morte. È un calice che offre il disprezzo e l’ingiustizia, il dolore e l’abbandono. È il calice che Gesù stesso vorrebbe evitare mentre nell’orto combatte l’angoscia mortale. Eppure, bevendo da quel calice, Gesù compie il sogno del Padre. È assurdo, eppure è così! Quello è il calice che il Padre porge al Figlio perché solo attraverso quell’amaro dolore si compie per sempre la volontà d’amore. Amare è per uomini forti, che hanno il coraggio di soffrire e morire, di farsi carico della miseria e dell’abbandono. Amare è accogliere l’amara desolazione di restare soli, di restare ed essere tra gli ultimi, di essere derisi e osteggiati, di essere piccoli e insignificanti. Amare è restare lì dove nessuno resterebbe per far nascere lì un germoglio di vita, irrorato dal sangue e dal sudore. Gesù beve quel calice che è colmo di passione d’amore, di esilio e di lontananza, di rifiuto e di disprezzo.

Possiamo bere quel calice? Ne siamo in grado? Ne abbiamo il coraggio? 

E poi il battesimo. Non quello del rito, ma quello duro e violento della vita. Il battesimo che Gesù sta per ricevere è l’immersione completa nell’angoscia della morte e del buio, del disprezzo e del peccato. Potete voi, dice Gesù, ricevere questo battesimo? Potete immergervi nel buio e nel male del mondo, lasciando che si accanisca contro di voi per far risplendere persino lì un dono d’amore che, per essere vero, deve nascondersi e persino morire lì dove non c’è proprio nulla che possa essere amato? 

C’è un abisso di male ed è in questo che Gesù sta per immergersi. È il battesimo nella morte e nella miseria umana, nell’odio e nella violenza. 

La domanda che Gesù rivolge è rivelativa. Potete voi bere il mio stesso calice, essere battezzati nel mio stesso battesimo? Noi lo possiamo? Ci vuole qui l’audacia sfrontata dei due fratelli: lo possiamo! Possiamo bere quel calice, possiamo immergerci in quel battessimo, possiamo restare discepoli fin dove ci conduce la vita.

E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati» (Mc 10,39)

Sì, Giacomo e Giovanni berranno quel calice, saranno immersi in quel battesimo. Potranno bere a quel calice che, conservando la sua amarezza, diventa vino che inebria e riscalda. Potranno immergersi nella morte perché il loro Maestro di quella morte ha rotto ogni vincolo.

Queste parole di profezia sembrano anticipare le vicende dei discepoli, ma sono anche parole che dicono il dono che ci viene fatto. Ci rimandano ai sacramenti. Al calice che beviamo e al battesimo che abbiamo ricevuto. Sono gesti di fede che dicono l’impegno di Dio a rendere possibile anche per noi quello che ha fatto il Maestro. Anche noi abbiamo bisogno di bere a quel calice, di essere immersi in quel battesimo. E il rito diventa dono che chiede di diventare vita. Essere battezzati e bere al calice ci rende capaci di condividere la sorte di Cristo, di condividere la via della croce, di condividere la sua stessa gloria, non quella che noi immaginiamo, ma quella che il Crocifisso rivela e fa vedere ad occhi che sanno guardare. 

«Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato» (Mc 10,40)
Dopo aver confermato ai due fratelli che possono anch’essi vivere la sua stessa esperienza, queste parole pongono un freno. È difficile interpretarle. Il Maestro non può concedere il posto alla destra e alla sinistra, non è lui a dare i posti d’onore. Quei posti spettano a coloro per i quali sono stati preparati. E qui gli studiosi ipotizzano e fanno domande. A chi spetta concederli? Al Padre? E a chi sono destinati?

A me sembra che, ancora una volta, Gesù stia tentando di sollevare il discorso, di aggiustare lo sguardo. Solo un’altra volta, nel vangelo secondo Marco, si pone la questione di chi stia alla destra e alla sinistra del Maestro. Ed è quando Gesù viene innalzato sulla croce. Marco ricorda che egli fu crocifisso tra due ladroni ed evidenzia con cura che uno era alla sua destra e l’altro alla sua sinistra (cf Mc 15,27).

E allora tutto diventa più chiaro. In Marco, infatti, non è raccontata la gloria come noi la pensiamo o immaginiamo, non ci sono trionfi o cortei, né troni né luoghi dove siede il potere divino. In Marco tutta la gloria è concentrata sul Crocifisso. È lì che si manifesta la gloria e quell’uomo che muore viene riconosciuto come Figlio di Dio. 

I due posti d’onore, quindi, non possono essere occupati dai due fratelli. Non sono per loro e nemmeno per noi. Sono per coloro per i quali sono stati preparati: sono per due ignoti ladroni.

Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni (Mc 10,41)

È troppo facile l’indignazione. È troppo a buon mercato. Continuiamo sempre ad indignarci, a individuare ciò per cui, nella Chiesa e fuori di essa, possiamo storcere le labbra e provare disgusto. L’indignazione dei dieci ci è familiare. Basta trovare qualcuno il cui male è scoperto, le cui intenzioni sono rivelate per esibirci in indignazione. Eppure indignarsi è l’altro nome della superbia, del sentirsi a posto, del farsi giudici, del giocare a nascondere le proprie miserie ribellandosi contro quelle degli altri. L’indignazione ha il sapore della consolante autogiustificazione. 

Anche oggi nella Chiesa ci si indigna spesso. Per il potere, per il lusso, per la corruzione, per le incoerenze… Ci indigniamo perché è facile sentirci migliori quando sono le colpe degli altri ad essere esposte e rese pubbliche. E invece di indignarci, sarebbe più utile scavare in se stessi, chiamare per nome le proprie miserie per scoprire che sono simili a quelle degli altri. E invece la nostra indignazione è simile a quella dei dieci, che, seppur indignati per il coraggio e la sfrontatezza dei due fratelli, si metteranno anch’essi in fuga davanti alla croce.

Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,42-45)

E Gesù pronuncia di nuovo parole che sconvolgono ogni criterio. Prima i due non sapevano ciò che chiedevano perché conoscevano solo le logiche umane. “Voi sapete”, dice Gesù, sapete come funziona nel mondo, sapete cosa è il potere, sapete cosa produce.

Gesù inaugura un nuovo stile: “Tra voi non è così”. Dobbiamo imparare ciò che non conosciamo e che solo la croce ci ha rivelato. Dobbiamo apprendere, sotto la croce, che per diventare grandi bisogna imparare a servire e a dare la vita, ora dopo ora, goccia dopo goccia, gesto dopo gesto. Farsi servi e farsi schiavi è il vero potere e la vera gloria.

Certo non è semplice. È difficile rinunciare al potere del mondo. È difficile umiliarsi ad amare e a servire. 

Eppure è qui che risiede la nostra fede. É così che ha fatto il Maestro. Non possiamo chiedere altro, se non di restare inchiodati con lui sulla croce, immersi in quel servizio, svuotati nel dono d’amore.

Liturgia della Parola

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