Per strada ci siamo anche noi

III domenica di Pasqua A (At 2,14.22-23; 1Pt 1,17-21; Lc 24,13-35)

L’avventura dei due discepoli di Emmaus è quella nostra. Anche noi siamo spesso in cammino, senza speranza e con poca fede. Delusi e amareggiati, impegnati in tante discussioni che ci fanno perdere fiato e rendono il cammino sempre più incerto e insicuro. Eppure, mentre abbiamo deciso di voltare le spalle all’unico luogo che può darci speranza, proprio allora possiamo sentire che, in questo cammino di disperati, di gente delusa e disillusa, non siamo soli.

Certo, siamo esperti di vangelo e lo sappiamo. Ma la storia dei due di Emmaus ci può sconvolgere ancora. Non solo perché è la nostra storia, di noi spesso in fuga, sicuri e rassicurati dalle nostre stesse disperazioni, ma anche perché deve diventare la storia di ogni fratello e sorella che incontriamo nel nostro cammino. 

Conviene, quindi, rileggere la vicenda di Emmaus anche ribaltando le parti. E se, per una volta, ci decidessimo a lasciar perdere la parte, ormai facile, dei due di Emmaus e iniziassimo a confrontarci con la parte di Gesù?

Il cammino nel mondo, la nostra presenza in questo tempo, il nostro solcare i sentieri di questa storia non ci chiede forse di essere come lui, di essere suo volto e presenza, sua voce e suo segno?

Dovremmo, quindi, pensare ai tanti che oggi si muovono delusi e stanchi, a quelli che vanno lontani dalle nostre riunioni, dalle nostre assemblee, dalle nostre chiese. Sono delusi e disillusi. E non importa di chi sia la colpa. A noi importa il loro sguardo, il loro volto che non sa più che cercare. A noi interessa il loro pensiero che sembra smarrito, il loro cuore che sembra freddo. Proprio a loro Gesù si accosta. Si intromette nei loro discorsi, nelle loro chiacchiere di disillusi. E anche noi dovremmo fare lo stesso.

Ed ecco, in quello stesso giorno [il primo della settimana] due dei [discepoli] erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto.

Siamo nel giorno di Pasqua e, nonostante lo scorrere dei giorni del calendario, è anche per noi ancora quel giorno. Ogni giorno è diventato pasquale. Ma due dei discepoli sono in cammino contrario. Hanno lo sguardo, il cuore e i passi rivolti altrove. Lontano da Gerusalemme. Forse ritornano alla loro vita, alla loro casa, alla loro storia. Ogni esistenza può trovarsi davanti al tentativo e alla tentazione di ritornare a ciò che si era, di andare indietro, di sfuggire al presente, alla delusione che costringe il cuore. La sensazione è quella di aver perso soltanto tempo per un’avventura che non lo meritava. I due discutono animatamente di quanto è accaduto. Quanto è avvenuto, per loro, non è un fatto di cronaca, non è qualcosa da commentare. Ciò che è avvenuto li riguarda, li mette in questione. È di loro stessi che parlano, della loro delusione e della loro sconfitta, della loro perdita e della loro illusione.

È un cammino ostinato fatto al contrario, per lasciarsi alle spalle la storia di quell’uomo che li aveva entusiasmati. La loro e la sua è solo la storia di un fallimento. E discutono, perché, quando la speranza è svanita, si cerca sempre di colmare il vuoto che si è creato con le discussioni, con la ricerca di qualche colpevole. Parole vuote, le loro, perché incapaci di penetrare il mistero, di accogliere quella Parola che rende sensata ogni altra parola.

Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo.
Ed egli disse loro: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?». Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Clèopa, gli rispose: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?». Domandò loro: «Che cosa?». Gli risposero: «Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto». Disse loro: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui.

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Mentre discutono e conversano, Gesù si accosta e cammina con loro. È l’immagine del Dio di sempre. Un Dio che cammina a fianco dell’uomo, che sceglie di fare il suo percorso, anche quando il cammino è fatto al contrario. Gesù si muove con loro, si fa vicino alla loro fatica, si fa spazio tra le loro parole, si fa presenza nell’assenza che essi lamentano.

Alle spalle hanno un sentiero tortuoso, hanno cammini che sono confusi. La ricerca della speranza è sempre tortuosa, passi sbagliati che vanno e vengono. Ciò che hanno vissuto non è chiarito dai ragionamenti, non ci sono pensieri che possano illuminare. Anche il cuore sembra stanco, affaticato, incerto sui suoi sentimenti.

Ogni speranza alla fine tramonta, ogni ricerca cede il passo alla rassegnazione. Ma è proprio allora che Gesù si affianca a loro. Non lo riconoscono e non sanno vederlo perché la speranza non è a buon mercato, non è ottimismo che sfida la realtà. Essi sono contorti e concentrati alla ricerca di un esito da vagliare con criterio umano. Vogliono risolvere un problema che, hanno già deciso, non ha soluzione.

Eppure anche oggi ci vorrebbe un viandante che ci accosti e ci chieda “che sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?” Facciamo ancora discorsi da disperati, da gente che non sa che pesci prendere, da gente disillusa e rassegnata. Oppure, facciamo discorsi altisonanti, che non sanno scendere fin dentro al petto, che non sanno infiammare e graffiare la vita, che non sanno scuotere e far ardere il cuore.

Gesù cammina con loro. Fa con loro la strada insieme. Diremmo, oggi, fa sinodo insieme a loro. Perché credere è camminare insieme, anche insieme a quelli che vanno in direzione contraria. È farsi accanto a ciascuno, farsi vicini alle loro storie, farsi intimi delle loro fatiche. Senza pregiudizi o manie di purezza, senza selezione o previo avviso. Essere cristiani è camminare, come Cristo, nelle strade del tempo, è essere lui in questo mondo.

Dobbiamo interessarci ai discorsi di oggi, ai pensieri di quest’umanità che non ha appigli a cui aggrapparsi, che non ha speranze a cui affidarsi, che non ha fede su cui puntare, che non ha un Dio che possa salvarla o, forse, ne ha troppi perché siano credibili. Dobbiamo guardare in faccia il volto triste di chi ci è accanto, dobbiamo sentire le loro ferite, dobbiamo far nostre le loro speranze tradite. A volte, lo sappiamo, anche noi siamo percepiti come forestieri che non sanno parlare la loro vita, che non sanno ascoltare le loro voci.

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Dobbiamo avere il coraggio di entrare nei fallimenti di ognuno, di penetrare nelle tenebre del nostro tempo per depositare, proprio lì, tra tante parole buie e confuse, la Parola che è seme che squarcia la notte, la Parola che dona senso alle altre parole. La parola della croce che è la parola dell’amore. La parola della vita che dilata la speranza e rende sensata la fede.

I due sono sconvolti. È svanita la loro speranza, si è ridotta a visioni di donne, ad una tomba che non accoglie nessuno, ad uno sguardo che è stato negato perché “lui non l’hanno visto”.

Sembrano svanire così anche tante nostre speranze, tanta fede che è solo illusione, tante certezze che non si reggono in piedi. Oggi manca la fede e poi scopriamo che i tanti, che hanno perso la fede, hanno perso soltanto un appiglio umano, una certezza che li reggeva in piedi, un’idea o un pensiero a cui si aggrappavano.

Perdere la fede non è un dramma, dramma è pensare di credere senza aver attraversato il sentiero oscuro che da Gerusalemme ci porta ad Emmaus. Credere è vedere vuoto il cuore, è incontrarsi con ciò che non ha senso e ci priva di ogni speranza. Credere è accogliere una parola altra che illumina di senso le nostre parole. Credere è lasciare che il cuore ci arda mentre attraversiamo il sentiero stretto della passione e della croce.

“Bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria“. E anche noi dobbiamo accogliere questo passaggio, questo criterio che sana la fede, questa porta che rende vera la nostra speranza.

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Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Egli entrò per rimanere con loro.

Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista.

Le parole, però, non bastano. Ci vuole una vita che venga donata, ci vuole un gesto che renda presente il dono, ci vuole un segno che renda nuova la vita. Ci vuole la presenza di un amore spezzato, di una vita che è condivisa. Gli occhi dei discepoli si aprono e riconoscono colui che sparisce dalla loro vista. Riconoscono, nel segno della frazione del pane, l’amore che non si consuma, il dono che non viene meno, la presenza che resta presente nella sua assenza. Non hanno più bisogno di vedere con gli occhi. Mistero d’amore che sa vedere chi non si vede, che sa riconoscere colui che scompare, che sa accogliere colui che, donandosi, resta presente nella sua assenza. Gesù inaugura il tempo nuovo, quello della parola e del pane. È il tempo dell’Eucaristia, in cui la parola si dona nel pane e il pane si dice nella parola. Ma è anche il tempo della nostra presenza. Anche noi, ai disperati di oggi, ai disillusi che incontriamo nel nostro cammino, dobbiamo donare parole che facciano ardere il cuore e dobbiamo spezzare per loro la nostra vita. L’incontro con il Cristo si compie anche attraverso l’incontro degli altri con noi, con le nostre storie, con il nostro amore, con il nostro servizio, con il nostro prendere la vita e farne dono.

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Ed essi dissero l’un l’altro: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?».
Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane.

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Ogni incontro con il Risorto rimette in piedi e mette in cammino. I due di Emmaus, senza indugio e di notte, rifanno ora la strada al contrario. Si muovono verso Gerusalemme, verso la comunità, verso i fratelli.

L’incontro con Cristo mette fretta perché bisogna annunciare agli altri ciò che noi abbiamo vissuto, ciò che Dio ci ha fatto vedere. A Gerusalemme, la comunità si ritrova per raccontare le meraviglie di Dio. Gli uni e gli altri si dicono che Gesù è davvero risorto, che è apparso e si è fatto riconoscere in quel gesto che dice l’amore, che dice la croce che ha vinto ogni odio. La speranza rinasce così, grazie a parole che colpiscono al cuore, grazie ad un pane che sazia la fame, grazie a una vita che rimette in cammino.

Ed è così che si fa sinodo, è così che nasce l’incontro. E anche nel buio della nostra notte potranno risplendere le stelle.

* Le immagini sono tratte dal ciclo di Emmaus di Arcabas

Liturgia della Parola

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