Erranti come pecore

IV domenica di Pasqua A (At 2,14a.36-41; 1Pt 2,20b-25; Gv 10,1-10)

È difficile parlare di pecore e di pastore, di recinti e di porta. Siamo convinti che ciascuno basti a se stesso e sappia già dove andare. Non sentiamo il bisogno di stare insieme, di essere gregge che si ritrova. E poi ci ritroviamo a leccarci le ferite, rinchiusi nelle verità che abbiamo elevato a torri di difesa e di attacco. Siamo incapaci di riconoscerci e saperci vicini.

Ci siamo separati dagli altri per non essere gregge e rischiamo di diventati gregari, massa senza nomi e senza volto, alla ricerca di un’ideale di turno o di una battaglia che ci faccia sentire vivi, di un leader al quale affidare la sorte e con essa il bisogno di sentirci utili. Vorremmo essere liberi, senza una guida e un pastore, e poi smaniamo per conquistare l’attenzione del primo mercenario di turno, che sia persona o ideale, idea o ideologia, progetto o riforma, visione o conquista. E saremmo pronti per questi a dare persino la vita, soprattutto quella degli altri.

Ci vuole coraggio per ascoltare, ancora una volta, la storia del pastore e delle pecore, del gregge e dei recinti. 

È un bagno di umiltà la Parola. Ci fa guardare dentro, ci priva dei mondi e dei concetti che abbiamo costruito e ci fa vedere, nuda come è sempre, la carne vera della nostra umanità. 

E allora dobbiamo lasciarcelo ridire senza preamboli: abbiamo bisogno di un pastore, ci serve una guida che sappia orientare i nostri passi, che sappia amarci e tenerci vicini, che sappia difenderci e proteggerci da tutto, persino dalla stessa vita. Abbiamo bisogno di una porta da attraversare, di un criterio da fare nostro, di un’apertura che ci faccia entrare in orizzonti un po’ più ampi dei nostri cortili.

In quel tempo, Gesù disse: «In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore (Gv 10,1-2)

C’è differenza tra il ladro e il pastore. Gli approcci e le finalità sono diversi. Solo chi entra nel recinto delle pecore dalla porta è il pastore. Il recinto, nel termine usato da Gesù, corrisponde al cortile del tempio. Il tempio di pietra, nel quale i fedeli incontravano Dio, ha una sua porta e solo Gesù sa attraversarla. 

Dio raduna il suo gregge, raccoglie le sue pecore nei suoi atri, ma non tutti quelli che vi entrano sono pastori. Gesù sa entrare nel recinto attraversando la porta perché soltanto lui è venuto per essere il pastore delle pecore. 

L’immagine del pastore è densa di significati e rimandi. Tutta la storia d’Israele è storia di pastori. Alcuni, però, sono ladri e briganti. Il criterio per riconoscerli è sapere da dove entrano nel recinto. L’immagine resta ambigua. Gesù è il pastore legittimo, quello che viene per rendere sicuro il gregge, per prendersi a cuore la sorte di ognuno, per guidare chi non sa dove andare. Egli sa come entrare nel tempio, come avere accesso al Padre e, quindi, accesso al cuore delle sue pecore. È uno stile di amore e di attenzione, in polemica con lo stile che, nel contesto del vangelo, l’evangelista attribuisce ai farisei. Questi sono considerati e modellati come coloro che usano il gregge per i loro vantaggi, lo sfruttano per il proprio dominio, lo spremono per le loro esigenze. Il pastore delle pecore, invece, ha uno stile diverso. 

Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei» (Gv 10,3-5)

Le pecore ascoltano la voce del pastore, la riconoscono tra mille, ne sentono il suono e sanno che è voce amica. Il pastore, dal canto suo, sa come parlare al gregge perché sa come parlare ad ogni pecora, le conosce tutte per nome. Sono sue perché gli appartengono ed egli ha scelto di essere loro. Il pastore non conosce numeri o masse, folla o gente informe, egli conosce ciascuna delle sue pecore, ne ama la storia e l’identità. Le chiama per nome perché, pur restando insieme nell’unico gregge, ciascuna sappia di essere accolta, di essere amata per il suo volto, di essere, per il pastore, unica per il suo nome.

Il pastore le chiama e le conduce fuori. Ci sono esodi che bisogna compiere guidati dalla voce di chi ci ama. Portare fuori è liberare da recinti troppo ristretti, da vite asfittiche e senza speranza, da orizzonti che sono prigioni. Egli le porta fuori, le spinge con amore violento perché ciascuna sappia di essere libera nel tempio nuovo che non ha confini. Le spinge fuori dal recinto del tempio, che è solo segno e profezia del tempio nuovo del suo corpo glorioso. Le conduce fuori, all’aperto, lontano dagli steccati e dai recinti, fuori persino dai cortili sicuri di una religiosità a misura umana, di ogni visione ristretta di Dio e di ogni visione ridotta dell’uomo.

C’è bisogno di questa scommessa di fiducia, di questo anelito di libertà, di questo esodo che è sempre nuovo.

Il pastore cammina davanti. Non basta uscire dai recinti. Dentro si può restare schiavi ma fuori ci si può perdere e restare preda di lupi e briganti. Bisogna che il pastore cammini davanti e guidi le pecore, perché solo lui conosce il cammino e può renderlo sicuro.

Camminare avanti è aprire la strada, renderla praticabile, riconoscerla come sentiero e spazio di libertà. E le pecore sanno che possono fidarsi e seguire chi si è messo in testa alla fila, chi continua a dire parole che risuonano nel cuore e nella vita di ognuno. 

Esse lo seguono perché conoscono la sua voce. La sentono familiare, parte della loro storia, sillaba del loro vissuto, eco della loro esperienza. Il pastore sa farsi capire, sa farsi sentire perché sa parlare la lingua dell’amore. Ciò che egli che dice risuona in ognuno. E ciascuno sente che il pastore parla di me, parla a me, parla con me, parla per me. 

Gli estranei, invece, non hanno la voce accordata alla vita delle pecore, resta voce impastata di interessi, intessuta di privilegi, condita di proprie finalità. L’estraneo non sa amare e la voce dell’amore ha un suono che ciascuno riconosce.

È bello sapere che il pastore ha una sua voce, unica e inconfondibile, l’unica degna di ascolto e di sequela, di fiducia e di affidamento.   

Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo.
Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza»
(Gv 10,7-10)

Davanti al tempio, davanti alla porta delle pecore, così chiamata perché da lì entravano gli animali destinati ai sacrifici, Gesù osa e si spinge oltre. Io sono la porta delle pecore. Dice il nome di Dio e dice: io sono la porta che conduce al Padre, che mette in relazione Dio e le sue pecore, il Padre e i figli amati. 

È lui il criterio che distingue il dentro dal fuori, il gregge dai suoi nemici, la vita dalla morte.

Il tempio diventa segno e figura. È il suo corpo lo spazio nuovo in cui si intesse la vita, in cui Dio si mostra. È lui il varco per entrare e uscire, è lui il passaggio che dona salvezza, è lui la porta che conduce al pascolo.

La contrapposizione con il ladro è ora totale. Questi viene per rubare, uccidere e distruggere. Ci sono ladri, attorno a noi, che ci strappano di dosso la vita, che ci spogliano di noi e del nostro volto. Ci sono cose che ci usano e ci gettano, ci sono situazioni che ci fanno morire. 

Egli, pastore e porta, è venuto invece perché abbiamo la vita in abbondanza. È venuto per darci la sua stessa vita. Pastore non è più colui che si serve del gregge per restare in vita, ma colui che dà la sua vita perché il gregge resti al sicuro. La sua vita è fatta dono. Per questo egli è venuto, per dare la vita e darla tutta, in abbondanza.

Io sono la porta delle pecore, dice Gesù, relativizzando il tempio e i suoi sacrifici, perché il suo corpo e la sua vita donata è la nuova porta che apre orizzonti inauditi, una vita al di sopra di ogni aspettativa.

Abbiamo bisogno di essere amati perché solo quello ci tiene in vita. Riconoscersi pecore è sapere che ci perdiamo per strada, che non sappiamo avere la meglio sui lupi, che siamo sempre a rischio di disperderci e perderci. Il Pastore vero ha una vita, la sua, da donarci e da mettere in gioco. Per questo possiamo fidarci, per questo possiamo affidarci.  

Cristo patì per voi,
lasciandovi un esempio,
perché ne seguiate le orme […]

dalle sue piaghe siete stati guariti.
Eravate erranti come pecore,
ma ora siete stati ricondotti al pastore
e custode delle vostre anime (
1Pt 2,21b.25)

È questa la Pasqua. 

Eppure, guardando a noi stessi e guardandoci attorno, dobbiamo farci qualche domanda. Perché oggi tante pecore che il pastore ama corrono dietro a briganti ed estranei? Perché fuggono in cerca di lupi e nuove avventure? Perché sembra muta la voce del pastore e inutile la sua presenza? Perché facciamo tanta fatica a riconoscerla e a sentire che egli ci chiama ancora per nome?

Liturgia della Parola

L’immagine riproduce l’opera di Lorenzo Pietrogrande, Io sono la porta delle pecore

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