Natale, uno scomodo dramma nascosto

Una festa scomoda

Il Natale è una festa scomoda. È scomodo un Dio che si scomoda, che esce fuori dalla sua condizione divina per entrare, con la sua divinità, nella nostra umanità. È scomodo un Dio che si fa uomo. Di più, che si fa povero.

E scomodo è anche il modo in cui questo è avvenuto. Gesù nasce fuori di casa, fuori dalla sua città. Nasce in un luogo in cui per lui non c’è posto. Nasce di notte. 

Questa scomodità di Dio si inserisce nelle nostre comodità umane. Anche i pastori, che vegliavano di notte il gregge, vengono risvegliati, vengono scomodati. Gli stessi Magi si scomodano per partire alla ricerca del Re. E non sarà una ricerca facile. Seguono la stella, poi la stella si perde, vanno da Erode ma Erode, pur dando indicazioni corrette, ha interessi diversi da quelli dei Magi.

Insomma, quello del Natale è un Dio che mette in movimento, che scomoda perché rompe le abitudini e contraddice le nostre priorità. 

Il Natale è la rottura definitiva di ogni schema, di ogni struttura, di ogni immagine che possiamo avere di Dio, della storia, del mondo. Perché il Dio della storia ha squarciato i cieli e si è fatto terra, si è fatto Adamo, è diventato uomo. E non è comodo essere uomini. Il nostro è un Dio che ci scomoda perché ci costringe a volgere lo sguardo a situazioni e realtà nuove, è un Dio che ci mette in movimento, che ci chiede di muoverci con passione nella storia dell’umanità. È un Dio che orienta il nostro sguardo verso gli ultimi e i poveri, perché lui per primo si è fatto povero e li ha dichiarati beati.

La carne che ha assunto Gesù è quella dell’umanità e non c’è uomo che abbia una carne diversa da quella che il Verbo ha amato e assunto. Allora che il Figlio di Dio si sia fatto fratello dell’uomo ci scomoda perché ci costringe a guardare con occhi nuovi l’umanità. Ogni uomo e ogni donna conserva in sé quella traccia di umanità che Gesù ha amato e ha preso su di sé in maniera irreversibile. Il Natale è scomodo perché ci ricorda che siamo davvero “fratelli tutti”. Anche quelli che non vorremmo avere come fratelli. È scomodo perché ci costringe a rinunciare alla gloriosa onnipotenza di Dio, quella che magari ci risolve tutti i nostri problemi, per prostrarci di fronte ad un bambino. E inchinarsi davanti ad un bambino è scomodo fisicamente e mentalmente. È scomodo nel cuore. Il Natale resta la festa dell’assurdo. Si può credere ad un Dio che si fa bambino? Ad un Dio che si rende presente e visibile in un uomo?

Ecco, il Natale è scomodo eppure ci offre una certezza: la sconvolgente certezza che i passi dell’uomo sono ancorati nel cielo e che la storia umana è diventata per sempre la storia di Dio. La nostra carne, la nostra storia sono messi in moto dal Natale. Un Natale che non sia scomodo è falso. Un Natale che sia consolante, ovattato, romantico è un Natale senza ebbrezza, che rinuncia a muoversi verso quella mangiatoia per scoprire che quel bambino è il vero pane vivo disceso dal cielo, è il Verbo che si è fatto carne perché ogni carne sia in grado di dire Dio.

Una festa del dramma

Certo, abbiamo incorniciato questo giorno con un po’ di dolcezza, di infantilismo, di romanticismo, dimenticando forse il senso di questa festa. Il Natale è una festa drammatica perché è la festa del tragico, del doloroso. Perché è la festa dell’amore. E l’amore è sempre un rischio, è sempre scommessa. Chi ama va sempre in perdita. 

I racconti evangelici del Natale ce lo ricordano. “Venne fra i suoi, e i suoi non l’hanno accolto” (Gv1,11), poi la storia di Erode, la fuga in Egitto…

Il mistero del Natale è anche il mistero del rifiuto. È la festa di un incontro che non è accettato, è la festa del rifiuto, dell’odio, della mancanza di posto. Quando la Luce rifulge nel buio della notte umana e della nostra storia personale dà colore e visione, orienta il cammino. E tuttavia quella luce squarcia le tenebre. Il Natale è “segno di contraddizione” perché ci chiede di lasciarci contraddire nel nostro modo di essere, di vivere, di pensare. Il nostro Dio è diventato un Dio di casa, di famiglia. Eppure non sempre c’è posto per lui, non sempre c’è per lui accoglienza. C’è il rischio di essere talmente abituati al buio da non riuscire più a vedere e ad accettare la luce. C’è il rischio di essere così rassegnati al non senso, alla noia e all’apatia che è forte il tentativo di rifuggire da ogni domanda. C’è il rischio di essere pieni di tante cose al punto da non riuscire a cogliere Colui che a tutte le cose dà senso. Il Natale è drammatico perché è l’inizio di un dialogo nuovo, insperato e inaspettato. È il dramma del natale, quello che avvenne a Betlemme e che avviene anche oggi.

Perché accogliere un salvatore? A volte è più semplice raccontarsi la propria vita come una vita che non ha bisogno di essere salvata. In fin dei conti ce la possiamo cavare da soli, un po’ più di buona volontà e di sforzo… e poi semplicemente ci aumenta l’ansia e rimaniamo prigionieri di noi stessi e delle nostre idee. Il dramma di sempre. Non so di dover esser salvato, non sento di dover avere vita. Non avverto più il peso delle catene, non vedo più il buio che mi circonda, faccio finta di non sentire la morte che mi attanaglia il cuore e l’anima. Non c’è salvezza se io non ne ho bisogno, se sono ormai assuefatto e rassegnato alla morte che vivo. Ecco il dramma, che non è solo quello storico vissuto da Gesù. Ma è quel dramma del Natale che si ripete sempre nella nostra vita perché Dio smonta i nostri sogni di gloria e ci mette nuovamente davanti ad un bambino. Tutto ci riporta lì, a quella mangiatoia dove il Figlio di Dio è adagiato e offerto a noi che vaghiamo nella notte.

Il Natale è la festa dell’amore, ma imparare ad amare è tipico della Pasqua. Ce lo insegna la croce. È singolare, se noi prendiamo il vangelo di Luca, gli angeli ai pastori danno un segno perché possano credere e capire che è nato un un salvatore: “un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia” (Lc2,12). Ma quando Luca racconta l’arrivo dei pastori ci dice che trovarono “il bambino, adagiato nella mangiatoia” (Lc 2,16): le fasce, segno che nulla dimostra, spariscono dalla vista dei pastori. Quello che essi vedono è un segno incompleto, un segno a metà. Trovano tutto secondo l’annuncio dell’angelo ad eccezione di quelle fasce che altri ritroveranno, ma al sepolcro.

Il segno pieno del Natale e della salvezza non è semplicemente quel bambino adagiato nella mangiatoia, ma quel bambino che vivrà il dramma del rifiuto della crocifissione, della morte e del sepolcro. È quello il pieno compimento del segno perché quello è il pieno compimento dell’amore. Per questo, nelle icone orientali, la natività è rappresentata all’interno di una grotta buia: è la grotta del sepolcro, lì dove la povera carne mortale del Figlio di Dio, carne spezzata dall’amore vissuto fino alla fine, ci permette di vedere pienamente la gloria divina.

Il Natale, quindi, ci rimanda e rinvia all’amore pasquale, perché amare non è provare sentimenti, non è commerciare affetto e relazioni (serve anche quello nella vita), ma amare è oltre e al di là. Amare è compiere la follia suprema di volere e desiderare la vita e la libertà dell’altro anche a costo di restarne feriti, a costo che l’altro rifiuti l’amore. È volere che l’altro abbia bene. Amare è rendere degno chi non potrebbe essere amato, è guardare al futuro dell’altro, è rendere possibile la sua vita nuova. 

Amare è scommessa incerta, è mettere la vita e la storia a servizio dell’altro. Dio non ci ha amati perché lo meritavamo. Ci ha amati per renderci degni di replicare e diffondere questo suo amore. Non si ama l’altro perché lo merita, ma lo si ama perché diventi capace di meritare e donare amore.

È questo l’amore di Dio che nel Natale risplende. Un amore scomodo e drammatico.

È questa l’incarnazione. Dio prende la carne umana per renderla capace di amore, per renderla capace di Dio che è l’Amore. Il vagito del Figlio di Dio che entra nel mondo diventerà il grido soffocato sulla croce che dice che è diventato possibile un amore impossibile, un amore che non è umano. Quel bambino di Betlemme dirà l’amore con tutte le fibre del suo corpo, con tutto il calore del suo sangue, fino al suo ultimo respiro. 

Una festa nascosta

Il Natale è una festa nascosta. Nonostante le luci, i rumori, le musiche, gli incontri. Tutto ciò che riguarda il Natale avviene nel silenzio, nel segreto, nel nascondimento.

È nel silenzio che Maria accoglie l’annuncio, concepisce il figlio e tesse la carne di Dio nella carne umana. È nel nascondimento della notte che avviene il parto.

L’incarnazione è un Dio nascosto, velato nella carne, la gloria divina nascosta nell’umano.

Il Natale è luogo del silenzio. È lì che vive il mistero, è lì che si compie ciò che non aspettavamo. Il Natale è festa inattesa perché inatteso è che il tempo partorisca l’Eterno, l’umano il Divino, la notte la Luce, la terra il Cielo.

Gli angeli annunciano ciò che non era possibile, ciò che ancora non ci sembra possibile. Può nascere un Salvatore? C’è ancora per noi un Salvatore? C’è ancora qualcuno che ha bisogno di un Salvatore? 

Come suscitare e risvegliare, in noi e negli altri, il desiderio di Dio? È domanda soffocata, racchiusa nel più intimo dei meandri, lì dove non si ha tempo e coraggio di sostare, lì dove nessuno e niente può accompagnarci. In un angolo della vita e del cuore c’è ancora, in noi, domanda di Dio, richiesta di salvezza, speranza di vita.

Eppure, nel turbinio delle vicende e delle voci, delle comunicazioni e degli incontri il vuoto è ancora lì, memoria e profezia, mancanza e desiderio. Ci vuole coraggio per scoprire, nel pieno dell’efficienza che ci assale, che tutto ciò che siamo e che abbiamo non ci basta.

È difficile nel tempo in cui dobbiamo bastare a noi stessi e tutto ci è dato prima di averne bisogno, accettare che ancora qualcosa ci manca. La vita che scorre nella nostra storia e nelle nostre vene è ancora incerta, superficiale, debole e confusa.

Non c’è vita vera, se non quando si ascolta, nel nascondimento, il tumulto del cuore, l’anelito del desiderio, il silenzio che ostiniamo a far tacere.

Ci vuole, forse, il coraggio di guardare al tempo e vedere che kronos continua a divorare i suoi figli. Non è questione di vita o di morte, è questione di sapere perché vivere e perché morire. 

Celebrare il Natale è sapere che “un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio” (Is 9,5). C’è ancora motivo per gioire, c’è ancora spazio per esultare, c’è ancora vita da respirare. Tutto il popolo, tutti noi abbiamo bisogno del Natale perché abbiamo bisogno di gioia autentica.

Per essere vera, intima, profonda, capace di cambiare la nostra vita, questa festa deve essere accolta nel nascondimento del nostro cuore. Non può essere una gioia epidermica ed esteriore. Certo anche questo aiuta. Ma la festa esteriore è autentica quando è espressione di una festa interiore. Quando è il segno che abbiamo accolto nella nostra storia la carne fragile ed esile di un bambino.

“Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4,4) e poi arriva il tempo, ed è questo, in cui Parola e Pane diventano uno, diventano carne, diventano corpo, diventano il vagito di un bambino. Questa parola è nutrimento di vita e di scelte.

Adagiato nella mangiatoia di Betlemme, un bambino appena nato è l’inizio ultimo di quella storia che Dio ha sempre costruito. In quella mangiatoia Dio si lascia visitare, vedere e toccare. Non vi erano altri posti, non vi era altro luogo se non una mangiatoia nascosta per rivelare e contenere il Dio dell’Alleanza. 

Se è vero che il pianto di un neonato è il suo primo respiro, il vagito del bimbo di Betlemme è il primo respiro di un nuovo mondo, che nasce e si addensa nell’immagine della capanna di Betlemme, dove la vita e la storia iniziano in maniera nuova, ma in maniera nascosta, come il lievito nella massa, come il sale che, sciolto nel cibo, dà sapore senza farsi vedere.

Accogliere il natale come festa nascosta è lasciare che mentre i potenti della storia fanno i loro censimenti, misurano e contano la grandezza e il potere, enumerano i possessi e gli uomini, noi contempliamo l’impotenza di Dio, il suo nascondersi, il suo farsi piccolo, il suo velarsi nella debolezza di un bambino. Dio chiede di essere accolto come si accoglie un figlio. 

E allora possiamo guardare a Maria e a Giuseppe. Nel loro silenzio e nel loro nascondimento, diventano i protagonisti e gli artefici di un’umanità nuova. Luca ci dice che Maria “custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore” (Lc 2,19). Ella osserva e conserva queste cose nel cuore. E lì, nel silenzio del nascondimento, della preghiera, del lasciarci penetrare da ciò che vediamo, scopriamo il modo in cui accostarci all’evento del natale. 

Maria e Giuseppe, la serva e il custode, l’Eccomi e il silenzio, la donna e l’uomo, l’ascolto e il sogno, l’attesa e l’azione, dare alla luce e chiamare per nome: modi diversi e complementari per generare e donare alla storia il Figlio di Dio. Modi che dovremmo imparare.

Dio a Natale non si limita a visitare l’umanità, non si limita a mostrarsi: a Natale Dio fa sua l’umanità di ogni uomo, assume la storia umana rendendola storia divina. Il divino e l’umano, nel bambino di Betlemme, sono uniti per sempre e lì, in quella mangiatoia e sulla croce, vediamo il vero volto di Dio e il vero volto dell’uomo.

Dio finalmente si mostra e si fa vedere. Di più, si fa toccare e cullare. È unico e singolare il volto di Dio, ma non ha nulla che lo identifichi e lo faccia riconoscere tra gli altri. È il volto di un bambino che piange, che ride e che gioca. È un Dio che vela sua onnipotenza nella carne debole di un bimbo, è un Dio che nasconde la sua forza nella fragilità, un Dio che nasconde la sua luce tra le tenebre della storia.

Eppure è proprio lì, in quel nascondimento, che dobbiamo vedere e cercare la gloria di Dio!

Dio si è fatto vicino per rompere ogni nostro idolo, ogni immagine falsa di lui. Avremmo voluto vedere la gloria di Dio ed egli ci mostra il volto di un bambino, perché egli è un Dio appassionato dell’umanità e per vivere pienamente il Natale dobbiamo solo provare in noi la stessa passione di Dio per ogni uomo e ogni donna che egli ha reso per noi fratello e sorella. Amare l’altro nella concretezza della sua storia è rivelargli il volto di Dio, è offrirci a Dio perché possa usare la nostra carne, perché il suo Verbo possa dire ancora qualcosa di vero alla storia di ognuno. L’incarnazione è il mistero irreversibile di Dio.

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