Testimoni dell’Agnello

II Domenica del Tempo ordinario A (Is 49,3.5-6; 1Cor 1,1-3; Gv 1,29-34)

Dopo aver celebrato il mistero dell’incarnazione ed essere stati partecipi della duplice manifestazione di Dio nella carne di un uomo (ai Magi e nel battesimo al Giordano), il cammino si ferma, prima di proseguire sul sentiero ordinario, dinanzi ad una ulteriore manifestazione della gloria divina, quella nascosta nel servo che si fa agnello. «Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria» (Is 49,3).

L’immagine del servo, che Isaia delinea, è quella di colui che, come agnello mansueto, si lascia condurre al macello portando su di sé il peccato di molti. È su di lui che Dio manifesta la sua gloria, quella stessa che Giovanni indica nell’uomo che viene verso di lui. 

Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”» (Gv 1,29-30)

Il Battista ha negato di essere il Cristo. È soltanto voce che grida e annuncia. Quando vede venire Gesù, lo indica come colui che si affaccia, sulla scena della storia umana, dopo di lui e che, tuttavia, è avanti a lui perché è prima di lui. 

Colui che è prima e attende vede l’atteso farsi vicino, colui che aveva preparato la strada vede arrivare colui per il quale sta spendendo la vita. 

Giovanni è lì, con la sua forte e austera testimonianza, a indicare colui che viene, a mostrarlo e a farlo vedere. 

È indice puntato, è sguardo rivolto altrove. Egli rimanda al di là di sé, è freccia e segno che rimanda all’altro. Giovanni è sulla scena del mondo per indicare colui che viene, per farlo conoscere e farlo vedere. 

Questa celebre scena richiama e insegna il senso di ogni missione, il valore di ogni testimonianza, la verità di ogni servizio. Giovanni è mano che mostra, è parola che evoca, è slancio che dona, è vita che apre all’incontro. Il testimone è tale perché allontana da sé per orientare all’altro.

Giovanni indica Gesù e lo fa conoscere come l’agnello di Dio, venuto per sollevare e prendere su di sé il peccato del mondo che, in questo modo, ne è liberato. 

Quella dell’agnello è immagine pregna. Richiama la storia di un popolo.

Gesù è agnello in un mondo di lupi, appare sulla scena debole e indifeso, pronto a servire la vita, a donare se stesso e il suo sangue, a subire il dolore e ogni vendetta. L’agnello è colui che viene immolato perché il suo sangue, vita donata e non trattenuta, segni l’inizio della libertà, il riscatto da ogni schiavitù.

Egli è l’agnello pasquale che segna il passaggio da una morte, che ha preso in ostaggio la vita, ad una vita che ha vinto la morte perché ha sconfitto ogni odio e paura. 

L’agnello è il servo, richiamato nella prima lettura, mandato per essere luce delle nazioni e donare la salvezza non soltanto al popolo d’Israele, come nella prima Pasqua, infatti «È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele. Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra» (Is 49,6).

L’agnello è la presenza, sulla scena di questo mondo, di un Dio che non sbraita e non annienta, ma che si lascia condurre per mano fin dentro il male che impregna la storia. È un Dio che si fida e si affida e varca, senza timore, i confini delle tenebre, il limite estremo di ogni odio e dolore, perché anche lì risplenda un po’ di candore e di dolcezza. Egli è l’agnello che riscatta la vita e accetta che i lupi, di tutti i tempi, facciano di lui il loro bersaglio e la loro vittima. 

Egli è l’agnello che, subendo il male di tutta la terra, annienta ogni male nel suo stesso nascere, perché non risponde al male ricevuto, non contrattacca e non si difende. 

Egli è l’agnello di Dio perché è il servo condotto al macello per manifestare la gloria divina, per far vedere l’amore che vince, per illuminare di perdono ogni notte di odio, per far brillare la salvezza donata che annienta e prende su di sé il male del mondo.

Egli è l’agnello di Dio perché è il suo sangue che toglie al male la forza di nuocere e di moltiplicarsi. 

Egli è l’agnello che Dio si è provveduto, perché è il Figlio che dona se stesso e si immola sul monte. “Dov’è l’agnello per l’olocausto?”, aveva chiesto Isacco al padre Abramo. Ed è Giovanni ora a rispondere. È Gesù l’agnello che Dio si è provveduto per donare, una volta per sempre, un futuro che resta inatteso, una speranza che non si può sperare. 

Egli è l’agnello che prende e toglie il peccato del mondo. Toglie il peccato perché se ne fa carico, perché lo prende sulle sue spalle. È l’agnello innocente che subisce il peso di tutto il male e lo accoglie senza fiatare, senza cedere a desideri di rivalsa e vendetta.

E quel peccato è la sintesi, la somma, la forma di tutti i peccati. Tutti i peccati dell’umanità sono racchiusi e sintetizzati in una forza di male, in un peccato di cui i singoli atti sono l’espressione e la concretezza. C’è, infatti, un unico peccato: non credere in Gesù (Gv 16,9), cioè non credere nell’amore di Dio, non credere all’Amore. 

E solo Colui che è l’amore può annientare il peccato, può cioè liberare gli uomini da questa incredulità, rivelando, una volta per tutte, che tutto l’odio del mondo, che tutto il peccato dell’umanità, che tutti i peccati di tutti possono essere presi e addossati all’unico Agnello innocente. Egli accetterà di soffrire, di patire, di fare suoi i peccati che non gli appartengono. E anche allora, egli avrà soltanto amore, sarà soltanto amore. Egli prende il peccato per toglierlo perché subisce su di sé ogni mancanza di amore, ogni sfiducia nel perdono, ogni desiderio di vendetta, ogni progetto di morte, ogni guerra e inimicizia, ogni ferita e desolazione. Tutto egli subisce rivela, in quella notte fonda in cui il male la fa da padrone, che egli è amore, che si può credere all’amore, che si può credere in Dio, che si può credere in lui che è l’Agnello di Dio, che prende e annienta il male di tutta la storia perché a quel male, subito e portato, egli oppone soltanto la forte mitezza dell’amore.

Ed allora credere all’amore diventa possibile, credere alla vita si fa più facile.

«Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele». Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui. Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo”. E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio».

Giovanni esplicita così la sua missione. Il Battista sa che la sua comparsa nella storia umana è a servizio di colui che viene. Noi possiamo preparare l’arrivo e anticiparne le mosse, ma è lui, che è prima di noi, che noi siamo chiamati manifestare e a mostrare. 

Giovanni non lo conosceva eppure si mette a battezzare perché colui che è sconosciuto sia manifestato. 

Il testimone annuncia colui che non conosce. C’è sempre, in ogni annuncio, una riserva di sconosciuto, di mistero che è grazia e dono, che è gratuità e libertà. Giovanni non ha in mano la conoscenza e la sorte di colui che ha annunciato, ma sa che ciò che conta è contribuire alla manifestazione della gloria di Dio, nascosta e presente nella povertà e umiltà di un uomo condotto a morire, di un Dio che accetta il rifiuto, di un amore che è rifiutato. 

Ecco l’agnello di Dio. Nel rifiuto dell’odio e della chiusura, del peccato e della vendetta, della guerra e dell’inimicizia, bisogna testimoniare che Dio si manifesta come l’agnello, colui che si fa carico, per annullarlo, del peso di ogni mancanza di amore, che è poi ogni mancanza di fede.

Credere in Gesù è credere all’amore di Dio, è credere all’amore che è forza che sovverte le nostre piccole regole, le nostre infami giustizie, le nostre inutili vendette, i nostri insipienti rancori.

Giovanni testimonia e fa la sua professione di fede raccontando dal vivo la sua personale esperienza, ma per conoscere bisogna prima fidarsi e affidarsi. 

Quella di Giovanni è testimonianza resa possibile dal suo anticipo di fiducia, dal suo essersi affidato ad una parola. È l’affidarsi ad una parola che abilita e rende possibile la capacità di contemplare e vedere e, quindi, di testimoniare. 

Egli non lo conosceva, ma si è fidato della parola di colui che l’ha inviato a battezzare. E Giovanni può ora indicare colui che non conosceva, può testimoniare colui che non aveva visto, può proclamare ciò che non sapeva. 

È così che nasce l’esperienza di fede, è così che nascono i testimoni, è così che si diffonde l’annuncio e si rende visibile, nelle contorte vicende del mondo, l’Agnello di Dio.

“Ho visto e ho testimoniato”. Colui che vede non può tacere, non può ritornare alla sua vita ordinaria. Colui che vede entra in gioco e la sua vita si fa annuncio e testimonianza. Si fa missione e compito. Si fa dito che indica e voce che chiama. Tutto, nel testimone, è segno che rimanda e rinvia a colui sul quale rimane lo Spirito. 

Ma per essere testimoni dell’Agnello, di colui che prende e toglie il peccato del mondo, il primo passo resta aperto dalla fiducia, dalla scelta di giocare la vita su ciò che non si conosce e non si vede. Bisogna giocarsi la vita sull’amore e sul perdono, bisogna accettare di seguire, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, l’Agnello di Dio. E allora potremo vedere e testimoniare che l’Agnello immolato siede sul trono, perché la storia è nelle sue mani.

“Tu sei degno di prendere il libro
e di aprirne i sigilli,
perché sei stato immolato
e hai riscattato per Dio, con il tuo sangue,
uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione,
e hai fatto di loro, per il nostro Dio,
un regno e sacerdoti,
e regneranno sopra la terra” (Ap 5,9)

Liturgia della Parola

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