Gettare il mantello per iniziare a vedere
XXX Domenica Tempo Ordinario Anno B (Ger 31,7-9; Eb 5,1-6; Mc 10,46-52)
Mentre si snoda la vita, ci passano accanto tante occasioni. È facile restare ai margini, seduti sul bordo di ogni vicenda ad attendere qualcosa che sia nuovo davvero, qualcosa per cui valga la pena balzare e rimettersi in piedi. Essere vivi è sempre un po’ mendicare, attendere briciole che ci rendano ricchi. E se siamo attenti, mentre siamo fermi ai bordi della strada e della vita, giunge, spesso inaspettato, il momento in cui occorre decidersi a gridare, a rompere il silenzio, a non rassegnarsi ad una vita rinchiusa e ripiegata in se stessa. È quello il momento di scoprire ciò che non sappiamo vedere. È quello il momento di strapparsi di dosso una storia ormai logora per gettarla e renderla strada su cui avanza il senso, per renderla cammino su cui incontrare il divino.
Mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimeo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare (Mc 10,46)
Siamo alla svolta cruciale del Vangelo. Dopo aver annunciato per tre volte la sua passione, Gesù sta per varcare le soglie di Gerusalemme, città in cui farà il suo ingresso trionfale e in cui si compirà il suo destino di morte. La strada sta per concludersi. I discepoli e molta folla sono ancora con lui, ma distratti e incapaci, inadatti a comprendere il suo cammino, a capire e vedere la strada che rivela il volto di Dio. Gesù, invece, è sicuro nel suo avanzare lungo la strada che, in Marco, è sempre un camminare verso la croce, verso la rivelazione della sua identità, del modo in cui egli è il Figlio di Dio.
Ed è in quest’ultimo tratto di strada che entra in scena un nuovo cieco, Bartimeo. Un cieco, infatti, era già apparso all’inizio di questo cammino. E proprio ora, quando la strada sta per concludersi con l’ingresso a Gerusalemme, nel quale Gesù sarà acclamato come il Messia e il Figlio di Davide, Bartimeo è lì a ricordare, ancora una volta, che per vedere il Messia e conoscerne il volto c’è bisogno di un intervento divino.
Bartimeo è seduto lungo la stessa strada, intento a mendicare. Non può vedere e per questo non può camminare, non può avanzare lungo il cammino, non ha modo di vedere i volti di chi gli è accanto, non può conoscere il volto del Messia. È uno che non sa e non può sapere. È un mendicante perché in attesa di qualcuno che gli presti un po’ di vita, che gli renda un po’ di sguardo, che gli offra un po’ di cammino. Un cieco può solo aspettare che qualcuno gli indichi ciò che egli non può vedere, gli mostri ciò che da solo non può conoscere. Un cieco ha bisogno di guida, non può inventarsi un cammino, non può fare nulla da solo. Per questo è lì a mendicare, ai bordi della strada lungo la quale passa Gesù. Non ha una strada sua, non ha un cammino da contrapporre o proporre.
Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!».
Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!» (Mc 10,47-48)
Il cieco ha però orecchi attenti. Sa ascoltare e capire bene. Sa cogliere suoni che altri non odono. Finora in tanti hanno ascoltato il Maestro eppure non lo hanno compreso. Nemmeno i discepoli hanno capito. Lui annunciava la croce e loro parlavano di altro. Il cieco invece sente che è Gesù Nazareno. Sente che è lui che sta passando, che è lui che finalmente si sta muovendo su quella strada che egli, che è cieco, non può attraversare.
E allora grida e lo fa sempre più forte, grida il suo bisogno e la sua fede, grida la sua angoscia e la sua confidenza. Riconosce in quel Nazareno, il Figlio di Davide, il Messia atteso da sempre. Ed è a lui che chiede pietà, chiede a lui la misericordia, chiede a lui che si fermi e doni il suo amore, che renda visibile la sua compassione.
E nonostante molti vogliano soffocare quel grido e lasciarlo cadere nel vuoto, il cieco urla più forte, urla la sua fede e il suo bisogno, urla e mostra fino a che punto egli sia lì mendicante di vita e di visione.
Ma perché molti lo rimproverano? Forse perché quel cieco rischia di intralciare e rallentare il cammino, che loro pensano trionfale e di conquista. Quel cieco è di disturbo, è inopportuno, il suo problema è di poco conto. Essi stanno per raggiungere la gloria, per vedere finalmente realizzato il loro sogno.
E qui sono gli altri ad essere ciechi, a non vedere la strada, a non capire il vero cammino. Ciechi si sono mostrati Pietro (cf qui), Giacomo e Giovanni (cf qui) e tutti gli altri. Ciechi nonostante la luce del Tabor, nonostante il loro restare in cammino.
E ora c’è uno che cieco lo è per davvero eppure egli sa che bisogna vedere, che occorre avere occhi che restino aperti, che non siano chiusi o ripiegati in se stessi. Quel cieco il cammino non può ancora farlo, perché seduto ai bordi di quella strada dove attende che si compia il prodigio, che anch’egli possa vedere in volto il Messia, un volto diverso da quello che tutti vanno immaginando, un volto tremendo che, solo sulla croce, rivela per tutti e per sempre i tratti di un Dio che nessuno ha mai visto.
Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!» (Mc 10,49)
E mentre già Pietro aveva tentato di fermare Gesù nel suo cammino lungo la strada, solo Bartimeo riesce ad arrestare, almeno per un po’, i passi del Nazareno. Gesù si ferma. Quel grido non può cadere nel vuoto, non può restare inascoltato. Non può restare inascoltato il grido di chi è fermo ai margini della strada, il grido di chi vorrebbe non essere lì, seduto ad aspettare per vedere come va a finire tutta la storia. Bartimeo non è seduto perché ha paura o non ha voglia, è lì perché ha gli occhi chiusi, non può vedere, non può riconoscere le pietre su cui porre i suoi passi, non può vedere la meta del lungo cammino.
È per questo che Gesù si ferma e fa chiamare colui che lo ha appena invocato. Nasce da qui il loro incontro. È appello e riconoscimento, è vocazione e insieme ascolto, è interpello e insieme risposta. Gesù manda a chiamarlo perché ha appena ascoltato le sue forti grida. E tutta la vita è racchiusa in quelle parole, in quell’incontro di due chiamate, in quell’incrocio di appelli e rimandi. Il cieco grida e Gesù lo chiama. Il cieco supplica e Gesù lo interpella. Il cieco invoca e Gesù lo appella.
Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù (Mc 10,49-50)
Non ci è detto chi si sia preso la briga di chiamarlo in nome di colui che lo chiama. Ma è facile pensare che siano gli stessi che prima hanno tentato di mettere il cieco a tacere. Gesù chiede che siano gli altri a chiamare il cieco, a farsi interpreti del suo appello, a farsi tramite della chiamata. Devono fermarsi anche loro, devono comprendere e lasciarsi scuotere da ogni uomo che è cieco e seduto in attesa, che è in ansia perché aspetta anche lui un segno al quale appellarsi. I discepoli non possono filtrare il grido che sale dall’umanità, devono semmai farsi segno di un Dio che ascolta e prende sul serio ogni mendicante seduto per strada, ogni uomo che la vita ha costretto a restare in attesa, ogni uomo che è ancora in cerca di qualcuno che lo tenga e rimetta in vita.
A Bartimeo il coraggio non manca. Ha gridato fino a farsi sentire, fino a superare la cortina di silenzio e di buon senso che i “seguaci” del Nazareno hanno tentato di innalzare. Ci vuole coraggio per alzarsi e seguire un appello. Ci vuole coraggio per restare vivi e restare in cammino. A Bartimeo non manca il coraggio di rimettersi in piedi, di scoprire che c’è sempre modo di rimettersi in piedi, di rimettere in piedi la storia.
Egli balza in piedi. È uno slancio che dice l’attesa, che dice il tempo che egli ha aspettato, il desiderio che egli ha nutrito e la speranza che lo ha animato. Egli balza in piedi con forza, perché sente che quella chiamata non collima con una vita seduta, con una storia che è in cerca di briciole, con un desiderio che si accontenta solo di tirare a campare.
Egli getta via il suo mantello. Non è cosa da poco. Il mantello è la casa del povero, è la sua difesa e la sua stessa storia. Egli getta il mantello perché è di inciampo, perché è di troppo a chi si mette in cammino. Egli sa che deve lasciare ogni cosa, deve lasciare ciò che possiede, deve muoversi nudo perché la sua vita sia rivestita di nuovo.
Egli getta il suo mantello, ossia lo getta per strada, lo lancia lungo il sentiero. E poco dopo anche altri faranno lo stesso. Dopo quest’episodio, infatti, Marco racconta l’entrata trionfale a Gerusalemme, durante la quale alcuni stendono i loro mantelli lungo la strada, altri li mettono sopra il puledro. Quella di Bartimeo e dell’entrata di Gesù a Gerusalemme è storia di mantelli gettati, di vite donate, di esperienze messe a servizio. Gettare il proprio mantello per strada è lasciare che il Nazareno avanzi sulla vita e sulla storia di ognuno. È rivedere la propria storia come luogo in cui Gesù pone i suoi passi per far vedere la sua vera gloria.
Quei mantelli non sono buttati, ma sono storie che bisogna lasciare perché su quei mantelli il Maestro si sieda e ponga i suoi piedi, li renda tratto di strada, li renda cammino che svela la gloria, la meta vera verso la quale il Vangelo conduce.
Lasciare il mantello non è solo rinnegare se stessi e la vita, ma donarla perché è su di essa che avanza il Maestro, è di essa che egli si serve per mostrarci e farci vedere ciò che altrimenti ci resta nascosto, ciò che nessuno può donarci davvero. Lasciare il mantello e gettarlo è segno di una resa che permette a Dio di venirci incontro, di farsi incontrare lì dove siamo, lì dove abbiamo deciso di cedere e non trattenere, di donare e di non arraffare.
Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?» (Mc 10,51)
La domanda è seria e impegnativa. Già Giacomo e Giovanni avevano chiesto che il Maestro facesse per loro ciò che chiedevano, e ora Gesù pone al cieco la stessa domanda che aveva posto ai suoi due amici. Il Maestro interpella i desideri del cuore, smuove l’ansia e l’attesa che dentro ci muove.
E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!» (Mc 10,52)
È urtante scoprire che la richiesta dei discepoli (quella di occupare i primi posti) è distante e sfigura davanti alla richiesta di Bartimeo. Un cieco, seduto ai margini della storia, chiede ciò che gli serve per restare in piedi e iniziare il cammino.
La risposta del cieco è immediata e sincera. Egli chiede di riaprire gli occhi, di poter gustare lo spettacolo che non conosce, di poter sapere ciò che non sa. Che io veda, dice, e ciò che egli vedrà sarà il volto del Figlio di Davide, lo riconoscerà in quell’uomo che è lungo la strada, in quel Maestro diretto a Gerusalemme lì dove si compie la gloria che solo pochi riusciranno a vedere.
Stride la risposta del cieco rispetto a quella dei due discepoli. I due vedono tutto con i loro occhi, vedono le cose del tempo, sanno chi vale e cosa conta. Ma sono ciechi davanti al mistero, davanti all’amore che sta per donarsi, davanti ad un uomo che sulla croce sta per svelare il volto di Dio. Bartimeo, invece, sa di essere cieco, sa di non avere occhi che possano tollerare e accogliere lo sguardo di un Figlio di Dio da Dio abbandonato, lasciato morire come muore ogni uomo. Lì ogni uomo vede solo sconfitta, vede la fine di ogni illusione, vede il termine di ogni speranza. Lì ogni uomo ha gli occhi rinchiusi. Ci vuole un miracolo che faccia vedere, ci vuole una parola che renda lo sguardo capace di penetrare il mistero, quello di Dio e della vita dell’uomo.
E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada (Mc 10, 52)
Gesù non compie azioni o segni. Semplicemente lo manda, lo invia a mettersi in strada, a seguire il cammino che conduce alla croce. Bartimeo è salvo per la sua fede. Ha fede perché si affida, perché sa che quel tragitto che si sta per compiere non può essere fatto contando sulla propria vista, sul proprio modo di vedere le cose, sul modo umano di vedere Dio. Egli ha fede perché si affida, perché mette la sua storia e il suo mantello a disposizione perché il Maestro gli indichi come si perde la vita, come si dona ogni cosa, come si muore per vivere ancora.