Troverà la fede?

XXIX Domenica Tempo Ordinario C (Es 17,8-13; 2Tm 3,14-4,2; Lc 18,1-8)

Ogni periodo storico ha i suoi problemi e, quindi, le sue priorità. Ed è per questo, forse, che oggi suonano un po’ fuori luogo e fuori tempo le parole che invitano alla preghiera, che quasi implorano di avere fede rendendo la vita un grido incessante che chieda a Dio di fare giustizia, di rivelare la sua presenza, di mostrare il suo regno che viene. 

Abbiamo ormai imparato che non possiamo delegare a Dio le nostre decisioni, non possiamo imputare a lui le nostre colpe, non possiamo pretendere che sia lui a porre rimedio alle ingiustizie che abbiamo creato. 

Il rischio, quindi, è essere cristiani senza aver fede e senza pregare, senza levare in alto le mani. Si può dirsi credenti senza aver fede, senza uno slancio che invochi un regno che non ci appartiene, che attenda un Dio che non costruiamo, che accolga un bene che non possediamo.

O, al contrario, a volte basta che la fede e la preghiera diventino un rifugio consolatorio, uno staccarsi dal mondo e dalle sue angosce, un fare silenzio per immergersi in una pace che anestetizza e rende insensibili. E allora la fede e la preghiera diventano terapia, strumenti da dosare per non cadere in ansia o in depressione, per ritrovare il proprio equilibrio e la salute mentale.

Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai (Lc18,1)
E già suona strano per noi sentirci dire che è una necessità. È necessario pregare sempre? A noi che abbiamo spesso ridotto il Vangelo a un frasario di circostanza, che abbiamo livellato la storia rendendola del tutto banale, a noi che abbiamo ristretto l’orizzonte del nostro credere, a noi che abbiamo fatto del cristianesimo una religione dei buoni costumi, suona strano e fuori tempo che ci sia la necessità di pregare sempre. Ci siamo detti che, alla fine, conta l’amore, essere buoni e avere modi gentili. 

Abbiamo ridotto il dramma della fede al prontuario delle buone azioni, all’elenco di cose da fare e da evitare. E cosi abbiamo smarrito l’origine e il senso, la traiettoria e la fonte.

A noi, soddisfatti di aver finalmente recuperato i contorni di una religione “civile”, tutta vissuta nell’orizzonte umano e terreno, fanno senso queste parole. Eppure ci sono e fanno problema. Vorremo renderle neutre e inoffensive. A che serve pregare? Addirittura, pregare sempre senza stancarsi.

Perché è vero, la preghiera stanca. Non per il tempo che richiede, non per le parole che la abitano, non per i gesti che la rendono viva. Stanca perché pregare è affrontare una lotta, è esporsi e restare indifesi. Pregare stanca perché è estenuante restare davanti a un Dio che sembra assente, con lui litigare e ripensare la storia, a cui chiedere e da cui attendere. Stanca pregare perché la vera preghiera non è mai una parentesi dalla vita, un distaccarsi dalla concretezza per viaggiare oltre i confini, non è mai un immergersi in Dio abbandonando il nostro peso di essere umani. Pregare è restare se stessi, sentire il peso del vivere e del resistere, è esporre il vuoto che siamo, è implorare che nella battaglia di questa vita sia Dio a darci giustizia, a mostrarci che la fede può reggere il peso, che la fede può arginare lo scontro. Pregare stanca perché impone di restare al fronte, di restare sulle soglie di questa storia con la certa speranza che le ingiustizie e le miserie, che il male e le sconfitte, che la morte e il fallimento lasceranno il passo e saranno vinte da colui a cui con fede è rivolta la nostra preghiera.

In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”. Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi” (Lc 18,2-5)

Un caso di ordinaria amministrazione. Una vedova subisce l’ingiustizia del suo avversario e il giudice, l’unico che può fare giustizia, è un uomo che non teme Dio e non ha rispetto per il prossimo. La vedova è sola, non ha nessuno a cui rivolgersi, non può avere una giustizia privata, non può risolvere il problema con le sue forze. Solo il giudice può intervenire. Ma non sempre le cose vanno come dovrebbero.

Il giudice non volle perché chiuso nel suo mondo, ostinato nel suo disinteresse, occupato soltanto a gestire i suoi affari. Ed è proprio per questo, per gestire meglio i propri affari che, alla fine, decide di rispondere alla donna. È una vedova che dà fastidio e per risolvere questo fastidio il giudice decide di darle retta. Non è mosso da pietà o compassione, da rimorso o conversione. È mosso solo dal proprio interesse perché questa volta fare l’interesse della donna coincide per lui con il proprio.

E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente (Lc 18,6-8a)

Dobbiamo ascoltare ciò che dice il giudice disonesto. Si decide a dare retta alla povera vedova per non essere più importunato. E se quel giudice iniquo fa giustizia alla povera donna, forse che Dio potrà non fare giustizia a quelli che ha scelto e ha reso eletti? Non è una questione da poco. Gli eletti, coloro che Dio ha scelto e che ama, coloro a cui egli si rivela e mostra il suo amore, devono essere certi che se pregano sempre e senza stancarsi, se fanno della preghiera il grido della loro vita, il respiro del loro vivere, Dio farà loro giustizia.

Farà loro giustizia non perché stanco o estenuato dalle loro preghiere, non perché convinto o mosso dalle loro richieste.

Farà loro giustizia perché il loro grido dice la loro fede, la loro preghiera dice il loro affidarsi, il loro attendere dice la loro confidente speranza. Egli farà giustizia perché essi lo avranno scelto come Signore, come Giudice e Salvatore. Gridare giorno e notte è riconoscere che c’è bisogno di Dio, che non bastiamo a noi stessi, che le nostre giustizie umane non risolvono l’ingiustizia che colpisce la nostra vita. Potremmo chiederci perché mai Dio non intervenga da solo e, invece, resta in attesa del nostro grido. Perché egli ci ha eletti per essere suoi, ma sta a noi scegliere lui come nostra Giustizia, come Dio a cui appellarci, come Signore presso cui ripararci, come Salvatore dal quale attendere la nostra salvezza. Finché restiamo chiusi nelle nostre piccole certezze e salvezze umane, nelle nostre strategie di bassa lega, nelle nostre soluzioni a breve termine, Dio resta a guardare, perché non può essere salvato chi non ha bisogno di salvezza, non ha bisogno di un giudice colui che non ha bisogno di giustizia.

Dio attende che sia il grido della nostra preghiera a rompere le nostre autosufficienti certezze e a farci uscire verso di lui. E Dio non ci farà aspettare a lungo.

Eppure a lungo aspettarono i disperati e gli oppressi della storia biblica, a lungo attendono ancora i credenti, a lungo attende ogni uomo e ogni donna che si compia la venuta del regno, che Dio si mostri e faccia giustizia, che si riveli e ascolti le grida. Eppure bisogna crederci: farà loro giustizia prontamente. Bisogna crederci come Giobbe e come Abramo, come Mosè e come Gesù. Bisogna crederci e gridare, notte e giorno, quando la disperazione e l’affanno impongono di cessare ogni speranza, di abbandonare ogni confidenza, di mettere da parte ogni richiesta. Pregare è non cedere alla rassegnazione, alla disfatta che fa vedere Dio come un giudice diventato nemico. C’è poco da cercare ragioni, da individuare teoremi e idee brillanti, davanti al male che incrosta la storia, davanti alle lacrime che bagnano il volto, davanti all’ingiustizia che schiaccia i poveri, non si possono fare teorie. Bisogna, come la vedova, insistere e gridare, sperare e pregare. E se anche la vita fa sorgere il dubbio che Dio sia proprio come quel giudice senza cuore, che non ha voglia di sporcarsi le mani, di mettersi a servizio di chi invoca giustizia, proprio allora la preghiera si fa più forte e insistente, perché proprio allora la fede deve farsi più vera. 

Credere a Dio quando Dio sembra assente, quando sembra sconfitto dalle umane miserie. Credere in lui e nella sua presenza quando egli non parla e non si fa ascoltare. Credere in lui quando il dolore è acuto e restano vuote le parole umane. 

Credere in Dio e gridare a lui anche quando, nei tempi bui, ci sembra soltanto un giudice iniquo, uno lontano che non ha cuore, uno distante che non ha interesse. E, nonostante queste tristi apparenze, credere è continuare a pregare e ancora a sperare. 

Credere è non rassegnarsi ma chiamare Dio in causa, pretendere che sia lui, davanti al male e all’ingiustizia che investe la vita, a farsi carico della nostra storia, a farsi carico del suo silenzio.

Per questo la preghiera non è biascicare parole, non è vantare assicurazioni, non è contare ciò che serve per ottenere qualcosa. 

Pregare è restare in piedi sull’orlo del baratro, restare con le mani levate mentre in basso si svolge una battaglia epocale (cf. prima lettura). Pregare è attendere il regno e in quel regno sperare proprio mentre sembra non arrivare. 

Non tarderà, anzi verrà prontamente e, proprio per questo, posso aspettare, posso attendere nella fede e in preghiera. Perché fidarsi di Dio è fidarsi di una presenza che arriverà, di una storia che sarà rinnovata, di un futuro che Dio prepara e nel quale io, nel mio presente, posso già vivere. Vivere oggi nel futuro di Dio, vivere oggi nella speranza mi rende certo della giustizia divina, mi rende sicuro che la mia preghiera è già l’anticipo del mio riscatto, è già il segno della mia libertà, è già presenza del regno che viene. 

E allora, il vero problema e il vero dubbio, il dramma serio che occupa il cuore non è sapere se Dio interviene, se Dio è giusto o se Dio risponde. 

Il dramma vero non è chiederci se il nostro grido e la nostra preghiera troveranno un Dio ad ascoltarci, ma se Dio troverà ancora una fede a cercarlo, una preghiera ad attenderlo, un’assenza che egli possa colmare.

Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra? (Lc 18,8b)

È domanda che spacca il cuore, che mette in ricerca e non lascia comodi. Troverà la fede? Troverà la mia fede? Non è discorso che riguarda gli altri, non è indagine sociologica o ecclesiologica. Ma è domanda che mi pone in dubbio. Troverà la fede? Mi troverà ad attendere da lui la vera giustizia? O sarò rassegnato a pratiche umane, avrò risolto le cose a modo mio? 

Avere fede è pregare e restare in attesa, anche quando Dio non si fa vedere, anche quando non lo capisci, anche quando i suoi tratti sembrano quelli di un giudice lontano e corrotto. E se in questo tempo ti sembra assente, sordo e distante alla tua voce, la fede diventi ancora più forte, ancora più accesa la tua preghiera. Pregare sempre senza stancarsi è avere fede nell’assenza di Dio senza riempirla con cose nostre. Perché di Dio devi fidarti, perché per lui tu non sei un importuno che dà fastidio, ma sei il suo eletto che egli ha scelto, sei il suo amato che egli ha voluto.

Figlio mio, tu rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente. Conosci coloro da cui lo hai appreso e conosci le sacre Scritture fin dall’infanzia: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene mediante la fede in Cristo Gesù.
[…]
Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù, che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamento (2Tm 3,14-15; 4,1-2)

Liturgia della Parola

Condividi