Una cosa ci manca ancora

XXVIII Domenica Tempo Ordinario Anno B (Sap 7,7-11; Eb 4,12-13; Mc 10,17-30)

C’è sempre in noi una voglia di vita, un desiderio che spinge oltre, una promessa che resta inevasa. Non siamo fatti per sopravvivere, e allora cerchiamo ovunque appigli per vivere appieno, per rendere piena ed eterna la vita. Sentiamo che la vita non basta a se stessa, sappiamo che tutto ha un limite e un freno. Guardiamo attorno a noi alla ricerca di ciò che possa darci sollievo, di ciò che prometta la vita che ancora speriamo. Si spiega così la ricchezza che accumuliamo, le sicurezze che cerchiamo, le posizioni che conquistiamo, il successo per il quale ci sacrifichiamo, gli affetti a cui ci leghiamo.

Un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna? ». 

È strano quest’uomo. Corre incontro a Gesù e si getta ai suoi piedi. È la scena di chi ha bisogno di un miracolo per essere sano, di un gesto forte per tornare a vivere. Nessuno va incontro a Gesù in questo modo se non per implorare una guarigione. Eppure quell’uomo non sembra malato, non sembra in cerca di un miracolo, non ha bisogno di ciò che è impossibile.

Ha solo una domanda da fare, ma è la domanda di tutta la vita. È domanda che raccoglie e rilancia ogni anelito e respiro vitale. È desiderio che non si ferma, è attesa che non trova quiete, è speranza che guarda lontano. Che cosa devo fare per avere la vita in eredità? Cosa devo fare per restare e sentirmi vivo? Non è solo vita del corpo, è vita piena e completa, è vita che pulsa nel cuore e in ogni fibra.

Abbiamo bisogno di sentirci vivi, di sentire che ogni morte è lontana da noi. Quell’uomo è incerto: sa che la vita non si possiede, non ci appartiene. È dono gratuito che si riceve. È eredità per la quale nulla possa essere fatto, è un dono che precede e raggiunge. Eppure resta la domanda: cosa devo fare per avere in dono questa viva che sento mancarmi?

Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo». 

Quell’uomo sa che Gesù è buono, lo intuisce e lo avverte nel cuore. Eppure solo Dio è buono.

Quel tale sente che Gesù è diverso dagli altri uomini. Gesù non nega o rifiuta. Aiuta quell’uomo ad andare a fondo di ciò che già avverte, a cogliere appieno il volto e l’identità di colui davanti al quale si è gettato in ginocchio.

E pone una domanda che attende risposta, che attende scelte e richiama slanci e decisioni. Perché mi chiami buono? Come a dire, se mi chiami buono hai intuito che io sono presenza di Dio, che io e Dio siamo uno, e allora sai già cosa puoi fare, sai già cosa puoi scegliere.

Davanti alla domanda sulle cose da fare, Gesù rilancia con una domanda che interpella l’uomo e pone in questione il suo sguardo. Perché mi chiami buono? Se mi chiami buono abbi il coraggio di andare a fondo, di conoscermi e di capire chi sono.

E allora intuiamo che non si tratta più di cose da fare, ma del modo in cui vedere e conoscere quello che sembra solo un Maestro. Eppure non è uno dei tanti. Solo Dio è buono. E se anche Gesù è buono, allora bisogna restare in ginocchio, occorre sostare davanti a quell’uomo, perché egli ha il sapore di Dio e conosce il segreto di una vita piena.

Dalle cose da fare ad un Dio da riconoscere e da incontrare. Sembra quello l’approdo.

Ma la domanda divina deve scavare nel cuore, deve penetrare nel fondo di ogni scelta e pensiero, deve rischiare di capovolgere tutto.

Tu conosci i comandamenti…

Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza».

E Gesù rimanda alla legge, all’impegno a non fare il male, a non provocare il dolore di chi incontriamo lungo il cammino. E quel tale sapeva già che non è lecito compiere il male, ha già vissuto il minimo che a tutti è richiesto. È un uomo sincero, che ha sete di vita. Ha sete che non si disseta limitando la vita a ciò che è prescritto. A lui non basta per sentirsi vivo non compiere il male. È troppo poco, è troppo semplice. La sete di vita che dentro lo morde non si spegne e non trova pace. Chiede quindi cos’altro fare perché trovi pace la voglia di vita.

Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!».

E Gesù fissa ora su di lui il suo sguardo. Lo guarda con intenso amore. È uno sguardo che apre sentieri, che allarga orizzonti, che libera il potenziale nascosto nell’uomo. Gesù ama quell’uomo, ama la sua ansia di vita, ama il suo essere onesto, ama la sua ricerca incessante. Ed è per amore che Gesù ora rivela che ancora una cosa manca a quell’uomo.

Ci manca sempre una cosa, una cosa sola, eppure è quella che non ci dà pace, che ci toglie il fiato, che ci fa avere paura di vivere perché ci sembra di non vivere appieno. E quello che manca è solo il fatto che si ha ancora troppo. È logica divina quella che mette a nudo ciò che noi tendiamo a nascondere. Finché abbiamo troppo ci mancherà sempre qualcosa. Ci manca la gioia di non aver nulla, di essere nudi e spogli di tutto. Ci manca l’amore per condividere, per donare ai poveri ciò che abbiamo e tratteniamo. Ci manca il vero tesoro: andare dietro a Gesù seguendo i suoi passi.

Egli è buono davvero, perché in lui è Dio a farsi presente, a rendere vivo e umano il suo volto. E se capiamo questo ci manca soltanto seguirlo sul serio. Bisogna vendere ciò che abbiamo e che ci trattiene per dare ai poveri ciò che ormai non ci serve perché abbiamo la cosa che ci è sempre mancata: seguire Cristo per stare con lui. Non è cosa da poco. È in gioco il donare la vita, il metterla nelle mani dei poveri e delle mani di Colui che per amore si è fatto povero.

È solo così che si può ereditare la vita eterna. È questa vita che va messa ora in mani altre per ricevere una vita che sia piena e per sempre.

Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni.

A quell’uomo però, non basta la sete, non basta lo sguardo d’amore, non bastano le parole che Gesù gli rivolge. Non bastano perché egli ha molti beni, ha troppe cose che appesantiscono il cuore, ha troppi tesori che lo tengono fermo. Egli diventa scuro nel volto, diventa triste e senza ardore, perché sa che avrà ancora sete di vita eterna ma sente che non riesce a fidarsi. Spera ancora in tesori umani, in ricchezze e certezze del mondo. Spera ancora che sia da qui che possa aver vita, che sia qui il segreto di una vita riuscita. Se ne va rattristato perché non ha il coraggio di affidarsi a quello sguardo, di confidare in quell’amore, di abbandonare tutto in mani povere.

E Gesù ricorda allora ai suoi discepoli che è difficile entrare nel regno se sono molte le ricchezze che trattengono i piedi, che tentano di rendere più dolce la sete, di mascherare la mancanza di vita.

È difficile entrare nel regno perché bisogna accettare la sfida di rinunciare a ciò che sembra mantenerci vivi per accogliere il dono di Colui che è la vita.

E il dubbio dei discepoli è forte e insidioso. Nessuno può fare questo.

E chi può essere salvato?

È impossibile vivere in questo modo. È impossibile rinunciare a tutto. È impossibile entrare nel regno. Siamo tutti legati a qualcosa, speriamo tutti di avere in mano ciò che ci permette di vivere appieno. Sono ricchezze, idee e convinzioni, sono programmi, ideali e certezze. Eppure sappiamo che ciò che ci manca è ricevere in dono una vita piena. E speriamo ancora che essa ci giunga da ciò che abbiamo e a cui ci siamo legati. I ricchi sono quindi i più disperati. Continuano a stringere cose perché sperano di ricevere vita da ciò che invece toglie loro il respiro, rallenta il cammino e rinchiude il cuore. Eppure sono ancora lì, con tanta sete di vita e una speranza che è disperata.

Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio».

Eppure a Dio nulla è impossibile. E inizia qui l’essere poveri, l’essere piccoli e senza certezze. Nessuno si può salvare da solo, nessuno può rinunciare a tutto se non per lo sguardo d’amore divino che lo raggiunge e riempie la vita. È in quello sguardo che si compie il mistero. Non è impossibile che un ricco si faccia povero, che uno che ha mille certezze abbandoni tutto per affidarsi ad uno sguardo che svela l’amore. E quello sguardo è spada che si fa affilata, penetra dentro e separa ogni cosa.

Ci vuole un miracolo e una guarigione per avere il cuore che si fa libero, per avere un passo che diventa leggero, per sentire un amore che spinge a donare.

E allora ogni lasciare diventa un ricevere, ogni rinuncia si fa accoglienza.

Liturgia della Parola

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