Il lebbroso trasgredisce la legge per non restare un servo inutile

XXVIII Domenica Tempo Ordinario C (2 Re 5,14-17; 2 Tm 2,8-13; Lc 17,11-19)

Fede vera non è vivere obbedendo alla legge, fare da servi quello che è comandato. Fede vera è tornare indietro, dopo che la legge ci ha messi in cammino, per riconoscere che siamo guariti non per l’obbedienza a quel comando, ma per la grazia che ci è stata donata, per la parola che ci è stata rivolta. E così la fede ci salva perché ci conduce dal dono a colui che dona, dalla salute a colui che cura, dal perdono a colui che perdona. La fede ci salva perché ci fa vedere e incontrare Dio che ha a cuore la nostra vita e la nostra pienezza. Per comprendere appieno l’episodio dei dieci lebbrosi, ci sarà bisogno di ritornare a ciò che lo precede, alla storia dei servi che Gesù chiama inutili. Potremo così cogliere rimandi e richiami, sintesi e prospettive. Questo racconto, infatti, staccato da ciò che lo precede, rischia di vedere diminuito il suo senso e la sua ricchezza.

Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea (Lc 17,11)
Il viaggio conduce alla Città santa, punto di arrivo della missione di Gesù e punto di partenza della missione della Chiesa. Crocevia di ogni cammino, punto di svolta e di snodo. Gesù è incamminato verso il suo esodo, la Pasqua di morte e risurrezione. Durante questo viaggio, si muove lungo il confine incrociando la terra di Samaria, terra lontana dalla fede ebraica. Si tratta, a tutti gli effetti, di una terra nemica perché nemici di Dio e della sua legge sono i Samaritani.

Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!» (Lc 17,12-13)

Dieci lebbrosi sono una comunità. Bastano dieci persone, infatti, nella tradizione ebraica, per dare vita ad una comunità di fede e di preghiera. Sono dieci e sono lebbrosi. Sono, cioè, afflitti da una malattia diversa dalle altre. I lebbrosi, morti rimasti in vita, a tutela degli altri sono costretti a restare ai margini dei villaggi, esclusi da ogni relazione sociale e religiosa, da ogni culto o da ogni legame. La legge con loro è severa, impone distanze e precauzioni. 

Potrebbe sembrare dura e disumana, eppure, a vedere bene, è solo norma che tutela gli altri, che dona serenità ai molti sebbene il costo sia l’esclusione e la morte sociale dei pochi. 

I dieci lebbrosi lo sanno e sembrano a loro agio nell’osservanza della legge. Sanno come comportarsi senza trasgredire il comando. Si fermano a distanza, come è loro prescritto. Non hanno la presunzione di superare quella barriera invisibile che la malattia ha innalzato tra loro e gli altri. Sono impuri e contagiosi ma possono ancora usare la voce per reclamare la loro esistenza. 

Guardando Gesù da lontano dicono il loro bisogno e la loro fede. Invocano Gesù, lo considerano come un capo, uno che ha potere e padronanza. Invocano da lui un po’ di pietà. Chiedono, cioè, che egli prenda a cuore la loro situazione, che li guardi e li consideri, che li veda vivi. Gridano il loro bisogno di vivere, di ritornare al consesso umano, di riapprodare tra i loro affetti, di vivere, insieme agli altri, la propria fede. 

Questo grido dice il loro bisogno e la loro fede. Certo è fede interessata a se stessi, alla propria vita e al proprio bene. Ma forse è sempre così che ha inizio la fede. Come una partita di dare e avere, come ricerca di ciò che ci manca, come richiesta di ciò che vogliamo.

Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti» (Lc 17,14a)

E Gesù li vide. Vide il loro dolore, la morte che occupava la vita, il silenzio che regnava nel cuore. Gesù, però, sembra non aver ascoltato la loro voce e, per questo, non sembra reagire alla loro preghiera. Reagisce, però, a ciò che vede. Vede i lebbrosi che sono a distanza, vede il male e il loro dolore. 

Per questo ordina loro di presentarsi dai sacerdoti. A quel tempo erano i garanti della salute. Ogni lebbroso veniva dichiarato tale dal sacerdote che, per questo, lo escludeva dalla vita sociale. Solo il sacerdote, quindi, poteva constatare la guarigione sancendo così il ritorno alla vita sociale e pubblica della persona guarita. 

Gesù non sembra compiere un miracolo o una guarigione. Non la esibisce e non la promette. Ordina, però, di fare ciò che la legge prescrive al lebbroso guarito. Il suo imperativo mette in gioco il futuro. La sua parola lascia intuire e permette di sperare. Ma, in realtà, Gesù impone solo l’osservanza anticipata di un precetto della legge. Ciò che è strano, infatti, è che essi devono andare dai sacerdoti prima ancora di vedersi guariti. 

Devono camminare nella speranza, nell’attesa che qualcosa si compia. Devono camminare obbedendo alla legge e alla parola di Gesù che a quella legge rimanda. Gesù ordina di obbedire alla legge e, mentre lo fa, chiede però un atto di fede sulla sua parola. Devono iniziare ad obbedire alla legge ma il loro cammino è guidato soltanto dalla fiducia nella sua parola.

Devono farlo intuendo il motivo, sperando di non camminare invano. Su quella parola devono fare la strada che li conduce ad essere servi, che fanno soltanto ciò che è stato comandato loro. 

Gesù pretende che le sue parole siano prese sul serio senza nessuna evidenza o garanzia. Li mette in cammino mentre sono malati perché, per la fede che hanno urlato e per il suo sguardo che ha incontrato il loro corpo piagato, siano riammessi, dalla legge, alla vita sociale. 

E mentre essi andavano, furono purificati (Lc 17,14b)

Ed è così che avviene il prodigio. La parola, per la quale si sono messi in cammino, si è mostrata all’altezza della loro situazione. Mentre sono in cammino furono purificati. 

Ora il viaggio ha un senso e una meta vera, un punto di arrivo affidabile perché ciò che i sacerdoti devono attestare e certificare è già realizzato e anticipato sulla loro carne. Il viaggio non rischia di andare a vuoto.

Si erano messi in cammino sulla fiducia, ora il loro andare ha uno scopo preciso: permettere ai sacerdoti di dichiarare la purificazione avvenuta e sancire il ritorno alla vita ordinaria.

Bisogna, però, notare che da questo momento in poi il loro cammino assume un nuovo senso. Si erano messi in cammino fidandosi della parola di Gesù, scommettendo su di essa e sperando di non camminare invano. Proseguire ora nel cammino significa, soltanto, rispettare la legge per averne i benefici, per godere di ciò che l’obbedienza alla legge permette di avere.

Il cammino ora non è più fondato sulla parola di Gesù, non è più guidato dalla fede in lui, ma solo dall’osservanza della legge e dal desiderio di goderne i benefici.


Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano
 (Lc 17,15-16)

Uno dei dieci, soltanto uno, si vede guarito e torna indietro lodando Dio a gran voce.

La voce grande con cui prima aveva gridato a Gesù ora la usa per lodare Dio lungo la strada Quel lebbroso ritorna indietro. Compie il cammino al contrario. Trasgredisce la legge e il comando di Gesù. Non prosegue lungo la strada che Gesù ha imposto ma ne inventa una nuova e ripercorre da sano la strada che lo ha visto malato. La strada, prima percorsa da lebbroso, con la speranza nel cuore, ora è ripercorsa da guarito lodando Dio a gran voce. 

Quell’uomo si è visto guarito e, per questo, sa che non ha più bisogno di restare a distanza. Certo, nessun sacerdote lo ha dichiarato puro, ma egli lo sa perché lo ha visto. Si getta quindi ai piedi di Gesù per ringraziarlo. Lode a Dio e ringraziamento a Gesù sono i sentimenti e le parole di quest’uomo, ritornato alla vita umana. Dio e Gesù allineati. Il lebbroso guarito ringrazia Gesù perché lo ha messo in condizione di lodare Dio. 

E solo ora sappiamo che era un Samaritano, uno che non obbediva alla legge e, infatti, anche ora la trasgredisce.

Per lui, prima della legge e del comando, c’è la forza del cuore e della voce, c’è la forza della vita che non può trattenere la loro lode e il ringraziamento. Prima di ogni adempimento formale, c’è l’incontro dei volti e delle storie. C’è il suo sguardo che vede il suo corpo guarito e la voce che, dopo aver gridato pietà, deve gridare la lode. 

Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!» (Lc 17,17-19)

E Gesù non lo rimprovera per le sue trasgressioni, non fa pesare a quell’uomo la disobbedienza al suo comando. Anzi, quasi deluso, pone tre domande che lasciano il segno. 

Sappiamo, solo ora, che i lebbrosi sono stati guariti tutti e dieci. Tutti sono stati guariti, ma nove hanno scelto di proseguire il cammino, di limitarsi ad obbedire alla legge e ad osservare il comando che Gesù ha dato. Solo uno è tornato per rendere gloria a Dio.

Obbedendo al comando di Gesù si sono messi in cammino e sono guariti, ma non è quel comando che può salvarli. Obbedire alla legge e ai comandi può curare e guarire il cuore, può orientare la vita, può aiutare a purificare la storia, ma solo la fede può salvare davvero e interamente.

E Gesù, infatti, loda la fede del Samaritano. Una fede che ha invocato pietà, che ha obbedito alla legge e alla parola di Gesù ma ha poi saputo andare oltre, risalendo all’autore di ogni legge e di ogni dono, di ogni grazia e di ogni salvezza. 

Anche gli altri hanno invocato, hanno creduto e si sono messi in cammino. Anche loro sono stati guariti. Guariti, certo, ma, forse, non salvati. Perché la fede non consiste solo nell’obbedire agli ordini, ma anche nel gridare ad alta voce che si è ricevuta la salvezza. Nessuno è tornato indietro a glorificare Dio, solo uno straniero, che sa vedere, oltre la legge, il volto di Gesù. 

Solo uno sa andare dal dono al Donatore, sa scoprire nella guarigione ricevuta il volto di Colui che salva e guarisce. Solo per uno si è compiuto l’incontro che salva, la relazione che libera e rinnova. Egli è da Gesù invitato ad alzarsi e ad andare. Può rimettersi in piedi e ritornare in vita per dare inizio ad un nuovo cammino. Può ritornare tra la sua gente, ma ci ritorna per una parola più forte di quella della legge. Ci ritorna da uomo salvato perché ha incontrato il Salvatore. 

Se per fede hanno tutti gridato a Gesù, solo uno ritorna a lui. Perché fede è creare relazione, è guardare un volto, è riconoscere che più di ogni legge e di ogni miracolo, di ogni tornaconto e soddisfazione, la salvezza è dare gloria a Dio, manifestando, nel nostro cammino, il ringraziamento per l’opera di Gesù che, andando a Gerusalemme, permette a noi di essere vivi e restare in piedi. 

Il racconto potrebbe bastarci. Eppure, riletto nel contesto che lo precede, riceve ancora più luce e più ricchezza. I discepoli avevano chiesto a Gesù: “Aumenta la nostra fede”. E Gesù ricorda che basta una piccola fede per sradicare alberi e piantarli in mare. Basta la fede piccola di chi sa vedersi guarito e ringraziare, di chi sa che essere salvo non è merito di cui vantarsi, non è obbedienza da accumulare, non è servizio per cui attendere un premio.

Tutti i lebbrosi iniziano ad obbedire alla legge e a Gesù, ma solo di uno Gesù citerà la fede, di quell’unico samaritano che, invece di limitarsi a fare come i servi, che fanno tutto quanto gli è stato chiesto, ha deciso di tornare indietro. Sono servi inutili quelli che fanno soltanto tutto ciò che gli è stato chiesto. Sono inutili perché solo la fede salva, solo l’incontro con il Cristo permette di sradicare gelsi e piantarli in mare.

La fede è apertura all’incontro, è sguardo che scopre la guarigione e vuole scoprire il volto di colui, che dietro la legge e il comando, offre se stesso come vita e salvezza. Non è alla legge, non è ai servizi, non è alle norme che siamo chiamati, ma attraverso e oltre esse, siamo chiamati alla fede che loda Dio mentre vede in Cristo il suo segno e la sua presenza. 

Siamo servi inutili se facciamo soltanto tutto quanto ci è stato comandato sperando che sia questo a darci vita, siamo figli amati se in tutto questo vediamo il volto di Dio che è Padre e lo sguardo tenero di Cristo che da servi ci eleva a suoi commensali e ad amici che egli passa a servire.

Liturgia della Parola

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