Cristo Re: un potere che vince il dovere

Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’universo – XXXIV Domenica Tempo Ordinario C (2 Sam 5,1-3; Col 1,12-20; Lc 23,35-43)

Celebrare Cristo Re dell’universo è chiudere il tempo, quello dell’anno liturgico, con una chiusura che, invece di porre fine al percorso, lo innalza e spinge oltre. 

Cristo Re dell’universo, infatti, non è un’immagine devozionale. È segno potente che incide e innesta, nell’impossibilità umana, la possibilità ultima e divina. Il potere di Cristo Re, infatti, è la possibilità che, in lui, per tutti è aperta e disponibile. 

Abituati a parlare di potere, stressati dal desiderio di averlo e gestirlo, impauriti e ansiosi per il potere subito o incerti se affidare a qualcuno il potere, dimentichiamo che potere, prima di essere un sostantivo, è un verbo, un’azione. Potere è l’esercizio attivo e concreto di colui che ha la possibilità di scegliere e fare qualcosa.

Poter fare è la possibilità concreta di chi ha il potere, di chi, cioè, è in grado di fare perché ne ha la possibilità, la volontà, il desiderio. Ed è in questo senso che credere alla regalità di Cristo non significa fermarsi ad immaginare il tipo, l’ampiezza e la portata del suo potere, ma sapere che Cristo è l’immagine e il vero modello di chiunque abbia il potere, di coloro, cioè, che sono in grado di scegliere e di fare qualcosa.

È Cristo il Re dell’universo perché egli, tra tutto ciò che gli è possibile fare, sceglie di fare ciò che soltanto lui può fare: far splendere l’amore e la vita davanti ad un malfattore che muore.

Il popolo stava a vedere; i capi invece deridevano Gesù dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto».
Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell’aceto e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». Sopra di lui c’era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei»
(Lc 23,35-38)

Davanti al Crocifisso le reazioni dei capi e dei soldati sono quelle tipiche di chi pensa di avere il potere. Hanno il potere sulla vita di quell’uomo morente. Ed è per questo che si sentono forti a sfidare quell’uomo, a deriderlo e a provocarlo. Sanno che quell’uomo è ormai impotente, perché nulla può fare perché è appeso a quel legno a cui è stato inchiodato. È la sfida che ogni potente del mondo lancia agli impotenti, ai deboli e agli sconfitti.

Il popolo stava a vedere. Sta a vedere il duro e atroce confronto tra il potere di chi è potente e il potere di chi, restando impotente, sa che può ancora fare, può ancora scegliere di vivere e dare un senso alla stessa impotenza. E la realtà si confonde con l’apparenza. 

Gesù, sul cui capo coronato di spine è la scritta che lo denuncia come re dei Giudei, è davanti alla scelta che per lui è sempre possibile. 

Se è il re può salvarsi, se è il Cristo di Dio può scendere dalla croce e incenerire la storia. Ma, se è il re ed è il Cristo può anche scegliere di restare inchiodato, può decidere di rinunciare a salvare se stesso. 

Appare la visione umana e piccola di chi si accontenta di avere potere. Se è il re deve salvarsi. Chi ha il potere non può che salvarsi, chi ha il potere deve scendere dalla croce. 

Gesù, invece, su quella croce ci resta. E ci resta perché è re ed è il Cristo di Dio. Ci resta perché egli può scegliere di rinunciare a salvare se stesso, di arrendersi ai poteri del mondo. 

Gesù, di fronte all’ultima tentazione, quella che lo spinge a pensare e ad agire come fanno i poteri del mondo, sovverte l’ordine di ogni possibilità e rivela il volto vero della regalità, il senso di ogni potere. 

Può scegliere di non salvare se stesso, di morire da condannato e malfattore, di restare inchiodato alla croce perché egli è il Re e il Cristo di Dio e, proprio per questo, può amare fin dentro l’odio, donare fino alla fine, perdere tutto e se stesso perché può vivere fin dentro la morte. È la regale libertà dell’amore che può tutto quando ha il potere di rinunciare a salvare se stesso! 

Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L’altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male» (Lc 23,39-41)

E Gesù, innocente tra due malfattori, partecipa alla loro disputa. Uno lo accusa: se tu sei il Cristo devi salvare noi e anche te.

Tutto si gioca ancora tra il potere e il dovere, tra la scelta e la via obbligata, tra la libertà e la costrizione. Perché per noi potere è sempre spingersi lungo una via prevista. Potere è avere ciò che ci serve e sembra salvarci. 

Anche quel malfattore invoca salvezza: “salva te stesso e noi!”. È grido di sfida ad un Cristo che sembra debole, impotente e incapace. E quel Cristo, forse, è apparso a quel malfattore insensibile al dolore di chi, accanto, sta morendo con lui. 

L’altro malfattore, invece, ha uno sguardo più ampio. Vede che quell’uomo crocifisso con lui non ha fatto nulla di male, eppure subisce la stessa sorte. 

Quell’uomo ha timor di Dio e crede che quel crocifisso, morente insieme con lui, sia un Re che davvero può fare, può scegliere di entrare nel cuore di tutta la storia e può farlo perché può scegliere di non salvare se stesso, di non scegliere l’unica via che sembra obbligata. 

Il Crocifisso è Re perché ha scelto la via del vero potere, cioè ha decido di scegliere da sé la scelta da fare. Né l’istinto di vita o di sopravvivenza, né la rivalsa o l’inimicizia, né l’orgoglio né la vendetta, niente e nessuno ha scelto per lui, nemmeno Satana e il suo potere. 

Gesù è Re perché ha scelto di non salvare se stesso e di amare con un amore libero, un amore talmente potente da donarsi ad un malfattore morente.

E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno» (Lc 23,42)

E il malfattore invoca quel Re morente perché eserciti almeno un suo potere, quello del suo ricordo. Non meriti o soddisfazioni, non premi o riscatti, non grazie o elargizioni, ma solo il ricordo egli chiede. 

Ricordati di me è il grido che spezza ogni morte, che spacca l’oblio che cancella la vita, è la professione di fede, la prima e la più sentita. Ricordati di me e del mio dolore, del mio sangue e della mia povertà. Ricordati del mio essere un malfattore. Ricordati di me perché in me sono impresse le tue stesse piaghe, ricordati di me perché ora il mio ricordo è impresso nel tuo stesso corpo.

l malfattore chiede il ricordo a colui con cui ha condiviso la stessa sorte. Egli riconosce il Re di un regno nuovo perché vede, in quell’uomo innocente, i segni di morte impressi nella sua carne colpevole. Vennero tutte le tribù d’Israele da Davide a Ebron, e gli dissero: «Ecco noi siamo tue ossa e tua carne. (2Sam 5,1). Quella del malfattore è la voce con la quale ora le tribù d’Israele e del mondo dicono a Gesù crocifisso: noi siamo tue ossa e tua carne. E lo siamo perché tu hai scelto di essere nostro. Di farti vicino al nostro dolore, di condividere il nostro esilio, il fallimento dei nostri poteri, la fine drammatica dei nostri deliri di onnipotenza. 

Solo un Re che sia potente può ricordarsi di un malfattore e volerlo vicino, può ricordarsi del suo compagno di morte e volerlo salvato, può ricordare quella scena meschina e disonorevole e volere che sia ricordata per sempre.

Mai nessun Re sarà più così vicino perché mai nessuno avrà il potere per scegliere di essere con tutti i condannati da ogni potere.

Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso» (Lc 23,43)

La promessa di Gesù morente è l’apertura di uno spazio nuovo, è l’accesso ad una vita che nessuno può darsi. La strada per il giardino del paradiso è chiusa a causa dell’orgoglio umano che vorrebbe per sé la potenza e il dominio. Ma Cristo stesso si è fatto strada mostrando, con la sua croce, la via che conduce alla vita. Si è fatto egli stesso albero che dona la vita e frutto che offre l’ingresso nel paradiso. 

“Oggi sarai con me nel paradiso”. E non so quali di queste parole abbiano fatto più effetto sul malfattore morente. 

Forse, sapere che c’è ancora un oggi per colui che sta per morire, che c’è ancora un tempo che ha il sapore del presente, che c’è un oggi che non si fa attendere, che non c’è bisogno di un passato in cui rifugiarsi. C’è un oggi che attende ciascuno, un oggi che sfida ogni ora, anche quella in cui si muore. C’è un oggi che sfida il respiro ultimo.

Il malfattore chiedeva un ricordo, un accesso di grazia. E Gesù promette oggi la sua vicinanza. Sarai con me per non essere solo. Sarai con me perché il regno è festa di comunione. Sarai con me e questo basta. Sarai con me nel paradiso. Il giardino si riapre, lo spazio si fa comunione, l’incontro diventa dono e gratuità. 

La festa di Cristo, Re dell’universo, chiudendo l’anno apre il tempo e lo sfonda, lo riempie di una presenza che viene da lontano e da oltre. Nello scorrere del tempo e degli anni quel regno avanza e si fa spazio, anzi siamo noi, di giorno in giorno, che veniamo introdotti sempre più dentro nel suo regno di luce.

Ringraziate con gioia il Padre
che vi ha resi capaci di partecipare
alla sorte dei santi nella luce.
È lui che ci ha liberati dal potere delle tenebre
e ci ha trasferiti nel regno del Figlio del suo amore,
per mezzo del quale abbiamo la redenzione,
il perdono dei peccati
(Col 1,12-14)

Liturgia della Parola

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