Un fariseo che vive in noi

XXX Domenica Tempo Ordinario C (Sir 35,15b-17.20-22a; 2 Tm 4,6-8.16-18; Lc 18,9-14)

La parabola del fariseo e del pubblicano è talmente iconica e nota che è difficile leggerla così come è, lasciandoci coinvolgere in quella storia. Siamo subito pronti a tirare le somme, a condannare il fariseo per la sua presunzione, per il suo sentirsi superiore e, senza rendercene conto, prendiamo il suo posto nella parabola. Pensiamo che egli sia il cattivo e che buono, invece, sia il pubblicano e così la parabola smette di parlarci e di dirci ciò che scardina i nostri criteri, smantella i nostri giudizi, rompe l’idolo che continuiamo a farci.  

Se pensiamo ai contesti attuali dobbiamo riconoscere che valiamo per il nome che abbiamo, per le imprese che abbiamo fatto, per le opere che abbiamo costruito. Ci vantiamo di avere un nome e una storia e, dall’alto dei traguardi raggiunti, pretendiamo di valutare gli altri e i loro percorsi. Ci facciamo vanto dei nostri titoli per denigrare quelli che hanno solo il loro nome. 

Ed è così che pensiamo che faccia anche Dio. Lo immaginiamo giusto come noi e le nostre preghiere si fanno bestemmie quando, sapendoci eletti, ci facciamo vanto di ciò che è suo dono, ci serviamo di ciò che è suo per umiliare gli altri. 

Siamo scelti ed eletti, egli ci ha chiamato vicino perché la nostra vita diventi segno per tutti della sua vicinanza e compassione, della sua giustizia che accoglie e rende giusti quelli che la vita ha reso deboli e il peccato ha fatto smarrire. È per tutti coloro che non hanno conosciuto ancora la sua pietà e il suo perdono che noi dobbiamo credere, sperare e pregare Dio.

Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri (Lc 18,9)

È il rischio di ogni credente, di ogni uomo che tenta di essere giusto e di fare qualcosa di buono della sua vita. Non si tratta di cattiveria o malvagità, si tratta dell’insano bisogno di sentirsi a posto, di avere la coscienza che non ci rimprovera, di sistemare le cose secondo i criteri che ci siamo dati. La parabola è detta per quelli che sono intimamente convinti di essere giusti, di essere, cioè, come Dio, di essere già al suo livello, così da poter, dall’alto della propria giustizia, giudicare e disprezzare gli altri. 

Il disprezzo degli altri è tipico di chi sente di essere nel giusto e, per questo, si sente in diritto di additare le inadempienze degli altri. E qui la questione è seria: qual è la nostra giustizia? In cosa sentiamo di essere giusti? A cosa dobbiamo la nostra giustizia?

In gioco non è tanto la preghiera, ma il concetto di giusto e di giustizia, il concetto di Dio e di noi stessi. In gioco è sempre il primo comandamento: non avere idoli al posto di Dio, non mettere noi al posto suo, non mettere la nostra piccola giustizia umana, il nostro meschino rispettare le regole al posto di Dio e della sua giustizia.

Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano (Lc 18,10)

Sono due uomini e già si rompe il cerchio dell’identità, la chiusura arrogante nel proprio mondo. Due uomini salirono al tempio per entrare al cospetto di Dio, per accedere alla sua grazia, per incontrare il suo volto nascosto. Sono due uomini opposti e lontani, ma il tempio è lì, luogo che li rende vicini, spazio che li accoglie e li rende uguali. 

Un fariseo e un pubblicano. Due modi opposti di vivere e pensare la vita, di credere e operare le scelte. L’uno attento a Dio e alla sua legge, attento alla morale e alle norme più spicciole. Questo fariseo, però, non è uno di quelli ipocriti, che dicono e non fanno. Egli fa e fa più di quello che viene chiesto. 

L’altro è un pubblicano, uno che ha le mani sporche di denaro e di corruzione, di sopruso e di collaborazione con i romani. Non è fedele alla legge e non rispetta i suoi fratelli. Questo deve essere chiaro!

Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo” (Lc 18,11-12)

La preghiera del fariseo è ricca ed eloquente. Egli sta in piedi, ritto, come può stare chi sa di stare nel giusto, di avere le carte a posto. Sta in piedi perché la sua schiena non si è piegata davanti ai nemici di Dio, non ha tradito e non è venuto meno alla Legge e al suo volere. E così pensa di poter stare davanti a Dio alla pari.

È strana però la sua preghiera. Egli prega tra sé, meglio ancora, prega rivolto a sé. Ha dimenticato che salire al tempio significa uscire da sé e dal proprio mondo, per entrare nel mondo di Dio, per incontrare lui e la sua Parola. Pregare non è parlarsi addosso, non è ripensare a se stessi, non è restare rinchiusi nel proprio ego o nel proprio sé. Pregare è incontrare l’Altro, è guardare e parlare con lui, è scoprire che non siamo soli, che non siamo i nostri creatori, che non siamo gli artefici unici della nostra sorte. 

Eppure il fariseo, pregando tra sé, ringrazia Dio. Ma quelle parole si fanno bestemmia, oltraggio a Dio e alla sua storia, offesa al suo volto e alla sua legge. 

Dobbiamo liberarci, davanti a questa parabola, dell’idea che ci siamo fatta dei farisei. Non si tratta di un uomo ipocrita e ingiusto, non si tratta di qualcuno che si mostra pulito all’esterno e custodisce scheletri nel suo armadio. No, questo fariseo è davvero giusto. Egli non solo non ha commesso i peccati più gravi, ma rispetta la legge e fa più di quanto essa richiede.

Eppure egli bestemmia! Bestemmia perché rimane chiuso nel suo candore, nella sua giustizia fatta di meriti, nei suoi doveri che hanno presto il posto di Dio. Egli parla tra sé perché alla fine il fariseo non ha bisogno di un Dio a cui rivolgersi, ha se stesso e la sua perfezione, ha i suoi meriti e i suoi successi. Egli prende così il posto di Dio. Giudica gli altri come ladri, ingiusti e adulteri, vede il pubblicano e gode di non essere come lui, avvolto per sempre nel suo peccato.

Il fariseo non ringrazia Dio perché lo ha reso un uomo libero dai peccati più gravi. Lo ringrazia perché lo ha reso diverso dagli altri uomini e, soprattutto, da quel pubblicano che è salito al tempio insieme a lui per pregare. Mentre egli sembra ringraziare Dio, in realtà si accusa e giudica gli altri e il pubblicano.

Il fariseo bestemmia perché ringrazia Dio per averlo preservato dai peccati e crede, così, di prendere ciò che per lui è stato dono di Dio e farne un vanto che lo rende migliore del pubblicano. Egli inizia bene la sua preghiera ma poi la converte in sacrilegio, perché scambia il dono che ha ricevuto per bene e possesso suo, confonde l’elezione con il privilegio.

Egli è davvero vissuto in maniera onesta e fedele ma lo è grazie a Dio! Egli, però, dall’alto della sua onestà, mentre tenta di ringraziare Dio, esalta soltanto se stesso e disprezza i fratelli, magnifica le proprie conquiste (che sono sempre doni divini) e invece di provare premura e cura per coloro che non riescono a vivere secondo la legge, prende il posto di Dio ed emette giudizi senza pietà e misericordia. 

Si sente eletto da Dio e pensa che il pubblicano sia stato scartato. Ringrazia Dio perché è grazie a lui che egli è quello che è, ma, opponendo se stesso agli altri e al pubblicano, giudicando gli altri peggiori di sé, si è fatta di Dio un’immagine ingiusta.

Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.

Il pubblicano si ferma a distanza, senza alzare gli occhi al cielo. Sa di non vantare meriti, sa di non aver operato secondo la legge e il volere di Dio. Conosce il suo errore e i suoi peccati. Non fa nulla per nascondere o scusare se stesso. Ha solo l’umile coscienza di sé che lo porta a tenersi a distanza, a non sporcare il luogo di Dio con la sua presenza. 

Non alza gli occhi al cielo perché sa che è meglio che sia Dio ad abbassare i suoi, a vederlo e incontrarlo lì in basso, nel fondo delle sue miserie, nel baratro della sua povertà, nell’abisso del suo peccato. 

Egli, però, si batte il petto. Non finge, non giustifica il suo peccato, non trova scuse o attenuanti. Non accusa Dio per le proprie colpe. Non scarica sulla legge la colpa, non accusa e demolisce le norme per sentirsi più a posto e più giusto. Semplicemente si batte il petto e invoca Dio, lo chiama perché guardi a lui che è peccatore, perché abbia pietà, perché si muova a perdono e compassione.

Il pubblicano non ha confronti da fare. Non paragona se stesso al fariseo e nemmeno a qualcuno che sia più peccatore. Semplicemente si mette davanti a Dio, a distanza, perché sa che grande è il suo peccato e, proprio per questo, grande è la sua richiesta di perdono e pietà. 

Il pubblicano non ha meriti o vanti, non ha una propria giustizia. Per questo può umiliarsi e affidarsi alla giustizia che solo Dio può sempre dare.

Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato». 

Tra il fariseo e il pubblicano si gioca il senso del nostro credere, l’assillo delle nostre preghiere, l’impegno del nostro fare. Non è cattivo il fariseo e non è buono il pubblicano. Questi sono parametri umani.

Ciò che conta è sapersi affidare, è saper riconoscere che ciò che di buono riusciamo a fare è Dio che ci dona di farlo, perché obbedire a lui e alla sua Parola è accogliere lui nella nostra vita, lasciare che sia lui ad operare nel nostro cuore. E quando la debolezza ha il sopravvento, quando il peccato sembra avere la meglio, è solo a lui che possiamo affidarci.

Essere più avanti o più indietro nel cammino di fede e di santità è relativo e conta poco. Ciò che conta è lasciare che sia lui il centro e il giudice della nostra vita, è riconoscere che tutto il bene viene da lui e in lui tutto il male è perdonato e condonato. E allora pregare Dio, giudice giusto, è avere uno sguardo d’amore per ogni fratello, è sentire che ognuno ci è caro, che nella sorte degli altri è in gioco la nostra. 

Il pubblicano tornò a casa giustificato. Perché solo Dio può rendere giusti. Solo rinunciando a farci giudici, a tirare le somme della vita degli altri, a stilare elenchi delle loro mancanze possiamo affidarci al Giudice giusto, che ci giustifica e ci fa giusti nonostante le nostre miserie e le nostre colpe. 

Il Signore è giudice
e per lui non c’è preferenza di persone
(Sir 35,15b)

In lui c’è solo l’amore che esalta e innalza chi sa riconoscersi povero e indegno, chi sa affidarsi e affidare a lui ogni fratello, del quale condivide il peccato e la debolezza.

A noi resta il compito di combattere la buona battaglia e conservare la fede. Sarà Dio a darci la corona di giustizia, a darla a noi e agli altri, anche a quelli che non sanno tenere il nostro passo.

Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione.
Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Nei loro confronti, non se ne tenga conto
. Il Signore però mi è stato vicino (2Tm 4,7-8.16-17)

Liturgia della Parola

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