Dio cerca casa e dimora

VI Domenica di Pasqua (At 15,1-2.22-29; Ap 21,10-14.22-23; Gv 14,23-29)

Siamo condotti al cuore del nostro credere e al centro del nostro tempo, al senso più vero di ciò che viviamo. Perché credere è dare a Dio nuova carne, farlo entrare ancora in questo mondo perché sia presenza viva e luminosa. Non c’è bisogno di salire al cielo, di solcare distanze e sfidare altezze, c’è semmai urgenza di accogliere qui in basso ciò che dall’alto ci è stato donato, di accettare che venga un Dio ad abitare oggi la nostra storia. C’è bisogno di rendere viva, nelle vicende di questo tempo, la memoria e la presenza di quelle parole che ci hanno svelato il suo volto di Padre.

E scopriremo che a Dio che non serve un tempio e una tenda, perché vuole renderci sua casa e dimora e, vinto ogni timore e turbamento, vivremo la pace, la sua presenza in ogni anfratto della nostra vita. 

Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui (Gv 14,23)

È sempre l’amore l’origine dell’ascolto e della fede, dell’obbedienza e dell’osservanza. Tutto nasce da una spinta d’amore. Se uno mi ama perché solo amando si può accogliere Dio, solo amando si accoglie l’amore. E il nostro amore è sempre risposta, è sempre apertura ad un amore che ci precede. Non puoi credere se non lo ami, se non senti che la tua vita è stata amata. E allora l’amore si fa ascolto e osservanza, perché ascoltare è accogliere l’altro, è offrire a lui un po’ di spazio, è farlo entrare dentro di te. Ascoltare il Figlio, Parola del Padre, è amare l’amore con cui siamo amati, è lasciare che esso ci invada, che ci penetri in ogni fessura. Amare il Figlio è sapere che siamo amati, è riconoscere che il Padre nel Figlio ci ha detto se stesso. E allora l’amore è aprire la vita, è accogliere Dio che si è donato, è offrire a Dio una nuova casa. 

E sorprende che questo Dio sia ancora ramingo, ancora fuori e in cerca di casa, ancora esule in cerca di patria, di una dimora, di un luogo che sappia accoglierlo, di uno spazio in cui possa restare. 

E a noi che immaginiamo sempre di dover andare dove Dio si trova, di dover essere dove lui è, giunge inattesa questa nuova proposta. Il Padre e il Figlio cercano casa, cercano un luogo in cui dimorare, cercano una carne in cui rivelarsi, un corpo in cui ancora donarsi.

Dio prende dimora presso di noi, si fa vicino e si fa nostro per rendere questo tempo e questo mondo, sempre più odiosi, un luogo in cui l’amore sia ancora di casa, in cui l’amore sia accolto e donato. Ma tutto è lasciato nelle nostre mani, tutto è affidato alle nostre scelte.

Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi (Gv 14,24)

Tutte le cose che il Figlio ci ha detto sono il racconto del volto di Dio. Queste cose, dette e vissute, sono l’annuncio dello stile di Padre, sono il riflesso della sua presenza. E dovremmo smetterla allora di immaginare, di fare ipotesi ed elucubrare su Dio e sull’uomo. Ogni pensiero e visione su Dio va provata su quelle parole, va verificata su quel vissuto, perché è il Figlio che nei suoi gesti e nelle parole ci rivela il criterio e il senso divino. Il Dio sconosciuto ha rivelato se stesso e il Dio nascosto ha mostrato il suo volto.

Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto (Gv 14,26)

Noi non abbiamo visto il volto del Figlio ed egli non è presso di noi come lo fu un tempo. Eppure quando ascoltiamo le sue parole di un tempo, egli si fa vicino e ci parla ancora, riempie di sé il nostro tempo. Anzi, non si limita a dirci parole, ma ci dona lo Spirito, che rende viva la sua presenza, che rende nuove le sue parole, che rinnova i suoi gesti d’amore. 

Ma l’amore è incontro continuo, è presente che diventa futuro. E come in ogni incontro e in ogni parola, così anche con Dio tu non possiedi se non il dono che riesci ad accogliere, tu non conosci se non l’amore che riesci a vedere, se non l’amore che riesci a donare. 

Abbiamo bisogno di questo Spirito, di questo soffio che soffia in noi le parole divine. È lo Spirito che ci insegna ogni cosa, che ci rivela il senso di tutto, perché le parole del Padre e del Figlio restino vive nella nostra vita.

Lo Spirito ci fa fare memoria, ci fa portare al cuore, ci fa vedere che quella parola è ancora viva, che quella proposta è sempre attuale. È lo Spirito a ricordarci, mentre viviamo in questo tempo, che quelle parole sono per sempre e chiedono oggi di essere accolte, di visitare le nostre vicende, di dare un senso alle nostre scelte. Ricordare le parole del Figlio significa renderle vive nella nostra vita. Significa rendere vivo il suo essere Figlio, permettere a lui di agire ancora, di farsi vedere nella nostra vita. 

Lo Spirito è il testimone che ricorda a noi che vita vivere, che Dio accogliere e che Dio amare. È lo Spirito a imprimere in noi le parole del Padre, a disegnare in noi il volto del Figlio, a prendere la nostra vita e a farne un calco fedele di quella Parola, un calco nuovo per tempi nuovi. Lo Spirito è il modo in cui il Padre e il Figlio vengono in noi per rivelarsi, per mostrare, nella nostra vita, che quelle parole sono vere, che quell’amore è storia concreta, che il volto di Dio è volto che vive in ogni uomo e in ogni tempo. E allora noi e la Chiesa dovremmo badare a non far tacere quella memoria, a rendere vivo il suo ricordo, a rendere nuova quella parola. 

Abbiamo bisogno di ricordare! Di porre al centro le sue parole che svelano il volto del Padre. Ogni volta che ci perdiamo nei meandri della fede, delle nozioni e delle morali, delle diatribe e delle contese, lo Spirito spinge in noi e ci sprona a fare memoria, a ricordarci ciò che egli ci ha detto, a ricordarci che il Padre in lui ha detto se stesso e ha rivelato il suo nome. Abbiamo sempre bisogno di accogliere Dio, di far risuonare la sua parola, di farne memoria, perché le cose dette da lui in tempi passati siano vive nel nostro oggi, siano attuali nel nostro mondo, siano concrete in questa storia. Ed è questa memoria che spesso ci manca, perché impegnati a sistemare tante cose, dimentichiamo che ci manca l’amore per amare Dio, ci manca una vita che sia resa ospitale, ci manca un cuore che diventi dimora. Ed allora la fede diventa idea, cose confuse che non hanno senso, credenze e nozioni che restano vuote, morali e norme che restano vane.

Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi (Gv 14,27a)

Abbiamo bisogno di pace! Abbiamo bisogno di amore, abbiamo bisogno di sentire che tutto può essere riconciliato, sanato e salvato. Solo il Figlio può dare la pace, perché dona il Padre donando se stesso. Noi chiamiamo pace l’esito delle guerre, il fallimento di strategie, la resa e l’offesa per trarne vantaggio. E invece la pace è avere Dio nella propria vita, è offrirsi a Dio come dimora, come luogo in cui possa abitate. La pace è dono che racchiude ogni dono, perché è avere Dio e solo lui basta. E con la pace accolta nel cuore possiamo amare ogni fratello, perdonare ogni nemico, avere pietà per ogni uomo.

Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore.
Avete udito che vi ho detto: “Vado e tornerò da voi”. Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me. Ve l’ho detto ora, prima che avvenga, perché, quando avverrà, voi crediate
(Gv 14,27b-29)

Quando il cuore è turbato e il timore prende spazio, quando sembra egli sia assente e lontano non è perché ci ha lasciato o abbandonato. È solo perché ha scelto questo mondo come sua casa, come suo tempio e sua dimora. E allora è qui che possiamo ascoltarlo, lasciando che lo Spirito ci ricordi le sue parole per farlo vivere nella nostra carne. E la gioia sprigiona dal cuore, perché nessuno può rubarci l’amore, perché è questa terra il nuovo tempio, città terrena e divina insieme e, quando il buio ci sembra ostile, abbiamo con noi l’unica luce, l’unica lampada che fa vedere ogni cosa, l’Agnello immolato, ritto e glorioso, e, alla luce del suo amore vincente, noi vediamo la nostra strada.

L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scende dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio. Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino.
È cinta da grandi e alte mura con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d’Israele. A oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte e a occidente tre porte.
Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello.
In essa non vidi alcun tempio:
il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello

sono il suo tempio.
La città non ha bisogno della luce del sole,
né della luce della luna:
la gloria di Dio la illumina
e la sua lampada è l’Agnello
(Ap21,10-14,22-23)

Liturgia della Parola

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