Solo uno è l’albero buono

VIII Domenica Tempo Ordinario C (Sir 27,5-8, (NV) [gr. 27,4-7]; 1Cor 15,54-58; Lc 6,39-45)

Venti di guerra scuotono la terra e le travi che abbiamo negli occhi, quelle che finora abbiamo fatto finta di non vedere, non possiamo più nascondercele. Siamo tutti chiamati in causa, tutti complici nella gestione delle cose del mondo, delle ricchezze e del benessere, delle relazioni e delle concessioni al male che abbiamo fatto per interesse, con la speranza, inutile e vana, che il male non venisse mai fuori. E ora non possiamo meravigliarci se quest’albero produce ancora frutti cattivi, se solo il fosso è la meta di ciechi che hanno fatto da guida ad altri ciechi. E proprio ora, in questo contesto di tenebra, c’è ancora una Parola che ci inchioda a ciò che è attuale. 

Quando si scuote un setaccio restano i rifiuti;
così quando un uomo discute, ne appaiono i difetti.
I vasi del ceramista li mette a prova la fornace,
così il modo di ragionare è il banco di prova per un uomo
(Sap 27,4-5)

Sono principi di saggezza umana e criteri di buon senso. Il modo in cui l’uomo discute e ragiona rivela la verità del suo cuore. Servono a poco le belle intenzioni, servono a nulla le parole di circostanza. Ci sono momenti, e sono in genere quelli difficili, in cui la vita e le vicende diventano un setaccio che scuote tutto e permette di vedere nel cuore di ognuno. Si possono avere mille buone motivazioni, ma tutto dipende da come sappiamo discutere, da come sappiamo incontrarci quando le idee sono diverse, quando i pensieri non convergono e si confrontano le differenze. E il setaccio è spesso offerto proprio dal nemico, da coloro che non sopportiamo, da quelli che ci fanno del male. Sono loro ad offrirci l’occasione di uscire allo scoperto, di far emergere il nostro modo di ragionare e il nostro modo di vivere. È davanti a loro che mostriamo chi siamo davvero.

Ci vuole il fuoco di una fornace per provare la resistenza di un vaso, ci vuole il fuoco di situazioni che non ci piacciono e ci mettono alla prova per farci vedere che cosa abbiamo nel cuore. Sono quelli i momenti in cui non riusciamo a fingere.

Il frutto dimostra come è coltivato l’albero,
così la parola rivela i pensieri del cuore.
Non lodare nessuno prima che abbia parlato,
poiché questa è la prova degli uomini
(Sap 27,6-7)

Ed è proprio al linguaggio, noi discepoli del Verbo, che dovremmo prestare attenzione. Sono le parole che usiamo a dire chi siamo e cosa pensiamo. È il modo in cui reagiamo davanti a ciò che non condividiamo a dire la bontà di ciò che vogliamo essere e vogliamo donare. A volte sembriamo mossi da buone intenzioni, da finalità che sanno di Vangelo, e poi le nostre parole e il nostro linguaggio ci tradiscono, ci fanno uscire allo scoperto, rivelano i pensieri nascosti del cuore. Le parole che usiamo sono come i frutti dell’albero, rivelano di cosa ci siamo nutriti, di quali parole abbiamo fatto tesoro, di quale messaggio abbiamo incarnato. 

Non si tratta di garbo e buone maniere, di gentilezza e cortese attenzione (e magari iniziassimo anche a coltivare queste delicatezze umane, che, se sincere, alleggeriscono il cuore e rendono più sorridente la vita) ma di rendere vero, effettivo e concreto l’amore. Anche quello verso chi sbaglia, anche quello per coloro che non sono dei nostri, per coloro che ci hanno ferito e fatto del male. Sono le nostre parole, quelle che diciamo davanti a chi sbaglia o si è fatto nostro nemico, a rivelare quanto viviamo l’amore, quanto riusciamo ad essere pace.

Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso? Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro (Lc 6,39-40)

Sono detti paradossali, che scuotono e rompono la nostra inerzia. Chi potrà mai guidare qualcuno? Chi può essere guida? Solo un discepolo che accetta di non saperne di più del maestro, che non cede alla tentazione di fare diversamente da lui, di inventare strade più semplici e ordinarie. Un discepolo non può superare il maestro, non può essere più di lui. E noi sappiamo che per essere come il maestro dobbiamo pagare personalmente, perché l’amore che lui ci ha insegnato chiede sempre un conto salato. Essere preparato come il maestro non è questione di sapere cose, ma di ricordare dove conduce la strada, di conoscere dove porta il cammino. Ogni discepolo, che ha ricevuto ciò che il maestro gli ha donato, deve essere come lui e stare lì dove egli è stato. Non è una promessa di dominio e di potere. Ma un avvertimento difficile, dal quale ci viene voglia di fuggire lontano. Essere come il maestro è restare piegati a lavare i piedi di chi ci tradisce, è accettare di restare soli quando scegliamo di donare la vita per gli altri. Essere come il maestro non è impartire lezioni, ma accogliere l’amore che ci istruisce e fa diventare la nostra vita l’unico esempio che possiamo donare, l’unica lezione che possiamo offrire.

Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? Come puoi dire al tuo fratello: “Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio”, mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello (Lc 6, 41-42)

È difficile accorgersi di chi ci è di fronte se il nostro occhio è occupato da travi. È ridicolo il tentativo di ergerci a giudici di tutti e di tutto, a insindacabili detentori di poteri e di verità. Dobbiamo prima curare la vista e liberare il nostro sguardo. Per guardare e curare l’occhio dei nostri fratelli, dobbiamo, con paziente umiltà, scavare il fondo del nostro occhio, pulirlo da ciò che lo inquina. Ci vuole il coraggio di sapersi imperfetti, di sapere che il nostro sguardo è spesso malato, che la nostra ansia perché tutto sia a posto è solo paura perché non sopportiamo di guardarci allo specchio e di guardarci dentro. Ci impegniamo con forza brutale a togliere le pagliuzze degli altri perché abbiamo paura di dover fare i conti con le nostre travi. Dobbiamo prima provare il dolore di sradicare la trave dal nostro occhio, per avere tutta la cura e delicatezza, tutto il tatto e l’accortezza necessari per togliere le pagliuzze dagli occhi di chi ci è accanto. 

Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo, né vi è d’altronde albero cattivo che produca un frutto buono. Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto. L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda. (Lc 6,43-44a.45)

E forse solo un albero è quello buono, solo uno è l’albero che dà frutti buoni. Solo guardando e accogliendo la croce, solo guardando al frutto che da lei ci è donato, possiamo imparare ad essere discepoli, possiamo recuperare la vista, possiamo persino guidare i fratelli, possiamo aiutarli a vedere meglio. 

Ogni discepolo sarà come il maestro, sarà amore che dona se stesso, salirà con lui sulla sua croce, perché l’altro, anche chi sbaglia, si sappia amato e perdonato. 

La nostra vita e la nostra fede si riconoscono solo da questo, se sappiamo produrre gli stessi frutti del nostro maestro, se sappiamo, cioè, farci frutto ed essere cibo, essere amore e donare perdono, essere cura e donare sollievo. 

Non accumuliamo nel cuore tesori e certezze umane, ricchezze e presunzioni, convinzioni e cose mondane. Il cuore di ognuno sia solo custode del frutto buono, dell’amore che ci è stato donato. Il buon tesoro del nostro cuore è solo il Maestro e la sua croce. E allora potremo discutere e ragionare perché dalla bocca uscirà solo il bene, solo l’amore che sana e perdona, solo la vita che sovrabbonda perché abbiamo imparato a donarla.

Liturgia della Parola

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