Una fede che sa di satanico

XXIV Domenica Tempo Ordinario Anno B (Is 50,5-9a; Gc 2,14-18; Mc 8,27-35)

Credere non è punto di arrivo, meta a cui si è arrivati, traguardo che permette la quiete. Credere è rimettersi ogni volta in cammino, dando inizio a qualcosa di nuovo. Per un viaggio non basta la mappa o sapere il tragitto. Non puoi accontentarti di conoscere a memoria gli snodi e i sentieri senza però mai averli percorsi. Serve mettersi per strada e vedere ogni segnale, seguire il sentiero a cui la mappa conduce. Bisogna quindi conoscere e prendere per buona la mappa, studiare le tracce e persino i tragitti ma solo per mettersi finalmente in cammino ed iniziare il vero percorso. 

Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». (Mc 8,27)

Siamo allo snodo del vangelo che Marco ci narra. È il punto di non ritorno, di crisi e di rottura. Gesù parte e il viaggio questa volta punta allo svelamento supremo di ogni mistero, alla rivelazione che nessuno si aspetta.

Si è discepoli se ci si pone alla sua sequela, se cioè si scende per strada lasciando che sia lui a guidare il cammino. Il credente è un uomo tra gli altri che ha scelto di mettersi in moto, di farsi scomodare la vita, di farsi sradicare da ogni umana certezza. Restare per strada è vivere ogni cosa, persino la fede, come precaria. Ed è per strada che Gesù interrogava. È la strada stessa a porre domande. A chiederci se ne valga la pena, a ricordarci di non dare per certo ciò che stiamo cercando, a non pensare come già saputo e conosciuto colui che invece si sta rivelando. 

Gesù interroga i suoi discepoli: la gente chi dice che io sia?

Quelle della gente, nel vangelo, sono risposte che restano ai margini del suo vero volto. Non sono risposte nate per strada. Sono parole dette per sentito dire, per racconti che non si sono vissuti, per cose viste come si vede una storia che non ci riguarda. La gente è fatta di quelli che lo conoscono, lo hanno sentito parlare. Hanno visto qualcosa di quello che egli sa fare. Ma la gente non è per strada insieme con lui, non lo segue e non è dei suoi.

Ci serve oggi fermarci alla gente. Chiedere ai discepoli cosa la gente dica di lui, risuona per noi oggi come il bisogno di chiederci e interrogarci ancora. Chi è Gesù per la gente? Chi è per coloro che non sono con lui? Chi è per quelli che di lui hanno sentito parlare? E allora dobbiamo metterci in ascolto di queste risposte per capire dove si è fermato l’annuncio, dove non abbiamo saputo accompagnare i fratelli, dove li abbiamo lasciati soli in cerca di un Gesù che, intanto, loro e forse anche noi ci siamo persi per strada.

Porsi in ascolto degli altri è importante per capire e comprendere dove sono rimasti fermi, dove si sono seduti. A quale punto della storia hanno ceduto il passo. È importante per noi saperlo per capire dove possiamo trovarli e incontrarli. Dove possiamo sollecitarli a riprendere strada. Dobbiamo fermarci con loro lì dove sono non per prendere per buona ogni loro risposta, ma per capire dove anche noi abbiamo sbagliato, cosa di lui non abbiamo saputo mostrare, quale sfregio che abbiamo dato al suo volto li ha convinti a fermarsi e ad accontentarsi. E poi per rimetterci in cammino con loro, per rifare anche con loro la strada. E forse anche questo è un modo per iniziare a vivere il Sinodo, per ritrovarci con gli altri e riprendere con tutti il cammino.

Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti» (Mc 8,28)

I discepoli riferiscono risposte che non hanno nulla di nuovo. Egli appare come uno dei tanti, uno dei moralisti, dei fustigatori dei costumi dell’uomo, uno che parla in nome di altri. La gente non sa andare al di là del sentito dire, di ciò che già pensa di sapere e conoscere. Rilegge il volto di Gesù con i volti di coloro che già conosce. Chi è Gesù per la gente di oggi? Quale volto di lui conosce? E forse anche le risposte della gente di oggi sono simili a quelle della gente di cui parla il vangelo. È uno dei tanti, un profeta, uno che ha parlato bene, uno che vuole moralizzare, uno che predica amore e non violenza, uno che dice che bisogna amarsi. Detto senza mezze misure: è uno dei tanti e, per questo, uno di cui forse non ne sentiamo il bisogno. Restando seduti nelle proprie certezze, ancorati alle proprie convinzioni, è difficile scorgere la novità inaudita di quell’uomo che si chiama Gesù e il rischio è di confonderlo con uno di tanti maestri che la storia ha conosciuto.

Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?» (Mc 8,29 a)

Ad un certo punto, però, la domanda si fa personale. Il camminare dietro lui, il restare nella sequela è lasciarsi sempre colpire da questa urgente e pungente domanda. Ci sentiamo scavare il cuore e la vita da questo interrogativo. Cosa hai capito tu di me? Chi sono io per te? Quale mio volto tu riesci a vedere? 

Mentre la strada si apre davanti, ogni giorno, questa domanda ci raggiunge e ci chiama a risposta. E bisogna imparare a rispondere. Bisogna sapere quale volto diamo e quale volto viviamo di colui che stiamo seguendo. Dobbiamo saperlo! Perché il rischio è di immaginare e costruire volti che siano solo riflessi del nostro specchio, un Dio che sia solo immagine di ciò che vogliamo.

È domanda che non lascia pace, che sollecita risposte e sempre nuovi cammini. 

Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno (Mc 8, 29a-30)

La risposta di Pietro è perfetta. Egli ha compreso la portata di colui che ha di fronte. Egli, per la prima volta in tutto il vangelo, proclama la verità su Gesù. Fa bene la sua professione di fede. Conosce bene il dogma. È per questo che Gesù impone il silenzio. I discepoli che sono per strada con lui possono conoscere il suo volto e il suo nome. Egli è il Messia atteso, quello che Dio ha promesso. Ma nessun altro può ancora saperlo perché le parole restano ambigue. Persino i dogmi restano ambigui se non sono vissuti come segnali di un cammino da fare, come tracce di una vita da vivere. È vero, infatti, che i dogmi possono diventare strumenti di potere, aridi e senza più senso. Ma non possiamo rinunciare ai dogmi, alle certezze di fede, in nome di una ricerca di Dio che sia libera e senza vincoli. Rischieremmo di incontrare noi stessi e non il suo volto.

È tema rischioso e ambiguo. Anche Gesù ci mostra che serve sapere chi è, serve dare un nome nuovo al suo volto e alla sua opera. Servono i dogmi e servono anche i concetti e i contenuti di fede. Il rischio sarebbe di vagare inseguendo nuvole e nostri umani ragionamenti. Eppure anche quel nome, il suo, bisogna tacere. Non si può davvero parlare di lui se non quando si è dietro di lui lungo la strada. 

Credo sia questo, oggi, il vero problema. Parliamo di Dio e della fede senza essere in cammino con lui, senza sporcarci la vita, senza rischiare ogni cosa con lui. Usiamo spesso parole di fede che restano ambigue perché hanno sapori che non abbiamo gustato. Che egli sia il Cristo è vero ed è giusto. Ma Pietro e i suoi non possono ancora dire bene questo suo nome, divulgare il suo volto e la sua voce. Rischiano di fraintendere tutto, di confondere ogni discorso. Devono prima seguirlo davvero, rifare con lui il suo cammino, restare con lui nel momento cruciale, quello della croce, dove egli svela per sempre il suo mistero. Ci sono ancora parole come Dio, Cristo, Onnipotente, libertà, amore, peccato, sacrificio, salvezza e tante altre che oggi suonano strane e persino assurde se prima non si è vissuto con lui lungo la strada, se non si è fatto con lui tutto il cammino. È per questo che oggi queste parole alcuni le usano come pietre da scagliare contro e altri le vedono come pulviscolo da calpestare. Le parole da sole non bastano! Non basta il “credo” e non bastano i dogmi per essere pienamente credenti! Sono solo segnali che indicano il cammino, mappe che mostrano qual è la strada, varchi che aprono un nuovo sentiero.

E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere.
Faceva questo discorso apertamente
(Mc 8,31-32a)

È per questo che Gesù rivela ora il suo percorso e mostra cosa significhi essere il Cristo. Di lui si può parlare apertamente solo seguendone la storia e la sorte. È questo il cammino del Cristo, è questo il modo in cui egli è il Messia. È questo ciò che rivela il volto di Dio. È il rifiuto e la sofferenza, la condanna e la morte, la sosta nel sepolcro e la risurrezione a dire davvero chi sia il Cristo. Pietro e noi possiamo dire di lui parole giuste, possiamo imparare teologie e idee. Ma poi serve fare esperienza di lui, del suo cammino e della sua sorte. Egli è il Cristo! Ma non lo è alla maniera umana, secondo le attese del cuore, secondo i nostri sogni di gloria. E mentre chiede che venga taciuto il suo nome, egli parla apertamente della sua sorte. 

Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini» (Mc 8,32a-33)

E Pietro mostra ora il vero snodo di ogni credente. Pensiamo di sapere chi sia Dio, di conoscere tutto di lui solo perché conosciamo bene il suo nome, sappiamo i dogmi e conosciamo il “credo”. Pietro pensa di poter insegnare a Dio il suo mestiere e, da buon consulente, lo prende in disparte, per rimproverarlo. 

Gesù qui rompe ogni argine. Rimette ogni cosa a suo posto. Rimprovera Pietro davanti a tutti e lo chiama con il nome più ignobile. 

È satanico pensare di dettare a Dio la sua agenda, di guidare il Messia sulle strade del mondo. È satanico conoscere il credo e ogni dogma senza mettersi ancora in cammino. È satanico un dogma che diventa pietra da scagliare, è satanico un credo che diventa compiacimento, è satanico un uso umano delle parole divine, è satanico usare Dio per inseguire logiche e poteri del mondo. È satanica la fede in un Dio che non si è conosciuto sotto la croce, è satanica una chiesa che non vive fino in fondo l’umiliazione della via che il Maestro ha percorso. È satanica la teologia quando si accontenta di dire Dio e di declinarlo secondo pensieri e logiche umane. È satanico il credente che si ferma a ritenere per vere le cose e non si getta, anima e corpo, a seguire il cammino concreto, fatto di polvere e sangue, di colui in cui dice di credere. È satanico usare Dio per fare il proprio volere, per pensare secondo i propri criteri.

Sì, anche i credenti sono satanici quando invece di accogliere le indicazioni che tracciano la rotta da percorrere per giungere sulla via della croce, pensano di poter prendere scorciatoie che tirano Dio per la giacchetta, che lo riducono ad amuleto, che lo rendono un semplice maestro morale, che lo presentano come un potente che assicura la gloria, che lo presentano come un calmante per l’ansia e l’inquietudine di ogni vissuto. 

Pietro deve rimettersi dietro a Gesù, compiere il suo stesso cammino, affrontare con lui la via della croce. Deve pensare secondo Dio e può impararlo solo vivendo sulla sua pelle la via della croce, quella via dove i dogmi e lo stesso “credo” sono segni per non perdersi, segnali che mostrano la via da percorrere. 

Le parole della fede sono vive se si fanno cammino, se sono vissute come scommessa in cui si mette in gioco la vita. 

Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà» (Mc 8,34-35)

Gesù convoca allora la folla insieme ai discepoli. Anche la gente, che non deve ancora sapere il suo nome, può scoprirlo e riconoscerlo solo facendo il suo stesso cammino. A volte, infatti, è anche meglio tacere e affrontare in silenzio la strada. Almeno fin quando la vita non conduce sotto la croce, lì dove ogni cosa si rivela per sempre. Nel vangelo secondo Marco solo sotto la croce, infatti, una voce umana riconoscerà in quell’uomo, che è appena morto, il Figlio di Dio.

Bisogna camminare fin sotto la croce perché il credo e ogni parola di fede si chiarisca e abbia il suo senso.

Credere è fare proprio il suo cammino, vivere la strada che egli ha percorso. Non bisogna fare affidamento a se stessi, ma prendere la croce e farla propria, imboccare la sua strada e farla nostra. Credere non è aderire ad una idea o a un programma. Credere è perdere vita, è giocarla e rischiarla dietro di lui.

A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha opere? Quella fede può forse salvarlo?
Uno potrebbe dire: «Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede».
(Gc 2,14.18)

Nessuna parola su Dio è vera se non è raccontata attraverso le opere. Non c’è fede senza le opere, non c’è fede senza la vita, non c’è fede senza quel continuo restare per strada e in cammino vivendo la via della croce.

La fede senza le opere è morta e produce morte. Le parole non servono a nulla se restano lettere perse nel vuoto. Le parole servono ad aprire il cammino, ad indicare la strada e a mostrare la meta. E nel mezzo ci siamo noi e il nostro cammino, sempre sospesi e sempre pronti a rispondere, a dire chi è oggi egli per noi. E ogni giorno risponderemo meglio a questa domanda, sapremo dirlo sempre più vero se sapremo viverlo in ogni scelta.

Sono le opere a raccontare e a dire la fede, a far vedere che anche i dogmi e il credo hanno un senso, che tutto può diventare vita vissuta. Una fede senza le opere, cioè senza mettersi davvero in cammino, è bestemmia e sacrilegio, è satanismo e idolatria. La fede vera sboccia in opere vere, in scelte che sanno di amore, che hanno il gusto di ciò che è gratuito, che hanno la forza della via della croce.

Liturgia della Parola

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